La svolta che Renzi non vede 
di Gaetano Azzariti 
A SVOLTA CHE RENZI NON VEDE
di  Gaetano Azzariti, 14 luglio 2014
Il
 rischio di una svolta autoritaria fa sorridere il nostro 
Presidente del Consiglio. Forse perché egli ritiene che sia 
un’accusa rivolta alla sua persona, e Matteo Renzi non si vede nelle 
vesti del dictator romano. Non è difficile dargli ragione: nessun 
Cesare si scorge all’orizzonte.
Riducendo tutto ad una battuta, però, non ci si avvede della sostanza del problema.
Se
 allora volessimo discutere seriamente della “svolta autoritaria” 
dovremmo rivolgere l’attenzione alle più profonde trasformazioni 
che nel corso degli ultimi anni hanno riguardato l’assetto dei poteri 
e il modello di democrazia. È su questo terreno che si registra 
un’involuzione di lungo periodo che non fa affatto sorridere, ma che 
spiega molto del presente e delle politiche attuali.
Da
 tempo ormai gli studiosi hanno segnalato il passaggio che ha 
portato la nostra democrazia rappresentativa a conformarsi come
 “democrazia d’investitura”. Un modello che ha in sé connotati 
autoritari e sconta una riduzione del pluralismo sociale 
e politico. A che vale negarlo? Per di più — anche questa è una 
constatazione ormai banale — le logiche di un tale modello 
asfittico di democrazia sono state favorite nei tempi più recenti 
dall’estendersi della componente plebiscitaria (ovvero, nella sua 
forma degenerata, populista) entro i nostri sistemi politici. Così 
si spiegano tanti successi politici repentini, costruiti sull’onda 
dell’emozione più che su quella della ragione. Perché non ammetterlo?
Anziché
 negare l’evidenza varrebbe la pena riflettere sui caratteri di 
questa torsione delle democrazie per poi scegliere “da che parte 
stare”: se operare per conservare e perfezionare lo stato di cose 
esistenti, ovvero tentare di invertire la rotta.
Non
 è neppure difficile cogliere gli elementi di fondo delle 
trasformazioni in atto. Si pensi al terreno propriamente politico
 ed istituzionale. Chi può negare, ad esempio, che l’intera sfera 
della politica sia ormai tendenzialmente ricondotta al solo momento
 elettorale. E questo viene semplificato, facendo astrazione del 
suo contenuto reale, riducendolo ad un forma spettacolare e un 
po’ teatrale di duello, neppure più tra forze politiche, tra 
programmi, bensì tra leader. Lotta tra capi che si identificano con
 un popolo e il cui carisma è legato all’immagine che essi riescono 
a trasmettere di sé, non necessariamente invece a concreti 
programmi politici di cambiamento. Il cambiamento — semmai ci 
sarà — avverrà dopo la vittoria e sarà il leader a definirne la 
direzione, legittimato da un voto alla persona che gli permette 
qualunque scelta (in base al classico principio identitario che 
attribuisce al capo il ruolo di interprete della volontà del popolo).
 Per questo quel che conta non è garantire il pluralismo, la 
rappresentanza reale degli interessi sociali e culturali, bensì 
esclusivamente la decisione e la possibilità di governare.
Al
 conflitto e alle esigenze di mediazione che la democrazia 
pluralista impone, con le conseguenti lentezze per la ricerca del 
consenso e del compromesso tra le forze politiche, si 
contrappongono la velocità e l’innovazione come valori in sé, come 
categorie post-politiche, se non direttamente anti-politiche.
Cambiamenti
 energicamente caldeggiati, ma il cui contenuto specifico s’è 
ormai affrancato dalla politica intesa come regolazione di 
interessi entro una prospettiva di emancipazione complessiva. 
Trasformazioni che, perlopiù, si limitano ad assecondare le 
tendenze in atto, liberamente interpretate da chi governa. 
Mutamenti che, in ogni caso, non hanno bisogno di essere 
giustificati: il distacco dalla società e dalla rappresentanza 
reale rende la politica autosufficiente, comunque in grado di 
governare anche se espressione di una sempre più ridotta minoranza. 
Il potere si svincola sempre più dal consenso della maggioranza dei
 consociati. Il popolo, reso spettatore, potrà assistere alla 
recita che la politica dà di se stessa. Qualcuno potrà applaudire, 
altri scuotere il capo, magari anche indignarsi, in ogni caso però 
è sul palco che va in scena la spettacolo e dai loggioni si può solo 
guardare.
Queste
 tendenze di mutazione profonda delle nostre democrazie non sono 
recenti né limitate al nostro Paese. In Italia, da almeno vent’anni 
assistiamo ad una progressiva verticalizzazione del sistema 
politico e istituzionale, ad una riduzione della rappresentanza.
 L’affermarsi del modello maggioritario ne costituisce il suo 
esemplare riflesso.
Se
 questo è il quadro dell’esistente osservo, semplicemente, che le 
grandi riforme annunciate, con la predisposizione della nuova legge
 elettorale ipermaggioritaria, accompagnata da una modifica 
della costituzione confusa, nonché sostenuta da un’ulteriore 
concentrazione dei poteri nelle mani dell’esecutivo e, in 
particolare, del Presidente del Consiglio, si pongono in 
sostanziale continuità con il passato. Passi ulteriori compiuti 
nella direzione della costruzione della contemporanea 
“democrazia identitaria”. Un esito cui si deve pervenire, sempre
 che si voglia guardare al fondo dei problemi e delle tendenze in 
atto, senza fermarsi invece alla superficie del cambiamento 
messianicamente annunciato.
Se
 si volesse provare ad uscire dalla palude, segnando una soluzione di 
continuità con il passato, dovremmo ricercare soluzioni ben più 
radicali e critiche rispetto alla nostra storia recente. Dovremmo 
ricercare una soluzione di continuità. Potremmo magari provare ad 
aprire le porte alla rappresentanza reale, favorendo la 
partecipazione e la cittadinanza attiva. Scommettere sulla 
complessità e non sulla semplificazione della politica (del suo 
linguaggio, del suo operare), valorizzare il conflitto come 
strumento per fare evolvere la società e la cultura del pluralismo
 e non strozzare ogni differenza accusata di rappresentare solo 
un ostacolo al cambiamento. Ma poi quale cambiamento?
da il manifesto del 15 luglio 2014
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Riducendo tutto ad una battuta, però, non ci si avvede della sostanza del problema.
Se allora volessimo discutere seriamente della “svolta autoritaria” dovremmo rivolgere l’attenzione alle più profonde trasformazioni che nel corso degli ultimi anni hanno riguardato l’assetto dei poteri e il modello di democrazia. È su questo terreno che si registra un’involuzione di lungo periodo che non fa affatto sorridere, ma che spiega molto del presente e delle politiche attuali.
Da tempo ormai gli studiosi hanno segnalato il passaggio che ha portato la nostra democrazia rappresentativa a conformarsi come “democrazia d’investitura”. Un modello che ha in sé connotati autoritari e sconta una riduzione del pluralismo sociale e politico. A che vale negarlo? Per di più — anche questa è una constatazione ormai banale — le logiche di un tale modello asfittico di democrazia sono state favorite nei tempi più recenti dall’estendersi della componente plebiscitaria (ovvero, nella sua forma degenerata, populista) entro i nostri sistemi politici. Così si spiegano tanti successi politici repentini, costruiti sull’onda dell’emozione più che su quella della ragione. Perché non ammetterlo?
Anziché negare l’evidenza varrebbe la pena riflettere sui caratteri di questa torsione delle democrazie per poi scegliere “da che parte stare”: se operare per conservare e perfezionare lo stato di cose esistenti, ovvero tentare di invertire la rotta.
Non è neppure difficile cogliere gli elementi di fondo delle trasformazioni in atto. Si pensi al terreno propriamente politico ed istituzionale. Chi può negare, ad esempio, che l’intera sfera della politica sia ormai tendenzialmente ricondotta al solo momento elettorale. E questo viene semplificato, facendo astrazione del suo contenuto reale, riducendolo ad un forma spettacolare e un po’ teatrale di duello, neppure più tra forze politiche, tra programmi, bensì tra leader. Lotta tra capi che si identificano con un popolo e il cui carisma è legato all’immagine che essi riescono a trasmettere di sé, non necessariamente invece a concreti programmi politici di cambiamento. Il cambiamento — semmai ci sarà — avverrà dopo la vittoria e sarà il leader a definirne la direzione, legittimato da un voto alla persona che gli permette qualunque scelta (in base al classico principio identitario che attribuisce al capo il ruolo di interprete della volontà del popolo). Per questo quel che conta non è garantire il pluralismo, la rappresentanza reale degli interessi sociali e culturali, bensì esclusivamente la decisione e la possibilità di governare.
Al conflitto e alle esigenze di mediazione che la democrazia pluralista impone, con le conseguenti lentezze per la ricerca del consenso e del compromesso tra le forze politiche, si contrappongono la velocità e l’innovazione come valori in sé, come categorie post-politiche, se non direttamente anti-politiche.
Cambiamenti energicamente caldeggiati, ma il cui contenuto specifico s’è ormai affrancato dalla politica intesa come regolazione di interessi entro una prospettiva di emancipazione complessiva. Trasformazioni che, perlopiù, si limitano ad assecondare le tendenze in atto, liberamente interpretate da chi governa. Mutamenti che, in ogni caso, non hanno bisogno di essere giustificati: il distacco dalla società e dalla rappresentanza reale rende la politica autosufficiente, comunque in grado di governare anche se espressione di una sempre più ridotta minoranza. Il potere si svincola sempre più dal consenso della maggioranza dei consociati. Il popolo, reso spettatore, potrà assistere alla recita che la politica dà di se stessa. Qualcuno potrà applaudire, altri scuotere il capo, magari anche indignarsi, in ogni caso però è sul palco che va in scena la spettacolo e dai loggioni si può solo guardare.
Queste tendenze di mutazione profonda delle nostre democrazie non sono recenti né limitate al nostro Paese. In Italia, da almeno vent’anni assistiamo ad una progressiva verticalizzazione del sistema politico e istituzionale, ad una riduzione della rappresentanza. L’affermarsi del modello maggioritario ne costituisce il suo esemplare riflesso.
Se questo è il quadro dell’esistente osservo, semplicemente, che le grandi riforme annunciate, con la predisposizione della nuova legge elettorale ipermaggioritaria, accompagnata da una modifica della costituzione confusa, nonché sostenuta da un’ulteriore concentrazione dei poteri nelle mani dell’esecutivo e, in particolare, del Presidente del Consiglio, si pongono in sostanziale continuità con il passato. Passi ulteriori compiuti nella direzione della costruzione della contemporanea “democrazia identitaria”. Un esito cui si deve pervenire, sempre che si voglia guardare al fondo dei problemi e delle tendenze in atto, senza fermarsi invece alla superficie del cambiamento messianicamente annunciato.
Se si volesse provare ad uscire dalla palude, segnando una soluzione di continuità con il passato, dovremmo ricercare soluzioni ben più radicali e critiche rispetto alla nostra storia recente. Dovremmo ricercare una soluzione di continuità. Potremmo magari provare ad aprire le porte alla rappresentanza reale, favorendo la partecipazione e la cittadinanza attiva. Scommettere sulla complessità e non sulla semplificazione della politica (del suo linguaggio, del suo operare), valorizzare il conflitto come strumento per fare evolvere la società e la cultura del pluralismo e non strozzare ogni differenza accusata di rappresentare solo un ostacolo al cambiamento. Ma poi quale cambiamento?
Fonte: Il Manifesto 15 luglio 2014

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