16 luglio 2014

La Giustizia vista da F. Dürrenmatt

F. Dürrenmatt


Giustizia in panne



di Antonio Tricomi 

Pubblicato per la prima volta nel 1956 e da poco riproposto in traduzione italiana, La panne (Adelphi, Milano 2014, pp. 87, € 10,00) è uno spietato apologo nel quale Friedrich Dürrenmatt sembra muovere dal Kafka sia del Processo sia del Castello per interrogarsi sulla labilità di qualsivoglia etica individuale e di ogni legge socialmente condivisa che ambiscano a pretendersi inderogabili in un mondo in cui «non vi è più un dio che minacci, né una giustizia, né un fato come nella quinta sinfonia». In un mondo, cioè, nel quale possono riaffiorare forme esclusivamente grottesche o paradossali, e proprio per questo sovente estremistiche, di verità, di autocoscienza e addirittura di «grazia», in un solo caso: quando «un semplice contrattempo si dilata involontariamente a fenomeno universale». Soltanto allora torna ad imporsi agli uomini non il sensato rispetto di una ragionevole moralità pubblica e privata, ma la cieca ubbidienza a un surreale codice etico assoluto che all’origine di ogni nefasta casualità, come pure alla base di qualsiasi realizzazione sociale, scorge la traccia di un criminogeno disegno, o l’esito di una sconcia aspirazione, di questo o quel soggetto: in altri termini, un’ontologica colpa individuale che, appena accertata, suggerisce al reo di ritenersi egli per primo degno di un’inappellabile condanna a morte. Perché, ci spiega insomma Dürrenmatt, quando si verifica un intoppo, o per l’appunto una panne, in quell’efficiente meccanismo socioculturale che regola la deliberata evaporazione del senso tipica della nostra era, può solo accadere che una vuota giustizia fin lì meramente e persino serenamente formale si converta, in maniera non altrettanto pacifica e astratta, nella cinica parodia di un irrefrenabile giustizialismo che alle sue vittime infligge la pena comunque del ridicolo. Accettare quell’oltranzistico processo alle intenzioni che solo si rivelerebbe congruo in un contesto che sapesse presentarlo come esito naturale del legittimo desiderio di punire ogni infrazione di un vigente e comunitario orizzonte di senso, vuole infatti dire, in un mondo orfano di qualsiasi significato autentico, scivolare pateticamente nell’assurdo, non già poter riscattare d’improvviso e appieno la propria grigia vita di menzogne e mancanze. Finché la legge si dimostra una farsa, anche il richiamo o la sottomissione ad essa si tramutano in pantomime dai risvolti distruttivi.
Oltre che del caustico romanzo breve di Dürrenmatt, il 1956 è l’anno della pubblicazione del primo volume di un classico del pensiero (anti-accademico) contemporaneo: L’uomo è antiquato, al cui autore lo psicanalista Franco Lolli ha appena dedicato un’agile ma densa monografia, appunto intitolata Günther Anders (Orthotes, Napoli-Salerno 2014, pp. 93, € 10,00). In fondo, il filosofo di Breslavia riconduce la medesima liquefazione del senso e l’identica eclissi dell’etica tratteggiate, in altro modo, dallo scrittore svizzero di lingua tedesca a una causa precisa: il tramonto di ogni ipotesi antropocentrica nell’epoca del trionfo, giudicato definitivo, di una tecnica capace di ergersi ad attore unico e sovrano incontrastato di un mondo in cui – riassume Lolli – l’uomo è divenuto «superfluo, un sovrappiù, semplice pezzo di un ingranaggio che ha acquistato autonomia e che non riconosce il debito verso chi lo ha messo in moto». L’attacco al sistema capitalistico, che nella Panne resta implicito, serbandosi su un piano trascendente, con Anders e con la sua attenta «sociopatologia della vita quotidiana» – come ancora Lolli la definisce – si fa cioè scoperto e anzi radicale, risolvendosi nell’apocalittica denuncia della letale affermazione di un «tecnototalitarismo» (o “totalitarismo morbido” che dir si voglia) che mira a produrre l’estinzione del genere umano e, in ultimo, del mondo stesso. Avendo pensato il suo libro non come una ricognizione specialistica, ma al pari di un corpo a corpo con un autore a lui caro anche perché capace di offrirgli spunti critici da mettere a frutto nell’interrogazione epistemologica dei fondamenti teorici del proprio mestiere, Lolli perciò si spinge, da un lato, ad ammettere le colpe di una certa psicanalisi soprattutto americana nel convalidare quella dittatura della «logica consumistica» ritenuta da Anders consustanziale all’egemonia della tecnica e che conduce all’apoteosi «di una ideologia che fa dell’eliminazione del limite lo strumento più raffinato per limitare la libertà del singolo». Dall’altro lato, lo psicanalista si prodiga nel tentativo di difendere Anders da ogni accusa di nichilismo, ricordandone il desiderio di «contrapporre all’attitudine contemplativa e disincantata tipica del disfattismo nichilista, la passione e l’ardore della sua denuncia nonché il suo impegno sociale», speso fino agli ultimi mesi di vita. E qui il movente – per così dire – dichiaratamente personale del volume viene forse ancor più alla luce. All’interno di una vieppiù reazionaria retorica pubblica, la nostra era conosce una sovraesposizione del discorso psicanalitico che potrebbe paradossalmente essere letta come un sintomo dell’esaurimento dell’originaria carica di rottura con l’ordine dato o persino alla stregua di un certificato di morte di quella pratica. Che Lolli abbia allora inteso implicitamente ribadire che è compito della psicanalisi fuggire il rischio di una non remota deriva nichilistica tornando urgentemente a resistere a ogni forma di irreggimentazione, pur magari a costo di una maggiore perifericità in seno al dibattito intellettuale?


 

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