Paure e feticci del futuro ( dettagli)
Su facebook di recente mi è capitato di leggere l’accorata dichiarazione di una traduttrice, molto brava e stimata, che affermava che con l’introduzione di chatGPT o forse di qualche altro programma le sarebbero restati cinque anni di lavoro prima di essere soppiantata da un algoritmo dell’intelligenza artificiale. Questo genere di paure non è affatto infondato sia perché l’esperienza sociale degli ultimi decenni a proposito di innovazione tecnologica non rassicura, con un’eliminazione di un numero di posti di lavoro superiore alla creazione di nuovi a differenza delle precedenti rivoluzioni tecnologiche, sia perché nel caso specifico della IA anche alcuni documenti di addetti ai lavori autorizzano interpretazioni pessimistiche ( ne abbiamo parlato qui). Per quel che può valere la mio opinione, ritengo che tra cinque anni né la traduttrice in questione né nessuno dei suoi colleghi ( nemmeno quelli che fanno traduzioni commerciali e tecniche) resterà senza lavoro, ma certo verrà pagata di meno, sarà più precaria e più ricattabile grazie a una modificazione dell’immagine sociale del suo lavoro che da specializzato e culturalmente qualificato verrà rimodellato nell’immaginario collettivo come un relitto del passato che ostacola il progresso.
Infatti il lavoro di traduttore, essendo la traduzione una scrittura creativa di secondo grado, non potrà mai essere realmente sostituito da un meccanismo di apprendimento imitativo proprio perché le soluzioni tra cui deve scegliere un traduttore nel suo lavoro sono numerose, non equivalenti, sovente non ripetibili, contestuali e non riconducibili a criteri uniformi. Forse chatGPT non sarebbe in grado di tradurre decentemente nemmeno un testo composto da essa stessa e dunque costituito interamente da sintagmi già immagazzinati. Del resto molti addetti ai lavori hanno messo in luce che il termine intelligenza artificiale è enfatico e fuorviante rispetto a meccanismi molto più pappagalleschi di quanto il loro nome ci farebbe credere. Quello che però ha da offrire questa ‘intelligenza’ ai suoi finanziatori è qualcosa di molto più concreto e immediato: come scrivevo sopra, la maggiore ricattabilità del traduttore ( e questo vale anche per altre professioni come giornalisti, insegnanti eccetera) come lavoratore, che viene indotto a percepire la propria attività come provvisoria e subito sostituibile da una macchina, e la diffusione della convinzione nel pubblico che una traduzione fatta con la sommarietà degli automatismi e un veloce editing umano, cioè una traduzione di qualità peggiore se non illeggibile, sia in realtà migliore perché così vuole il progresso.
D’altra parte qualche bizzarro intelletto dei tempi recenti ha messo in luce che la tecnologia non nasce spontaneamente in una zona iperurania e poi entra nella società plasmabile in ogni direzione e quindi i suoi effetti dipendono solo da come la si usa, ma al contrario è espressione dei rapporti sociali, intesi qui non solo come rapporti di produzione ma anche come idee delle classi dominanti sulla soluzione ideale dei problemi prioritari che affliggono la società. Per esempio l’unico paese al mondo che dispone di una tecnologia in grado di dissolvere le nubi per poche ore su uno spazio di cielo limitato è la Russia, che l’ha ereditata dall’Unione Sovietica: tale tecnologia non è un esito di un generico progresso anonimo, ma è il prodotto di una società in cui le parate militari, che naturalmente vengono meglio con il sole, giocavano un ruolo di primo piano nelle preoccupazioni dei gruppi dirigenti. Allo stesso modo nella nostra società, su un terreno preparato ideologicamente da quello che Evgenij Morozov chiama soluzionismo ( ossia l’idea che internet e in senso lato l’informatica risolveranno a livello tecnologico qualsiasi problematica sociale), una delle priorità dei gruppi dirigenti è l’ottimizzazione dei costi di produzione, il che coincide con la tendenza generale alla riduzione dei costi del lavoro, di qualsiasi lavoro: ecco perché partecipano del processo di precarizzazione ossia di proletarizzazione anche lavoratori della sfera cognitiva, risparmiati ai tempi del fordismo. L’intelligenza artificiale è espressione di questa costellazione sociale e nasce per rispondere a questa priorità.
Tuttavia perché questo processo sia accolto senza discussioni nella società, è necessario che venga visto come un evento oggettivo, necessario e quasi naturale senza che decisioni politiche ed economiche umane appaiano giocarvi alcun ruolo. Indicativo o meglio sintomatico di questa ricezione nello sviluppo dell’immaginario collettivo sull’intelligenza artificiale è la sua presentazione antropomorfa: abbiamo assistenti vocali con nomi umani ( e visto che mi risulta che un autorevole ministro del nostro governo ha biasimato l’abitudine di dare nomi umani ai cani, bisognerebbe sollecitare un suo autorevole intervento anche in questo ambito, perché se uno chiama Antonio un barboncino in cuor suo saprà sempre che è un cane, in quanto gli manca la parola, ma se chiama Antonio qualcosa che apparentemente parla, subito i suoi sentimenti diventano più complessi), giornalisti che ci raccontano convinti di computer che provano sentimenti compulsivi di gelosia e, infine, un’imprenditrice attiva nel campo delle start up educative che ci ha rivelato che è possibile innamorarsi di un robot, non mi ricordo se ricambiati o meno. Questa rappresentazione antropomorfa non è un fenomeno ingenuamente spontaneo, ma ha lo scopo di spostare l’attenzione dagli aspetti più socialmente dirompenti dell’intelligenza artificiale, favorendone l’accettazione nel quotidiano tramite la sua narrazione come qualcosa di naturale, fraterno o amoroso, la cui presenza è inevitabile. Eppure in essa possiamo trovare un’ingenuità di secondo livello, per così dire, che mette involontariamente in luce la natura feticistica del rapporto con l’intelligenza artificiale, alla quale vengono attribuite decisioni autonome che in realtà sono realizzazioni di scelte umane, in particolare di funzioni che esprimono gli interessi delle classi sociali dominanti. In un certo senso si potrebbe definire questo rapporto come un feticismo secondario, una sorta di effetto collaterale, derivato dal feticismo primario della nostra società, quello delle merci, che ha educato le nostre menti a concepire i rapporti con le cose in termini feticistici. Si apre a questo proposito lo spazio all’osservazione di una serie di fenomeni curiosi e talvolta francamente divertenti, che si potrebbero definire forme di animismo ipermoderno, per cui se qualcuno volesse tenere un calepino, o aprire un file, in cui annotare diligentemente casi di persone che, specialmente nel discorso mediatico, attribuiscono a oggetti o programmi caratteri e sentimenti umani, si troverebbe a completarlo rapidamente, ovviamente se avesse scelto di vergarli nel primo, perché si sa che i file possono essere allungati a dismisura.
( nell’immagine: Anonimo, Distributore automatico di vino ovvero forme plastiche di evoluzione tecnologica secondo differenti bisogni sociali)
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