10 luglio 2014

CONTRO GLI ECCESSI DELLA RAGIONE

Proponiamo di seguito uno stralcio del capitolo introduttivo di La ragione e i suoi eccessi, uscito per la collana "Campi del Sapere" di Feltrinelli, pubblicato questa mattina da http://www.nazioneindiana.com/
 Il suo autore, Paolo Costa, è un filosofo e si è occupato, tra gli altri,  di Hannah Arendt e Charles Taylor. 

LA RAGIONE E I SUOI ECCESSI
 di Paolo Costa
Introduzione
1.
Chiunque si occupi professionalmente di filosofia – più brutalmente: chiunque venga retribuito per “fare il filosofo” – sa che c’è un non detto che aleggia nell’aria quando si conversa con persone che non hanno nessun rapporto né professionale né episodico con la disciplina, Erving Goffman l’avrebbe definito uno “stigma”. È una domanda allo stesso tempo prevedibile e imbarazzante che suona più o meno così: “scusi l’ignoranza, ma che cosa esattamente fa un filosofo?” (Come in un film di Woody Allen, il suono delle parole conta meno dei sottotitoli che recitano: “che cosa fa di utile un filosofo?”)

Finché un filosofo si limita a insegnare, la sua stranezza rimane confinata nella dimensione, pur sempre enigmatica ma in genere non problematizzata, della formazione della persona e del carattere (la misteriosa transustanziazione della prima nella seconda natura), ma non appena fuoriesce dalle aule scolastiche e si infila tra le strade o nelle case delle nostre città la sua presenza suscita perplessità, se non aperto sconcerto.
Nell’estate del 2012 il corrispondente da Roma del quotidiano inglese “The Guardian”, John Hooper, ha raccontato ai lettori d’oltremanica, con un tono per metà accondiscendente e per metà ammirato, l’ultima stravaganza italiana: l’apertura, a Corigliano d’Otranto – proprio nel bel mezzo della Magna Grecia – di uno sportello per la consulenza filosofica creato per “aiutare le persone a pensare chiaramente”. I commenti dei lettori, oscillanti tra l’ovazione e il sarcasmo, erano concordi nell’esprimere stupore di fronte a una simile scelta. Ma questo tipo di reazione non è un’esclusiva inglese. Anche in Italia, uno dei paesi tradizionalmente più ospitali nei confronti del sapere filosofico, da alcuni anni la curiosità giornalistica intorno all’introduzione della figura del “consulente filosofico di quartiere” o del “filosofo in corsia” si accende e si spegne ciclicamente secondo uno schema consolidato: repentino scoppio d’interesse, moderato approfondimento, vago scetticismo, indifferenza finale.
D’altro canto, come si può argomentare a favore dell’utilità della filosofia? Nell’epoca della proliferazione dei saperi specialistici, che si giustificano in genere per la quantità di informazioni affidabili e utilizzabili che riescono a fornire alla comunità scientifica e, di riflesso, alla società nel suo insieme, non è facile spiegare in che cosa consista la “specialità” del filosofo. C’è qualcosa di sospettosamente eccedente, persino di eccentrico, in una forma di conoscenza che sembra essere sopravvissuta per motivi imponderabili alla fine della sua missione storica.
Non si tratta di un problema nuovo, ovviamente. E il punto non è che il prevedibile miscuglio di ammirazione e sarcasmo che viene riversato oggi sulla pratica della consulenza filosofica potrebbe essere facilmente interpretato come l’ennesima reincarnazione storica del riso della servetta tracia di fronte all’inettitudine di Talete. Più importante è che negli ultimi duecento anni i filosofi si siano spesso fatti trascinare in una lotta all’ultimo sangue per giustificare la propria esistenza e il proprio valore.
Dopo Hegel, che per motivi non facilmente decifrabili – in genere attribuiti al suo ruolo storico epigonale – non aveva esitazioni a difendere la supremazia della filosofia alla luce della superiorità del suo oggetto di indagine (il “Tutto”), i filosofi occidentali hanno dovuto dare fondo a tutta la loro immaginazione dialettica per difendere il proprio status di nobili decaduti.
Si pensi per esempio a chi, come Marx, ha scelto di fare leva sull’alleanza naturale tra filosofia e rivoluzione. Dal punto di vista del fondatore del materialismo storico, la non specializzazione della filosofia, la sua disfunzionalità rispetto alla logica autoconservativa dell’ordine sociale esistente, avrebbe dovuto facilitarle l’assunzione di un atteggiamento critico, radicalmente riflessivo verso le pratiche sociali e le opache relazioni di potere su cui esse poggiano. Il problema, come afferma la citatissima undicesima Tesi su Feuerbach, è convincere i filosofi che, se finora “si sono limitati a interpretare diversamente il mondo, è venuto il momento di cambiarlo” e, cosa ancora più complicata, a riconoscere nel proletariato, come scrisse provocatoriamente Engels, il vero “erede della filosofia classica tedesca”.
Non è però indispensabile immaginare la filosofia come levatrice del cambiamento storico per difenderne l’utilità. Certo, schierarsi dalla parte del progresso era un buon modo per assicurarsi una solida rendita di posizione in un secolo galvanizzato dalle novità come l’Ottocento. A tal fine, Marx pretendeva dalla filosofia la rinuncia alla sua tradizionale predilezione per la vita contemplativa, ma le consentiva comunque di mantenere, nella sua veste moderna di critica sovraordinata (o metacritica), una posizione predominante rispetto agli altri saperi (e con essa anche una rassicurante dose di superbia). Si può però filosofare con il martello, tanto per citare una delle invenzioni linguistiche meno felici di Nietzsche, non solo nell’intento di rimuovere gli ostacoli che intralciano la marcia verso il futuro, ma anche perché ci si rifiuta di rendersi complici di una catastrofe culturale. E, in effetti, una porzione consistente della filosofia posthegeliana ha esercitato il proprio ruolo di avanguardia della riflessività umana non invitando a scommettere sul futuro, ma annunciando e deplorando l’avvento di una fase di decadenza della storia umana. La mediocrità, la grettezza e la superficialità della società borghese sono sempre stati un bersaglio facile per i nostalgici delle insondabili profondità filosofiche. Fine della metafisica e civiltà industriale potevano perciò essere facilmente abbinate e apparire come i sintomi di una trasformazione epocale il cui senso era difficile da decifrare e richiedeva un acume e un intelletto tutt’altro che ordinari. In una società che corre, è difficile negare l’utilità di chi mette in guardia con buone ragioni contro le sventure che si profilano all’orizzonte. E il ruolo di Cassandra inascoltata si addiceva perfettamente alla nuova figura dell’intellettuale militante la cui fortuna storica ha rappresentato un elemento distintivo dell’epoca della mobilitazione.
Dare voce alle frustrazioni e insoddisfazioni delle vittime della modernizzazione e – perché no? – dei suoi beneficiari non complici non era, però, la sola alternativa rimasta ai cultori dell’investigazione filosofica. Per i temperamenti meno inclini all’impegno politico o alla diagnosi del tempo era aperta anche la via di un’alleanza strategica con l’altra divinità ottocentesca: non la storia, in questo caso, ma la scienza. Sono non pochi i pensatori che hanno intravisto la soluzione al problema del contributo della filosofia alla moderna quest for certainty (come la chiamava Dewey) nell’impiego dell’immenso patrimonio da essa accumulato nel corso dei secoli in vista della chiarificazione dei fondamenti epistemologici dei progressi sempre più incontestabili delle scienze naturali (la fisica, in primis, ma anche la chimica, la biologia). In questa ottica, l’alternativa naturale al “negativismo” della critica sociale poteva essere solo il “positivismo” di una chiarificazione delle condizioni di possibilità della fecondità di un sapere prodotto al di fuori della cerchia dei filosofi. L’obiettivo in questo caso non era rovesciare l’esistente evidenziando le contraddizioni allo stesso tempo teoriche e pratiche dello stato di cose presente, ma favorire il progresso con una prestazione intellettuale all’apparenza modesta: making sense of science.
Fin dall’inizio, tuttavia, il problema principale di questo approccio è stato quello di trovare degli interlocutori. Se c’è una cosa che i filosofi della scienza sanno per certo è che gli scienziati rintanati nei laboratori sono poco interessati alle interminabili discussioni sui fondamenti e preferiscono aderire a un pragmatismo o a un realismo rilassato che agli occhi sofisticati dei filosofi possono apparire ingenui, ma che sono perfettamente adeguati allo scopo di far marciare le indagini scientifiche alla massima velocità. È superfluo sottolineare quanto possa risultare imbarazzante constatare il disinteresse di coloro sui quali contavi come principali partner e alleati in un processo di rinnovamento del pensiero e trovarsi invece condannati a discutere all’infinito proprio con quanti incarnano ai tuoi occhi il passato da cui desideravi affrancarti.
È a questo punto che una possibile via d’uscita dall’antagonismo senza sbocchi tra contestatori e fiancheggiatori dell’esistente, stretto tra il sogno del “compimento” del concetto di ragione e la sua “funzionalizzazione”, ha cominciato a prendere forma intorno all’obiettivo della “normalizzazione” della filosofia ed è diventata quasi senso comune con l’attenuarsi dei grandi conflitti ideologici del “secolo breve”. Per esprimersi in un lessico parapsicanalitico, l’intuizione sottostante a questa riformulazione dei fini e dei compiti della filosofia è che essa abbia anzitutto bisogno di essere curata dalle sue fantasie narcisistiche. In altri termini, ciò che le serve è, più di ogni altra cosa, un bagno d’umiltà. Bando dunque ai sogni fondazionalisti, e spazio a una visione della filosofia come terapia, anzi come autoterapia. La filosofia, in questa prospettiva, ha bisogno soprattutto di darsi pace e di esorcizzare le angosce a cui si condanna da sé, il più delle volte per un errore di messa a fuoco dei problemi.
Il nodo da sciogliere è, a seconda dei gusti, un problema di chiarificazione linguistica o una profonda revisione dell’immaginario metafisico. In entrambi i casi esistono dei tranelli e il compito del filosofo è solo quello di sistemare nei punti giusti dei segnali che mettano in guardia allo stesso titolo i dotti e gli ignoranti del rischio a cui vanno incontro. A tal fine, non c’è bisogno di approntare chissà quali novità teoriche, basta fare leva su cose che tutte le persone coinvolte conoscono già.
Nell’orizzonte dischiuso all’investigazione filosofica dal nuovo orientamento terapeutico hanno trovato spazio nuove parole d’ordine, tutte improntate a una forma vaga di quietismo teorico: decostruzioni di ogni genere, filosofie edificanti, pensieri deboli, analisi del linguaggio comune, nuove alleanze tra filosofia e letteratura. Ma, una volta curati dai loro disturbi comportamentali, dal loro egocentrismo, dalle loro paure ingiustificate, quali e quante vie restano aperte per i filosofi meno disposti a rinunciare alla funzione strategica degli argomenti rigorosi? A prima vista, quando non sfocia in una più o meno esplicita dichiarazione di fallimento, a malapena celata dietro l’etichetta apparentemente bonaria di “naturalizzazione” dei tradizionali interrogativi metafisici, la normalizzazione della filosofia ha significato essenzialmente (a) il suo frazionamento in sottodiscipline prive di aspirazioni sintetiche (la logica, la filosofia del linguaggio, la filosofia politica, la filosofia della matematica, ecc.), (b) l’assunzione dei criteri valutativi e dei metodi di lavoro diffusi nella restante parte della comunità scientifica e, laddove possibile, (c) l’applicazione delle virtù intellettuali sviluppate dalla filosofia nel corso dei secoli all’interno di quegli ambiti istituzionali che le richiedono per poter funzionare meglio. Le diverse tipologie di etiche applicate (dalla bioetica alla neuroetica, dall’etica economica all’etica animale) sono il primo esempio che salta alla mente. Lo si potrebbe anche descrivere come l’estremo tentativo di trasformare il filosofo in uno specialista affidabile. Ma per quanto possano divergere le opinioni personali sulla realizzabilità del proposito, non si può negare che gli esiti – almeno per ora – siano stati piuttosto deludenti.
La strada verso la normalizzazione della filosofia sembra ancora lunga. Persino più lunga di quella che conduce alla sua definitiva liquidazione.
2.
Quale lezione si può trarre dalla storia che, anche se solo per sommi capi, è stata appena raccontata?
La prima è che si tratta di una storia che procede secondo un’oscillazione costante tra eccessi e tentativi di mettere un freno agli eccessi. C’è, in proposito, una significativa simmetria con un’epoca – quella moderna – che su tale fluttuazione ha costruito il proprio inarrestabile dinamismo. Può apparire una contraddizione inspiegabile, ma è difficile sfuggire all’impressione che lo spirito della cultura moderna incorpori una scissione profonda – qualcosa di simile a un double bind – tra il desiderio di rimuovere ogni vincolo imposto dall’esterno e l’impulso a costruirne altri, ancora più costrittivi, secondo la logica non meno dispendiosa della scelta volontaria e dell’autodeterminazione. Per farsene un’idea, basta pensare all’evoluzione dei costumi sessuali, con la risaputa, ma non per questo meno sorprendente, alternanza tra liberazione sregolata e rimoralizzazione in chiave di autorealizzazione personale o autenticità. Oppure si può menzionare l’esito paradossale del processo di secolarizzazione, con la simultanea emancipazione dalle agenzie religiose tradizionali e il bisogno diffuso di inventare nuove forme di spiritualità perfettamente adattate alle esigenze e ai percorsi biografici individuali.

La filosofia degli ultimi duecento anni si è analogamente destreggiata tra un desiderio indomabile di affermazione di sé e un bisogno intermittente di autodisciplina e normalità. Tra la tentazione di porsi alla guida del cambiamento storico e la volontà di rientrare rapidamente nei ranghi i filosofi moderni si sono dannati l’anima per capire quale fosse il loro posto nella comunità scientifica o nella sfera pubblica e tale sforzo continua ancora oggi. Col senno di poi, può far sorridere la pretesa di sottoporre ogni espressione dello spirito umano al giudizio preventivo del tribunale della ragione o a quello, ex post, della Storia intesa come un processo teleologico di chiarificazione delle finalità che guidano, per lo più a loro insaputa, le scelte degli attori in carne e ossa. Eppure un simile esprit de système, l’esigenza di regolare i conti con la totalità dell’esperienza, l’incapacità di resistere al richiamo delle “ragioni”, ovunque esse si manifestino, sembra consustanziale a quella particolare forma di pensosità che va sotto il nome di filosofia. Se dobbiamo dare retta a Wilfrid Sellars, il suo scopo, formulato nei termini più astratti, non è altro che capire “come le cose nel senso più ampio possibile del termine stanno insieme nel senso più ampio possibile del termine”.
È da questo desiderio smodato di espansione e inclusività o, per usare le parole di Novalis, dall’“impulso a sentirsi a casa ovunque” che traggono origine i fenomenali sforzi sintetici dei filosofici i quali, non importa se strampalati o giudiziosi, sono comunque sempre destinati a vedere frustrata la loro ambizione di pronunciare l’ultima parola, di chiudere una volta per tutte il cerchio. Alla base del fascino dell’investigazione filosofica – di quella euforia del pensiero che, come notò maliziosamente più di un secolo fa William James, assomiglia pericolosamente agli effetti del gas esilarante – vi è proprio la compresenza di questa aspirazione sintetica e del rispetto/curiosità per l’infinita varietà dell’esperienza. In questo senso, l’interrogativo circa l’utilità o lo scopo ultimo della filosofia non può prescindere dal problema di tale eccesso, non può esimersi dall’esprimere un’opinione su questa eccedenza.
A suo modo, questo libro, con tutti i suoi limiti, vorrebbe essere un argomento performativo in difesa degli eccessi della filosofia: dell’idea, cioè, che l’utilità dello stile di pensiero filosofico vada ricercata esattamente qui, nella sua natura eccedente. I suoi capitoli si offrono perciò al lettore come esercizi di comprensione (o thought-trains, per evocare un’immagine molto amata da Hannah Arendt), in qualche caso funambolici altre volte più convenzionali, che, pur nella consapevolezza di appartenere a una conversazione interminabile, hanno comunque lo scopo di trasformare la vita intellettuale di chi accetta di condividerli. Il loro compito primario, cioè, è infittire la rete del setaccio con cui vengono filtrate le ripercussioni cognitive dei nostri commerci con il mondo esterno e interiore, affinando al contempo la nostra capacità di riconoscere in maniera non stereotipata ciò che avviene attorno e dentro di noi. Vale per essi quello che ha osservato in un’occasione Richard Bernstein a proposito degli itinerari mentali arendtiani: sono ragionamenti che si sviluppano indipendentemente fino alle estreme conseguenze e che, come tali, talvolta s’intrecciano e si rafforzano l’uno con l’altro, altre volte contrastano e possono persino contraddirsi, ma alla fine producono un’unica ragnatela di pensieri al cui centro troneggia la vita – che è pur sempre una e come tale va vissuta – di chi li ha pensati.
Si tratta, nondimeno, di una difesa qualificata. È essenziale, infatti, distinguere tra differenti tipologie di eccesso. Volendo, si potrebbe anche tracciare una linea tra eccessi viziosi e virtuosi, ma non ha poi molto senso distribuire in maniera manichea pregi e difetti che, in realtà, si trovano sempre mescolati, in proporzioni diverse, in tutte le investigazioni filosofiche autentiche. È più utile ragionare per tipi ideali e identificare aspetti della forma mentis del filosofo di cui c’è o non c’è molto di cui andare orgogliosi. Il riferimento è a cose come:
(a) l’aspirazione/inclinazione alla saturazione cognitiva, a dire troppo velocemente l’ultima parola cedendo a un sintesi affrettata e prematura, che ha come conseguenza primaria il distacco dall’esperienza vissuta, dai fatti “densi” dell’esistenza. La filosofia dà il peggio di sé quando si rifugia in immagini del mondo o visioni ideologiche che proteggono dall’urto della realtà e svolgono la stessa funzione assolta dai cliché nella vita comune.
(b) Quando questa propensione alla saturazione cognitiva diventa manieristica, inautentica, conduce in genere a una spettacolarizzazione del gesto filosofico che, parodiando la tradizionale arroganza del dotto, ben si accorda con le regole tacite della società dello spettacolo e del suo bisogno di sovreccitazione. I paralogismi, i castelli in aria, le involute argomentazioni dei pensatori alla moda, sono in genere la prova di un lavorio intellettuale che diventa autoreferenziale, si bea della propria radicalità ed eccentricità, ma ha smesso di avere un rapporto organico con la verità e si accontenta di intrattenere il pubblico colto con la propria “mostruosità” intellettuale.
Tra gli eccessi virtuosi si possono annoverare invece cose come l’impulso a un’espansione geometrica dei nessi argomentativi, in sintonia con il miraggio filosofico di una visione stereoscopica dell’esistente che presuppone curiosità onnivora, lentezza, sottigliezza, ostinazione, infaticabilità. Per non essere velleitario, tale sforzo dissennato dev’essere governato dall’ideale regolativo di un equilibrio riflessivo che, pur dipendendo dalla capacità della mente umana di distanziarsi ricorsivamente rispetto a qualsiasi contenuto determinato, non esime dall’obbligo di occupare un punto di vista riconoscibile. Se, come avviene in questo libro, tale vincolo viene interpretato nei termini del primato della responsabilità/responsività intellettuale, ne consegue la preferenza per un modello situato, e non volontaristico, di libertà1. La plasticità regolata dell’equilibrio riflessivo si traduce così nella disponibilità a esporsi alle domande a cascata grazie alle quali il discorso filosofico si dispiega in tutta la sua eccedenza.
Il ragionamento svolto finora potrebbe essere riassunto dicendo che esistono due diversi tipi di eccessi della ragione: da un lato gli eccessi di arroganza (tra i quali includerei anche gli eccessi di erudizione), dall’altro gli eccessi di generosità. Questi ultimi, a differenza dei primi, sono compatibili con la responsabilità intellettuale e non impediscono alla filosofia di svolgere un ruolo nella comunità scientifica, a dispetto della sua eccentricità.
In quest’ottica, la filosofia appare come uno sforzo di riflessività radicale condotto con lo spirito dell’eterno principiante. In quanto “sforzo” è motivato da una serietà di fondo: a chi ha un temperamento filosofico preme sapere come cose così diverse quali quelle che normalmente si incontrano nel corso di un’esistenza (e tanto più nel corso di un’esistenza moderna, nell’epoca della “sovrabbondanza del senso”) possano davvero “stare insieme” e non semplicemente coesistere nella stessa istantanea, neutrale e obiettiva quale si pretende che sia ogni riproduzione fotografica degna di questo nome. L’esito dell’impegno concettuale, però, non è una guida rapida per la soluzione di problemi, quanto piuttosto un equilibrio riflessivo provvisorio che può avere soltanto effetti indiretti sulle vite delle persone (e non tutti necessariamente benefici). Più che a un manuale, assomiglia a una mappa mentale individuale, al “sapersi orientare” rispetto alla trama infinita delle cose che contano nelle esistenze umane.
Se questo ritratto è condivisibile, bisognerà essere cauti nel pretendere dalla filosofia un’attitudine costruttiva in senso forte. Al contrario, converrà comprendere anche le teorie filosofiche più ambiziose non come fini in sé, ma come esperimenti mentali il cui scopo ultimo è il raggiungimento di un livello di riflessività più ricco e articolato. Diventa così chiaro perché abbia poco senso considerare l’assenso universale come il telos che orienta gli sforzi di esplicitazione e sintesi del ragionamento filosofico. Il che non significa che l’ideale regolativo dell’intesa andrebbe sostituito con quello del dissenso (è difficile capire come uno possa argomentare sinceramente a favore di una determinata tesi e allo stesso tempo desiderare con tutto il proprio cuore che qualcuno ne dimostri la falsità). Il punto, piuttosto, è riconoscere che, quando ci si dispone a filosofare, non si può prescindere dall’aspettativa generale che qualsiasi riduzione della misura del disaccordo genererà contemporaneamente nuovo forme (produttive) di dissenso che alla fine condurranno a un ulteriore rimodellamento dell’equilibrio riflessivo.
Un altro modo di ribadire il punto è descrivere la varietà di intelligenza allenata e messa a frutto nella riflessione filosofica come una particolare forma di agilità mentale che si traduce in primo luogo nella disposizione a ricontestualizzare continuamente i problemi ponendo gli interrogativi che consentono di riconoscere aspetti della questione che precedentemente non erano stati messi a fuoco. Volendo, la si potrebbe raffigurare anche come una spiccata sensibilità o ospitalità alle ragioni (quelle degli altri non meno di quelle impersonali). Ciò implica, tra l’altro, una rettifica dell’immagine tradizionale della ragione che, anziché essere pensata come un gioco a somma zero (una proprietà che si può possedere o non possedere), andrebbe concepita piuttosto come uno spazio con cui ci si familiarizza. Analogamente, la principale virtù della persona razionale non verrebbe più ravvisata nella lucidità distaccata o nella ferrea consequenzialità del ragionamento, ma nella ricettività rispetto alle diverse “isole” di razionalità secondo le quali si articola lo spazio delle ragioni (che è poroso per definizione).
  1. Da qui in avanti impiegherò con grande libertà il concetto di “equilibrio riflessivo”, reso celebre da John Rawls in Una teoria della giustizia (§§ 4 e 9). Con esso intendo quella condizione di relativa ma soddisfacente coesione tra le intuizioni/credenze di partenza e la loro mediazione riflessiva, che richiede uno sforzo continuo di ricontestualizzazione e serve da criterio orientatore durante l’investigazione di questioni per le quali non si dispone di criteri indipendenti di validazione. Inteso in questa accezione lasca, l’equilibrio riflessivo può assomigliare a un pentolone in cui viene continuamente rimescolata una sbobba che non si assaggia mai e di cui si può gustare solo il profumo. In effetti, non è mia intenzione negare che il modello dell’equilibrio riflessivo offra un parametro esile e tutt’altro che infallibile per guidare il lavoro del pensiero. (Non consente, ad esempio, di escludere con assoluta certezza che il punto di approdo raggiunto sia semplicemente l’effetto di un’estenuazione accidentale o un capriccio idiosincratico.) Pur non essendo un criterio adeguato per placare le ansie fondazionalistiche della filosofia moderna, si avvicina, tuttavia, a un ritratto plausibile dello stile di lavoro filosofico. Se si accetta una simile visione esplorativa degli sforzi della ragione, dovrebbe risultare meno avvilente la scoperta che i problemi della filosofia non vengono propriamente mai risolti, ma periodicamente accantonati per consentire l’esplorazione di nuovi angoli dello spazio delle ragioni e nuove varianti di contestualizzazione delle domande fondamentali. L’equilibrio riflessivo è simile a un equilibrio omeostatico e la principale virtù del filosofo consiste più nella capacità di formulare le domande giuste che nella risoluzione rapida e incisiva dei problemi.  

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