03 luglio 2014

BREVE ELOGIO DELLA PAURA

P. Picasso


Giuseppe Zuccarino
Breve elogio della paura

     In apparenza, non esiste alcun rapporto tra il fatto di scrivere, di dedicarsi all’attività letteraria, e la paura.  Quest’ultimo sentimento, per di più, viene considerato come qualcosa di esclusivamente negativo. Ma, a ben vedere, si tratta di uno stato d’animo non sempre meschino e disprezzabile. Così Hobbes (ripreso da Barthes in epigrafe a un suo libro) poteva ammettere senza vergogna: «L’unica passione della mia vita è stata la paura»(1). Di ciò si è accorto qualche scrittore, che, oltre a far tesoro di tale scoperta, ha osato contrapporre il terrore ad altri – più celebrati ma forse meno intensi – moti dello spirito. È il caso di Stevenson: «La gente scherza con l’amore, ma a mio avviso l’amore non è affatto una grande passione. La vera, autentica passione è la paura: è con essa che dovete trattare, se volete assaporare i più intensi piaceri della vita»(2).
     Si potrebbe eccepire che tutto ciò suggerisce alla letteratura una tematica fra le più efficaci, ma non riguarda l’atto scrittorio in se stesso. Anzi, così come è noto che per tematizzare adeguatamente l’amore occorre essere abili scrittori ma non occorre essere innamorati, altrettanto può dirsi per la paura. «Il vero artista è colui che procede, non dal sentimento alla forma, ma dalla forma al pensiero e alla passione»(3), diceva Wilde. E altrove, rispondendo a una domanda di Amleto (la stessa eletta a titolo di libro da Nanni Cagnone), aggiungeva che «le sole cose belle sono quelle che non ci riguardano. È […] perché Ecuba non è niente per noi che i suoi dolori sono un così eccellente motivo di tragedia»(4). Lo scrittore, al pari di chi legge, fa dunque bene ad esimersi da un eccessivo coinvolgimento nella materia dell’opera.
     E tuttavia resta vero che una certa esperienza della paura, di fronte alla pagina bianca, dovrebbe essere familiare a chiunque scriva veramente, anche perché è ormai venuta meno, persino per i poeti, la fiducia nella possibilità di giovarsi dell’assistenza di una qualche entità estranea alla coscienza individuale (le Muse, il dio Amore, l’Inconscio, il Caso) che ispiri o detti ciò che si tratta di mettere su carta. L’apprensione può allora essere vista come un indizio o una prova del fatto che ci si sta davvero confrontando con qualcosa di significativo, che non si è semplicemente sul punto di svolgere un’attività meccanica e rassicurante, del tutto priva di stimoli e di insidie. Enfasi a parte, non ha torto Jabès ad affermare: «Se […], chinandoti sul foglio, non tremi, all’improvviso, di paura, getta lontano la penna; quello che scriveresti sarebbe di poco valore»(5).
     Per quale motivo si dovrebbe tentare di affidare delle parole a un supporto, cartaceo o no, conoscendo in anticipo il risultato, essendo già certi di poter finire il testo che ci si prefigge di scrivere e di poterlo redigere nei modi e nei tempi inizialmente previsti? Se anche fosse vero che non esistono più sanzioni esterne che possano mettere in pericolo lo scrittore (ma la sorte tragica che minaccia ancor oggi in vari paesi del mondo coloro che esercitano non servilmente tale attività ridimensiona subito ogni ottimistica credenza al riguardo), basterebbe, per dar sapore alla scrittura, il rischio connesso all’immagine di sé che in tal modo si offre agli altri, o che si mette in gioco di fronte a se stessi. Notava Leiris che la letteratura è paragonabile alla tauromachia, giacché pone chi la pratica a confronto con qualcosa di minaccioso. Egli affidava al resoconto autobiografico il compito di introdurre nell’opera, se non un rischio effettivo, almeno «l’ombra di un corno di toro»(6). Va detto però che ogni scrittura, anche la più astratta e teorica, comporta implicazioni autobiografiche, non solo perché quello dell’impersonalità è ormai perfettamente riconoscibile come un mito letterario, ma anche nel senso già segnalato, ossia che chiunque scriva e pubblichi (una cosa scritta è già pubblica, anche se resta chiusa in un cassetto) si trova coinvolto in un pericoloso gioco con la nozione e la valutazione di sé. Dovrebbe essere evidente, infatti, che il solo atto di scrivere un testo letterario modifica chi lo compie: questi si scopre (nei due sensi del verbo) attraverso le sue opere, e queste ultime retroagiscono su di lui modificandolo. Non a caso ci sono autori che hanno finito coll’identificarsi, più o meno lucidamente, con i personaggi da loro stessi inventati, ed altri che si sono a lungo sforzati di convincere il pubblico di aver conseguito un’ammirevole coincidenza tra vita e opera. Altri ancora, seguendo le premonizioni o le intimazioni che a posteriori risultano reperibili nei loro scritti, hanno finito col farsi guidare verso esiti biograficamente funesti. La letteratura, se anche potesse essere detta innocua per chi legge – ma sarebbe agevole dimostrare il contrario – non lo sarà mai per chi scrive (e per chi ne scrive: non dimentichiamoci dei critici).
     È dunque giusto, ragionevole ed opportuno che lo scrittore abbia una certa paura di fronte al foglio o al monitor su cui stanno per comparire (o scomparire, se con un rapido gesto deciderà di cancellarle) le sue parole. Ma tra le cose che egli deve temere c’è anche l’eccessivo timore, quello che va oltre la giusta vigilanza e conduce al silenzio, alla non-scrittura. Il silenzio, occorre ammetterlo, ha un suo fascino e una sua difendibilità, specie in un’epoca in cui infuriano la chiacchiera e l’effimero. Eppure può rivelarsi da ultimo ingannevole e pericoloso, può risultare una forma di complicità, ancorché indiretta e involontaria, con l’esistente (inclusi i suoi aspetti più riprovevoli), può equivalere a lasciar parlare soltanto coloro la cui voce è artificialmente e artificiosamente amplificata. Se davvero lo scrittore intende evitare che siano gli altri a parlare al suo posto, se cerca di pronunciare una parola che non sia troppo lontana dal silenzio, una parola a cui si sente costretto ma che per converso non costringe nessuno ad ascoltarla, se sa affrontare anziché eludere il timore di fronte al foglio bianco, allora – e solo allora – egli dimostra di saper superare in maniera adeguata la paura di dire.


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Note
(1) Thomas Hobbes, cit. in Roland Barthes, Le plaisir du texte, in Œuvres complètes, IV, Paris, Éditions du Seuil, 2002, p. 217 (tr. it. Il piacere del testo, Torino, Einaudi, 1975, p. 1).
(2) Robert Louis Stevenson, Il club dei suicidi, in Le nuove Mille e una notte, in Romanzi, racconti e saggi, tr. it. Milano, Mondadori, 1982, p. 26.
(3) Oscar Wilde, Il critico come artista, in Opere, tr. it. Milano, Mondadori, 1992, p. 316.
(4) La decadenza della menzogna, ibid., p. 238. Cfr. William Shakespeare, Amleto, tr. it. Milano, Feltrinelli, 1980; 1989, p. 115: «Non è mostruoso che questo attore qui, / in una finzione, nel sogno di una passione, / abbia potuto tanto forzare la sua anima alla sua immaginazione / che, per quel travaglio, gli è impallidito il volto, / e lacrime negli occhi, disperazione nell’aspetto, / la voce rotta, e ogni suo gesto conformato / nei modi alla sua immaginazione? E tutto per niente! / Per Ecuba! / Cos’è Ecuba per lui, o lui per Ecuba, che debba piangere per essa?». L’opera di Cagnone a cui alludiamo è What’s Hecuba to Him or He to Hecuba?, New York-Norristown-Milano, Out of London Press, 1975.
(5) Edmond Jabès, Aely, Paris, Gallimard, 1972, p. 27.
(6) Michel Leiris, L’âge d’homme, précédé de De la littérature considérée comme une tauromachie, Paris, Gallimard, 1946; 2002, p. 10 (tr. it. Età d’uomo preceduto da La letteratura considerata come tauromachia, Milano, SE, 2003, p. 12).

Fonte: http://rebstein.wordpress.com/2014/07/03/breve-elogio-della-paura/

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