19 luglio 2014

L' ATTESA AMOROSA



 Nelle settimane scorse è uscito presso Carocci il saggio di Elisabetta Abignente Quando il tempo si fa lento. L’attesa amorosa nel romanzo del Novecento: M. Proust, Th. Mann, G. García Márquez. 
Prendiamo dal sito  http://www.leparoleelecose.it/ alcune pagine tratte dal primo capitolo.


QUANDO IL TEMPO SI FA LENTO

di Elisabetta Abignente
 


È giunto il momento di definire il preciso oggetto di questo studio: l’attesa amorosa, ovvero l’attesa della persona amata. Ad accompagnarci lungo questo percorso sarà un testo che, prendendo in prestito un’espressione del suo stesso autore, potrei definire come “texte-tuteur”[1]. Si tratta dei celebri Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, alla cui lettura è fortemente legata la genesi di questo lavoro. Non c’è forse definizione migliore di quella offerta da Barthes nel suo “dizionario” per indicare cosa si intende qui con l’espressione “attesa amorosa”: «attesa. Tumulto d’angoscia suscitato dall’attesa dell’essere amato in seguito a piccolissimi ritardi (appuntamenti, telefonate, lettere, ritorni)»[2].
La riflessione che Barthes dedica, a più riprese, alla “figura amorosa” dell’attesa comincia ben prima della stesura dei Frammenti, che non rappresentano se non l’ultima, definitiva versione, destinata a un incredibile successo di pubblico, di un percorso iniziato dal Barthes professore alcuni anni prima della loro pubblicazione nel 1977. Il discorso amoroso era stato infatti l’argomento di due anni di seminari tenuti all’École pratique des hautes études nel biennio 1974-76. La pubblicazione, piuttosto recente, del vastissimo materiale di preparazione ai due corsi[3] – appunti, schemi, riflessioni teoriche e un nutrito gruppo di figure inedite – offre la possibilità di penetrare con profondità nel laboratorio dei Frammenti per ricostruirne l’interessante genesi, e rivela come, ben più di quanto emerga dal testo finale, inclassificabile eppure in fondo piuttosto vicino, nella lettura, a un vero e proprio romanzo, dietro la versione del ’77 si celi una lunga e profonda riflessione teorica.
È significativo notare come, nel tentativo di tracciare un repertorio di “figure” tipiche del discorso dell’innamorato, Barthes vi includa da subito quella dell’attesa[4], che riconosce come uno dei momenti topici e fondanti della dinamica amorosa. Barthes torna sulla stessa figura un anno dopo, per il secondo corso sul discorso amoroso[5], dove arricchisce la voce con una grande quantità di spunti raccolti in un anno di lavoro e tratti, in parte, anche dai suggerimenti degli allievi dei suoi seminari, per giungere infine alla versione definitiva, più asciutta e meno argomentativa, che la figura assume nei Frammenti[6]. È soprattutto nella seconda versione della figura dell’attesa, la più ampia e sviluppata, come si trattasse del secondo tempo di una sonata, che si addensano gli spunti più interessanti per un’attenta riflessione sull’attesa amorosa. A partire dalla lettura di questa seconda versione è possibile individuare alcuni tratti caratteristici e peculiari che distinguono l’attesa d’amore dalle altre tipologie precedentemente elencate.
Ecco dunque un “identikit” dell’attesa amorosa, articolato in otto punti.
1.2.1. Aspetto dunque amo
L’attesa d’amore non rappresenta semplicemente una delle fasi della dinamica amorosa tra l’io e il tu: essa tocca l’essenza stessa dell’amore e del discorso amoroso. L’innamorato riconosce infatti sé stesso come colui che attende: «Sono innamorato? – Sì, poiché sto aspettando»[7]è il discorso che egli pronuncia a sé stesso. L’attesa, dunque, all’interno della dinamica amorosa, non va intesa come un incidente, un equivoco, una fastidiosa perdita di tempo ma, al contrario, come la dimensione fondativa e identitaria del sentimento amoroso, che si configura sin dal suo sorgere come attesa dell’altro e aspettativa nei suoi confronti:
Se fosse possibile dare un’unica definizione del soggetto innamorato, diremmo che il soggetto innamorato è colui che attende, in tutti i modi possibili. Dall’attesa fondamentale e quasi permanente dell’appagamento, della presenza, fino alle attese più contingenti, non meno angoscianti: l’attesa di un appuntamento, di una lettera, di una telefonata[8].
Questa considerazione invita immediatamente a riflettere sul rapporto dell’attesa d’amore con il suo oggetto. Se l’amore si configura, prima di tutto, per il suo essere attesa dell’altro, l’attesa d’amore dovrebbe porsi senza dubbio nell’ambito delle attese strettamente dipendenti dal proprio oggetto. Eppure, proprio il carattere identitario che lega l’innamorato al suo statuto di soggetto che aspetta può finire paradossalmente per affrancare l’attesa d’amore dal proprio oggetto. In alcuni casi aspettare diventa una dimensione in cui il soggetto si riconosce e si identifica a tal punto da far passare del tutto in secondo piano l’obiettivo per cui quell’attesa era cominciata. In altre parole, per l’innamorato che attende, il senso dell’attesa può non risiedere nel raggiungimento dell’obiettivo ma realizzarsi ed esaurirsi nel suo stesso svolgersi – come direbbe Barthes, nel suo stesso “copione”. Un caso limite è offerto, in questo senso, dell’aneddoto cinese che Barthes riporta nei Frammenti[9]:
Un mandarino era innamorato di una cortigiana. «Sarò vostra – disse lei – solo quando voi avrete passato cento notti ad aspettarmi seduto su uno sgabello, nel mio giardino, sotto la mia finestra». Ma, alla novantanovesima notte, il mandarino si alzò, prese il suo sgabello sotto il braccio e se n’andò.
1.2.2. Non ti muovere
L’innamorato che aspetta è immobile. Ne bouge pas! è il suo imperativo. Aspettare significa infatti rimanere in un luogo nell’attesa dell’arrivo, del ritorno o di un segnale da parte dell’altro. La persona attesa si muove, è un être de fuite, l’inafferrabilità è la sua cifra caratteristica. Chi aspetta, al contrario, non può muoversi perché rischierebbe di mancare proprio il momento, a volte del tutto imprevisto, in cui la sua attesa sarebbe potuta giungere a compimento.
L’attesa finisce dunque per assomigliare a «un’immobilizzazione ipnotica, un incantesimo»[10], dove la parola enchantement dell’originale, andrebbe intesa nella doppia accezione di sortilegio che ha il potere di pietrificare chi ne è vittima ma anche di stato di ipnosi che coglie chi è incantato da qualcosa o qualcuno e durante il quale si è costretti a restare immobili senza conoscerne il motivo: sarebbe allora più indicato ricorrere, in questo senso, al termine italiano “incantamento”[11].
L’immobilismo, che avevamo già individuato come uno dei tratti caratteristici dell’attesa di Penelope e che potrebbe in un certo senso trovare un altro suo archetipo nella Niobe della mitologia greca, pietrificata sul monte Sipilo nell’attesa vana del ritorno dei suoi sette figli uccisi da Leto[12], incontra una delle sue immagini letterarie più efficaci nella metafora del leone in gabbia, su cui avrò modo di tornare in seguito occupandomi dello spazio, in particolar modo proustiano, dell’attesa. Per avere conferma di quanto esso rappresenti uno degli aspetti costitutivi di ogni attesa d’amore basta volgere lo sguardo, però – suggerisce Barthes –, a uno dei topoi più moderni dell’attesa, che chiunque sia stato innamorato può riconoscere nella propria concreta esperienza biografica. Si tratta dell’immobilismo legato a quella che si potrebbe definire come la più novecentesca delle attese: l’attesa al telefono (precedente, certo, all’avvento della telefonia cellulare):
Il soggetto che attende: «non oso uscire, non oso muovermi per paura di…». Attesa al telefono (strumento che implica, in modo particolare, un’irruzione puntuale e tiene il soggetto alla mercé di una suoneria che può sopraggiungere in qualsiasi momento), che produce una serie ossessiva di divieti (di muoversi). Ossessiva perché può dettagliarsi all’infinito, fino all’inconfessabile: non uscire, non andare in bagno, non telefonare (per tenere la linea libera), soffrire se qualcuno telefona (perché tiene occupata la linea). [...] L’Angoscia dell’Attesa, nella sua purezza, è stare seduti in poltrona, con il telefono a portata di mano, senza fare nulla[13].
L’insistenza sull’immobilismo come uno dei tratti decisivi dell’attesa si rivela certo un utile criterio per distinguere l’attesa da altre dinamiche della relazione amorosa che potrebbero essere a prima vista confuse con questa: penso ad esempio ai riti di corteggiamento o alla conquista, che però presuppongono, come è chiaro, che l’innamorato prenda l’iniziativa, si sposti e “rincorra” l’essere amato in fuga. Porre l’accento sull’immobilismo dell’attesa non deve però far correre il rischio di assimilare l’attesa d’amore a uno stato di passività. Seppur costretto all’immobilità, il soggetto che aspetta non interrompe mai la propria attività: il suo stato di continua attenzione, la sua capacità di percezione non conoscono tregua. L’attesa è dunque un’immobilità inquieta. L’innamorato che aspetta è un leone in gabbia, è vero, ma è anche un gufo che, immobile sul ramo, non smette mai di spiare nelle tenebre[14].
1.2.3. il potere di chi è atteso
Far attendere è una forma di potere che colui che è atteso esercita, più o meno consapevolmente, su chi attende. Aspettare, al contrario, è segno di dipendenza e di assoggettamento rispetto alle condizioni dettate dall’altro. Nella dinamica dell’attesa amorosa il potere è, infatti, nelle mani di chi fugge: è lui che detta i tempi, mentre chi aspetta ne è schiavo. Uno dei momenti più drammatici dell’attesa è quello in cui ci si accorge di non poter più fare a meno dell’altro. Alla nostalgia per la distanza o per l’assenza si aggiunge in questi casi la dolorosa sensazione, simile a una ferita, di aver perso la propria libertà: «L’attesa – scrive Barthes – comporta una ferita (una prova) supplementare in quanto manifesta al soggetto innamorato la sua dipendenza nei riguardi dell’oggetto amato»[15].
A partire dal momento in cui si accorge di essere caduto nella trappola della dipendenza – «sono perso! Può fare di me ciò che le pare»[16]–, il soggetto innamorato inizia però talvolta, paradossalmente, a usare tutti i mezzi che ha a disposizione per «preservare lo stesso spazio della dipendenza»[17]. Sentirsi dipendenti significa infatti non recidere il filo che ci lega indissolubilmente alla persona amata. La promessa di fedeltà, che impareremo a riconoscere come uno dei riti caratteristici delle attese romanzesche di cui ci occupiamo, è proprio una delle strategie messe più o meno consapevolmente in atto dal soggetto per mantenere in vita il proprio stato di dipendenza. Non è un caso allora che, per descrivere il fortissimo senso di privazione da cui il soggetto innamorato è colpito nell’attesa, Barthes non esiti a parlare di «sévrage»[18], termine che indica, nella lingua francese, tanto lo svezzamento dal seno materno, il primo vero distacco dalla madre, quanto il percorso di disintossicazione a cui viene sottoposto chi è affetto da tossicodipendenza.
Per la speciale dinamica che vi entra in gioco, l’attesa può essere sfruttata però, in altri casi, anche come un momento di riequilibrio tra le parti: lì dove il potere era concentrato esclusivamente nelle mani di uno dei due membri della coppia, la fuga diventa lo strumento attraverso cui ridisegnare i ruoli. È il caso emblematico, come vedremo, del rapporto del Narratore proustiano con Albertine: se nella Prigioniera il potere era concentrato esclusivamente nelle mani del Narratore geloso, la fuga offre ad Albertine la possibilità di riequilibrare le parti. Fuggendo, è lei a poter dettare i tempi e, da prigioniera quale era, rendere schiavo il Narratore.
Per la sua capacità di mettere in luce la dinamica potere-dipendenza, l’attesa amorosa riflette e amplifica, portandolo alle estreme conseguenze, un carattere che è intrinseco, a ben guardare, in ogni attesa. Nella società e nella storia, l’attesa è infatti il destino degli umili e degli ultimi. Riesce a non sottostare alle attese, grandi e piccole, estemporanee o pluriennali che siano, solo colui che è in grado di affrancarsene, ovvero chi ha il potere per farlo. Il sociologo Giovanni Gasparini descrive in termini molto chiari ed esatti il modo in cui l’attesa si fa specchio, nella società e nella storia, di una forte dinamica di squilibrio tra le parti:
L’attesa si può interpretare come un fenomeno di scambio e di potere tra attori, nel senso che chi detiene più potere riesce a non attendere ma a far attendere. [...] L’osservazione corrente e il sentimento comune indicano che sono soprattutto i de-privilegiati e i senza potere quelli che attendono, e che «il segreto della non-attesa è il talento di saper far attendere gli altri»[19].
Vi è una grande varietà di situazioni di attesa, tratte dalle pagine della letteratura ma anche dalle esperienze quotidiane degli individui nella società, in cui lo squilibrio legato a questa dinamica di potere e dipendenza emerge con particolare evidenza. In un numero tematico dedicato all’attente, la rivista francese di sociologia e letteratura “Autrement” individua alcune situazioni esemplari in cui chi aspetta si ritrova a sottostare, in uno stato di profonda impotenza, a condizioni che non è assolutamente in potere di modificare a suo favore:
Se l’attesa ci appare ingloriosa, e quasi anacronistica, è perché essa è la sorte dei più umili, di coloro che, a un certo punto, sono spossessati del minimo potere di agire, di fare avvenire un determinato avvenimento attraverso il loro operare. Non è il pilota che attende l’arrivo dell’aereo ma il passeggero; non è il chirurgo che attende ma la famiglia. E, dopo il suo risveglio, l’operato. Non è il giudice, è l’accusato che attende il verdetto; il carcerato, non la guardia, che attende la liberazione. Lo studente, il “paziente”, il disoccupato, l’innamorata, la madre, il popolo… È Penelope che attende Ulisse. Ad ogni attesa, il bambino che è in noi si risveglia. Dipendenza, impotenza, sconforto. Aspettare [...] è lasciare agli altri, e a volte solo al tempo, il potere[20].
Oltre a generare un inevitabile senso di impotenza, dovuto essenzialmente all’impossibilità per il soggetto di accorciare il tempo che lo separa dalla realizzazione di ciò che aspetta – in questo senso il vero nemico, come suggeriva la citazione, non è tanto l’altro quanto il tempo stesso –, la sensazione di dipendenza provata da chi attende può provocare, però, anche un effetto di vero e proprio panico, come se in gioco fosse, ben più che l’appagamento di un bisogno accessorio, la possibilità stessa di sopravvivere. La metafora animale più adatta, allora, a indicare questo stato è senza dubbio quella del “pesce fuor d’acqua”[21].
1.2.4. Immaginazione e irrealtà
Ogni attesa d’amore si connota per una spiccata propensione allo sviluppo dell’immaginazione, della rêverie, della fantasticheria. L’innamorato che attende non conosce strumenti più efficaci dell’immaginazione per sanare, se pur in modo ingannevole ed effimero, l’assenza della persona amata. Durante l’attesa, l’innamorato “manipola” l’oggetto del suo amore, dandogli un volto, un carattere, delle intenzioni, delle parole, che difficilmente corrispondono a un’effettiva realtà. Lo stesso oggetto dell’attesa, baricentro fondamentale della dinamica amorosa, può rivelarsi, in realtà, nient’altro che un oggetto immaginato: chi è mai Albertine per il Narratore se non il prodotto della propria immaginazione? Non è un’Albertine irreale, evanescente, quella che il Narratore effettivamente aspetta? La persona attesa sembra non essere dotata di una propria oggettività: la sua immagine è legata, per sua stessa natura, alla soggettività di chi la pensa.
Talvolta l’immaginazione di chi aspetta non soltanto modifica nella memoria i tratti della persona attesa, ma può addirittura far diventare oggetto della propria attesa una persona che ne è del tutto inconsapevole, come accade nel caso del romanzo di García Márquez di cui ci si occuperà più avanti. In altri casi, invece, il potere dell’immaginazione legato a una situazione di attesa può essere tale da determinare da solo il sorgere di un amore: non ci si innamora forse prima di tutto dei propri pensieri, delle proprie fantasticherie, dell’immagine mentale che si è costruita dell’altro pensando a lui in sua assenza? Il momento dell’attesa, che si presta in modo particolare allo sviluppo senza freni dell’immaginazione, diventa allora il punto di svolta per il sorgere di un amore – non c’è amore senza almeno un episodio di attesa – ma anche per il suo risorgere, grazie allo stacco che il tempo anomalo dell’attesa riesce a creare nella routine di un tempo altrimenti sempre uguale. Come suggerisce Gaston Bachelard nella Dialettica della durata, l’attesa, stimolando l’immaginazione e ponendo l’amore in relazione con la dimensione del tempo, può restituire il fascino della novità anche al più fedele degli amori.
È sufficiente amare abbastanza, temere tutto, attendere nella più folle delle inquietudini, affinché ciò che tarda appaia d’improvviso più bello, più certo, più attraente. L’attesa, scavando il tempo, rende l’amore più profondo. Essa colloca l’amore più costante nella dialettica degli istanti e degli intervalli. Rende a un amore fedele il fascino della novità. Allora gli eventi ansiosamente attesi si fissano nella memoria; assumono un senso nella nostra vita[22].
Se è vero che ogni esperienza di amore si colloca sulla linea di confine tra le tre sfere del simbolico, dell’immaginario e del reale[23], nell’attesa il piano dell’immaginazione può però rischiare di prendere il sopravvento su quello della realtà. Colui che aspetta è affetto da una forte mancanza di senso delle proporzioni: un’attesa anche breve e banale può essere sentita come un problema esistenziale, un arco di tempo limitato essere vissuto come se si trattasse di un’eternità. Un eccessivo abbandono all’immaginazione può comportare, in questi casi, un progressivo distacco dalla realtà e finire per assomigliare, in modo sempre più inquietante, a uno stato di allucinazione. L’arrivo o il ritorno della persona amata è creato e ricreato nella mente di chi attende per un numero di volte potenzialmente infinito e con una tale dovizia di particolari da rendere difficile distinguere tra persona reale e fantasma. L’attesa amorosa può muoversi, dunque, in base al grado di immaginazione che vi entra in gioco, tra i due estremi opposti dell’innocua rêverie e dell’allucinazione patologica. In questo secondo caso, suggerisce Barthes riportando ancora una volta l’esempio del telefono, l’attesa diventa un vero e proprio delirio[24].
1.2.5. Ripetizione, riti, tic, manie
Tanto le attese d’amore lunghe – l’attesa del ritorno del soldato dalla guerra, l’attesa del matrimonio o del sospirato ricambio del sentimento amoroso – quanto quelle brevi – la microattesa di una telefonata – vengono riempite dal soggetto dalla ripetizione, talvolta ossessiva, di gesti sempre uguali, che chi è innamorato non si stanca mai di continuare a compiere. A variare tra attese lunghe e microattese è certamente il diverso grado di angoscia: acuta e incontrollabile nel caso delle attese brevi, interiorizzata e più simile alla nostalgia nel caso delle attese lunghe. Non cambia però la struttura interna dell’attesa, che si configura come la ripetizione quasi codificata di gesti e situazioni ben riconoscibili e individuabili: «Esistono delle situazioni ripetute di attesa, dei topoi di attesa», suggerisce Barthes[25].
Attese brevi e attese lunghe condividono dunque una medesima struttura interna, uno stesso meccanismo, indipendentemente dalla loro diversa estensione temporale. Esse si configurano nei termini di una coazione a ripetere da cui il soggetto non ha il potere di liberarsi.
Nel caso delle attese brevi, la ripetizione può assumere tratti quasi nevrotici. I tic correlati alle attese brevi e pure sono tipici e ben noti: fumare, controllare l’orologio, alzarsi e sedersi, camminare avanti e indietro ripetendo infinite volte lo stesso percorso, guardare fuori dalla finestra, fischiettare, dedicarsi a una lettura che richieda un grado di attenzione non elevato ecc. Tutte azioni che vanno ricondotte a un triplice intento: far sì che il tempo passi, che è l’obiettivo principale di chi aspetta; dedicarsi a un’attività pratica, magari anche fisica, che aiuti a impiegare il tempo (passatempo) senza distogliere l’attenzione dall’obiettivo; ostentare indifferenza, per fingere con gli altri e tentare di simulare anche con sé stessi un certo distacco.
Nel caso delle attese lunghe questa coazione a ripetere si traduce in una vocazione alla ritualità, che nella ripresentazione quotidiana o periodica di gesti aiuta a riconoscere ogni giorno sé stessi e a trovare alimento per rinnovare continuamente la propria attesa. I riti e le manie di tali attese consistono dunque nel condurre una vita regolare, ripetitiva, priva di cambiamenti radicali e di spostamenti improvvisi. Nelle attese lunghe, il trascorrere del tempo è scandito dall’avvicendarsi delle pagine del calendario e delle stagioni, dai cambiamenti che si riconoscono nel mondo esterno che va avanti, al contrario del proprio tempo interno che resta immobile. Ogni rito – la ristrutturazione della casa, la fedeltà ai luoghi e alle abitudini –, di cui incontreremo meravigliosi esempi nei testi letterari presi in esame, va ricondotto a un’unica preoccupazione: quella di non prendere impegni a lungo termine, di non spezzare il filo con l’altro e farsi trovare pronti per il suo “arrivo”, che potrebbe realizzarsi, in modo talvolta del tutto imprevedibile, da un momento all’altro.
1.2.6. In attesa di segni: l’innamorato semiologo
Prima ancora che come attesa di un evento o di una persona, l’attesa d’amore si configura come una continua e faticosa attesa di segni da parte dell’altro. Segni della sua presenza, segni di riconoscimento, segni che dimostrino un seppur minimo gesto di risposta. Chi attende sa che per arrivare al proprio obiettivo non potrà contare soltanto su sé stesso: la strategia da mettere in atto è dunque quella di farsi interprete dei segni che l’altro emette e invia[26].
Ma quali sono questi segni? Per l’innamorato che aspetta ogni minimo particolare, ogni traccia della presenza dell’altro, può farsi “segno”: un’espressione sul viso della persona amata, i suoi passi che si avvicinano, oggetti dotati di un particolare valore simbolico. La volontà di decifrarne il significato è così forte per l’innamorato da fargli talvolta addirittura sperare che l’attesa si prolunghi:
Cosa aspettiamo? Dei Segni. Se il segno arriva, da dove viene? Nuova attesa. E se il segno non arriva, lo invento. Cosa indicano i tratti del viso che ci è davanti? I tratti, il tono, i rumori dell’essere amato, non le parole che sono recepite come segni falsi. Il rumore della porta, lo scricchiolio dei passi: quanto è dolorosa la loro attesa ma quanto è cara l’attesa dolorosa! Quest’attesa che rimugina il godimento e a volte trae piacere dal “non subito” è al di là del principio di piacere[27].
Ciò che distingue l’attesa amorosa dalla rêverie o dall’utopia è il bisogno di risposta da parte della persona amata, la necessità di una prova concreta e tangibile della presenza, anche se distante, di chi si ama. L’incertezza della risposta – risponderà? quando? in che modo? – diventa in questo senso il vero motore di ogni attesa amorosa[28].
Se l’innamorato che aspetta è costantemente avido di segni da parte dell’altro, il suo sforzo ermeneutico può arrivare, per un eccesso di zelo vicino alla paranoia, a una vera e propria “vertigine decifratoria”. Semiologo appassionato e maniacale, per lui ogni particolare, apparentemente insignificante, diventa segno e si carica di senso. Può prodursi così un accumulo di segni che annulla ogni possibilità di decifrazione lucida e conduce l’innamorato, lo spiega bene Barthes, in un circolo vizioso senza alcuna via di uscita:
L’innamorato è il semiologo selvaggio allo stato puro! Passa il proprio tempo a leggere segni. Fa solo questo: segni di felicità, segni di infelicità. Sul viso dell’altro, nei suoi comportamenti. È veramente in preda ai segni. [...] L’amore non è cieco. Al contrario, ha una potenza di decifrazione incredibile, che dipende dall’elemento paranoico che è in ogni innamorato. Un innamorato [...] coniuga estremi di nevrosi e di psicosi: è un tormentato e un pazzo. Vede chiaramente, ma il risultato è spesso lo stesso che se fosse cieco. [...] Perché non sa dove né come fermare i segni. Decifra perfettamente, ma non sa fermarsi su una certa decifrazione. Viene ripreso in un circolo perpetuo, che niente viene mai a placare[29].
1.2.7. “Comme si”: attesa e messa in scena
L’innamorato che attende non è esente da una forma di autocompiacimento del proprio stato. Consapevole del proprio ruolo, egli lo impersona con grande maestria, come se si trovasse su un palcoscenico drammatico. Nell’attesa amorosa è immediatamente possibile riconoscere, osserva Barthes, alcuni elementi tipici di una messa in scena teatrale – l’allestimento della scenografia, la recita di un copione, l’intento mimetico:
Vi è una scenografia dell’attesa: io la organizzo, la manipolo, ritaglio un pezzo di tempo in cui mimerò la perdita dell’oggetto amato e provocherò tutti gli effetti di un piccolo lutto. Tutto questo avviene dunque come in una recita[30].
Autore, attore, regista e scenografo del proprio dramma, il soggetto che aspetta organizza lo spazio che ha a disposizione trasformandolo in una vera e propria “scena dell’attesa”. Anche dal punto di vista temporale, l’innamorato organizza la propria attesa in una sequenza precisa di gesti, congetture, stati d’animo che scandiscono la sua durata. L’attesa d’amore si presenta così, per Barthes, come un vero e proprio «copione drammatico, strettamente diacronico» costituito da «un prologo, tre atti e un epilogo»[31].
Nella pièce dell’innamorato che attende, il passaggio da un atto all’altro è determinato dal mutamento di stati d’animo e atteggiamenti: se l’attesa è il momento privilegiato per l’immaginazione e la “manipolazione” dell’altro, il suo andamento diacronico fa sì che il tipo di pensieri e le congetture sull’altro, e di conseguenza i gesti nervosi di chi aspetta, mutino nel corso dell’attesa, come in un crescendo drammatico.
Si procede così dal Prologo, in cui il soggetto, controllando freneticamente l’orologio, prende atto del ritardo dell’amato/a e dà inizio all’angoscia dell’attesa, fino all’Epilogo in cui si sarebbe pronti a ricorrere a un sortilegio o a un voto per far sì che l’altro arrivi: tra i due estremi intercorrono tre atti caratterizzati rispettivamente da congetture e ipotesi di un possibile malinteso (i atto), da collera e rabbia (ii atto), e infine da un’angoscia profonda, consapevole del fatto che in gioco non vi sia più l’attesa ma piuttosto l’assenza e l’abbandono (iii atto). Il copione descritto da Barthes è quello di un’attesa al tavolino del bar: insieme all’attesa della telefonata, «l’attente au café»[32]rappresenta per Barthes un vero e proprio topos dell’attesa. Essa è infatti in grado di condensare, nella sua breve ma articolata durata, un copione che torna, seppur con infinite varianti, in molte altre situazioni, apparentemente assai diverse, di attesa amorosa reale o letteraria.
Ma vi è di più: l’attesa amorosa non è una performance soltanto in quanto messa in scena dell’azione di aspettare ma anche in quanto imitazione, sulla scena, di qualcos’altro. Aspettare significa fare i conti con il distacco e con l’assenza dell’altro, significa avere a che fare con un interlocutore che potrebbe non rispondere mai, significa accettare l’idea della separazione, della solitudine, dell’abbandono. In questo senso l’attesa diventa la messa in scena di una perdita ben più drammatica perché definitiva, diventa prova generale del lutto: «L’attesa – scrive Barthes – è un segmento puro di tempo in cui si mima la perdita dell’oggetto amato, il lutto e l’orrore dello svezzamento»[33]. È per questa sua capacità di rievocare il momento più doloroso e inaccettabile dell’esperienza umana – la perdita di una persona amata – che l’angoscia dell’attesa si fa così acuta e incontrollabile: «Ogni attesa è un piccolo lutto [...]. Questa è la forza, l’energia di angoscia del discorso amoroso»[34].
In molte sue rappresentazioni letterarie l’attesa si rivela anticipazione o persino annuncio del distacco definitivo dalla persona amata. Per limitarsi a un solo esempio emblematico, basti pensare al Narratore della Recherche che nell’attesa di lettere e telegrammi da parte di Albertine già si prepara all’idea di un oblio definitivo e si “allena” a tal scopo. L’attesa di Albertine diventa così anche un percorso di «apprendistato della separazione»[35].
Anche per la protagonista di Erwartung, il dramma musicale di Arnold Schönberg citato dallo stesso Barthes nei Frammenti, l’attesa si fa profezia di morte. Dopo una lunga erranza, la donna, sola sulla scena, trova ai limiti del bosco il corpo senza vita dell’amato. La sua attesa è però così vicina al delirio che, anche dopo la scoperta del corpo, la donna non smette di aspettare e di mettere in scena la propria attesa. Nonostante la morte vi abbia messo fine, ella continua a recitare il tipico copione dell’attesa fatto di un’alternanza di congetture, suppliche e scatti di rabbia nei confronti dell’altro che non arriva[36]. Prova generale dell’assenza definitiva, l’attesa sembra estendere così i propri tratti caratteristici anche alla primissima fase del lutto, quella in cui l’inconscio spera ancora che ci si trovi in uno stato provvisorio e revocabile come quello dell’attesa del ritorno.
1.2.8. Una questione di genere?
La scena dell’attesa amorosa è spesso ricondotta, tanto nell’immaginario collettivo quanto nella storia letteraria, all’idea che protagonista dell’attesa sia una donna. Da Penelope in poi, l’attesa viene sentita e rappresentata, infatti, come un’attività peculiarmente femminile, naturalmente legata alla sfera domestica, in contrasto con la sfera del viaggio, della guerra, dell’avventura, tipicamente maschili. Il topos della donna che aspetta ha attraversato così la letteratura e l’arte figurativa di ogni tempo articolandosi anche in motivi specifici, come quello della donna che attende alla finestra, su cui ci sarà modo di tornare più avanti.
I romanzi che costituiscono il corpus di questo lavoro raccontano al contrario tre storie di attesa amorosa che hanno per protagonista un uomo che attende una donna. Come si spiega questa apparente anomalia condivisa da tre grandi capolavori del Novecento e da diverse altre attese d’amore letterarie dell’ultimo secolo? Si può parlare di un’inversione di tendenza che l’irruzione della modernità ha prodotto rivoluzionando i ruoli tradizionali della relazione amorosa?
Una delle possibili risposte a questa anomalia novecentesca potrebbe essere ricondotta ai decisivi cambiamenti sociali che hanno prodotto, nell’ultimo secolo, l’emancipazione femminile e il ripensamento del ruolo della donna nella società. Se l’attesa amorosa si realizza laddove uno dei due componenti della coppia è per qualche motivo lontano o assente dalla scena dell’attesa, o si sottrae alla relazione, nell’ultimo secolo la donna ha imparato a trasformarsi da “angelo del focolare” a être de fuite, inafferrabile e fiero della propria volontà di movimento. L’immobilismo dell’attesa sarebbe toccato, dunque, all’uomo.
Non è questa la sede per addentrarsi in questioni di genere che necessiterebbero di un approfondito livello di analisi per non cadere nel pericolo di banalizzare questioni complesse. Il genere di chi aspetta non è infatti un aspetto rilevante ai fini della nostra indagine, come non lo è neanche il tipo di amore – eterosessuale o omosessuale – che provano gli innamorati in attesa. Sulla scia di Barthes si è deciso infatti di adottare, in questo lavoro, una prospettiva “neutra”.
Se l’intento della presente indagine è quello di cogliere, al di là delle varianti che necessariamente intervengono nei diversi testi, quella che si potrebbe definire come l’“essenza” dell’attesa amorosa, tentando di delineare un modello della sua rappresentazione in letteratura, si è ritenuto non rilevante operare una distinzione tra le attese amorose vissute da un soggetto maschile o femminile, eterosessuale o omosessuale. Al di là delle differenze che ogni individuo, secondo il proprio genere e le proprie inclinazioni sessuali, può imprimere alla propria attesa, il presupposto che guida questa ricerca è l’esistenza di una struttura profonda e invariabile di ogni attesa amorosa, una struttura che ogni individuo che sia mai stato innamorato possa riconoscere come vera nella propria biografia. L’adozione di un’ottica “neutra” si traduce anche in una scelta di tipo terminologico: così come spiega Barthes in un’intervista pubblicata in appendice all’edizione italiana dei Frammenti, anche nel mio lavoro, come si è già visto, si preferisce parlare di “soggetto che aspetta” e “oggetto atteso”, di “altro” e di “persona amata”, senza ulteriori specificazioni di genere:
Penso che si ritroverà esattamente la stessa tonalità nell’uomo che ama una donna, nella donna che ama un uomo, nell’uomo che ama un uomo e nella donna che ama una donna. E quindi ho avuto cura di sottolineare il meno possibile la differenza dei sessi. [...] L’«oggetto amato» ha il vantaggio di essere un’espressione che non prende posizione sul sesso di chi si ama[37].
Nota
[1]      È il ruolo che, negli appunti preparatori ai Frammenti di un discorso amoroso, Roland Barthes riconosce ai Dolori del giovane Werther di Goethe.
[2]      Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, cit., p. 40.
[3]      Barthes, Le discours amoureux, cit.
[4]      La prima figura dell’attesa risale agli appunti scritti da Barthes per la lezione del 23 gennaio 1975: cfr. ivi, pp. 99-101.
[5]      Nella lezione del 26 febbraio 1976: cfr. ivi, pp. 477-82.
30.
[6]      Cfr. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, cit., pp. 40-2.
[7]      Ivi, p. 42.
[8]      Barthes, Le discours amoureux, cit., p. 100 (qui e infra trad. mia).
[9]      Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, cit., p. 42.
[10]     Ivi, p. 482.
[11] Cfr. “Incantamento”: «Condizione di chi è incantato, attonito, imbambolato (Treccani); «Stato di assenza mentale provocato da una persistente distrazione» (Devoto-Oli). Una conferma verrebbe in tal senso dalle parole dello stesso Barthes che ragionando sulla figura dell’Enchantement, poi non pubblicata nei Frammenti, così precisava: «Prendere qui incantamento nel senso forte di cattura immobilizzante: essere tenuti immobili da qualcosa di invisibile, senza sapere perché (Barthes, Le discours amoureux, cit., p. 141). Ringrazio Ornella Tajani per il prezioso suggerimento.
[12]     Cfr. J. de Visscher, En attendant Albertine: une petite phénoménologie de l’attente à propos de Proust, in “Cahiers du cirp”, 1, 2006, p. 7.
[13]     Barthes, Le discours amoureux, cit., p. 482. Di quest’aspetto mi sono occupata in L’amore appeso a un filo. Il topos dell’attesa al telefono, in “Strumenti critici”, 2, 2013, pp. 233-54.
[14]     La metafora del gufo, di derivazione proustiana, è ripresa da Mario Lavagetto a commento del celebre episodio delle Rose del Bengala (cfr. M. Lavagetto, Stanza 43. Un lapsus di Marcel Proust, Einaudi, Torino 1991, pp. 57 ss.) proprio per mettere in luce due fondamentali qualità che Proust attribuiva al poeta, all’innamorato e alla spia: l’immobilismo e il vedere senza essere visti.
[15]     Barthes, Le discours amoureux, cit., p. 478.
[16]     La frase, tratta dal Werther di Goethe, è posta da Barthes come enseigne della figura “Dépendance” (ivi, p. 132).
[17]     Ibid.
[18]     Ivi, p. 477.
[19]     Gasparini, Sociologia degli interstizi, cit., p. 55.
[20]     A. Chalanset, C. Danziger, Editorial, in “Autrement”, L’attente. Et si demain…, série Mutations, 141, janvier 1994, p. 14 (trad. mia). Tra le attese individuate nell’editoriale della rivista ve n’è una che anche Roland Barthes aveva riconosciuto come fortemente simbolica dello stato di impotenza, dipendenza e “cosificazione” che affligge chi aspetta: l’attesa in aeroporto (cfr. Barthes, Le discours amoureux, cit., p. 478).
[21]     Cfr. ivi, p. 100.
[22]     Cfr. G. Bachelard, La dialettica della durata, Bompiani, Milano 2010, p. 155 (ed. or. 1989).
[23]     Cfr. J. Kristeva, Storie d’amore, Donzelli, Roma 2013 (ed. or. 1983).
[24]     Cfr. Barthes, Le discours amoureux, cit., p. 481.
[25]     Cfr. ivi, p. 479.
[26]     Se, come insegna Deleuze, «ogni atto dell’apprendere è un’interpretazione di segni o di geroglifici», l’attesa si rivelerebbe in questo senso come una tappa fondamentale lungo il percorso di apprentissage dell’amore; cfr. G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, Einaudi, Torino 2001, p. 6 (ed. or. 1964).
[27]     L’attente, “Nouvelle revue di Psychanalyse”, cit., p. 6.
[28]     Sull’attesa come dipendenza dalla risposta dell’altro cfr. A. Puck Petitier, On dit qu’un prompt départ vous éloigne de nous, ivi, pp. 99-100.
[29]     Barthes, Il più grande decrittatore di miti, cit., p. 241.
[30]     Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, cit., p. 40.
[31]     Barthes, Le discours amoureux, cit., p. 479.
[32]     Ibid.
[33]     Ivi, p. 477.
[34]     Ibid.
[35]     Cfr. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, trad. di G. Raboni, note di A. Beretta Anguissola, D. Galateria, Mondadori, Milano 1995, p. 39: «E ad ogni sia pur minimo atto, che prima fosse stato immerso nell’atmosfera felice della presenza di Albertine, mi toccava ogni volta ricominciare da capo, con lo stesso dolore, l’apprendistato della separazione» [À la recherche du temps perdu, iv, éd. publiée sous la direction de J.-Y. Tadié, Gallimard, Paris 1987-89, p. 31: «Pour chaque acte, même le plus minime, mais qui baignait auparavant dans l’atmosphère heureuse qu’était la présence d’Albertine, il me fallait chaque fois, à nouveaux frais, avec la même douleur, recommencer l’apprentissage de la séparation»].
[36]     Cfr. A. Schönberg, Erwartung: Monodram, op. 17 (1909), Dichtung von M. Pappenheim, Universal Edition, 1950.
[37]     Barthes, Il più grande decrittatore di miti, cit., p. 231.

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