DENTRO MARILYN
di Giuseppe Sansonna
Pubblichiamo un pezzo uscito su Linus uscito ad agosto 2022, ringraziando la rivista.
Nevada, estate infuocata del 1960.
Inquadrata in campo lunghissimo, stretta tra il bianco accecante del deserto, il profilo dei monti e le nuvolacce nere, c’è una donna, testolina bionda e camicetta bianca.
Sembra un giglio, germogliato insensatamente dall’aridità che la circonda.
È Marilyn Monroe.
Grida di dolore, deformando quella voce bambina che tutto il mondo non smette di ricordare:
“Bugiardi! Assassini! Siete felici solo quando riuscite a veder morire qualcosa!
Voi e la vostra terra di Dio! La libertà! Vi compatisco! Siete soltanto tre, dolci, uomini morti”
I tre che la guardano, in attonito controcampo, sembrano davvero reduci di un’America morente. Cowboy anacronistici, in crisi d’identità, persi in uno spazio smisurato, che non sembra più appartenergli. Costretti a confrontarsi con le illusioni perdute di un’epica al tramonto.
A racchiuderli tutti nel suo sguardo profondo, dietro la cinepresa, c’è John Huston. Lo stesso regista che dieci anni prima ha dato a Marilyn il primo ruolo di rilievo, nella sua Giungla d’asfalto, nei panni succinti della pupa molto avvenente e non troppo arguta, amante dell’avvocato criminale Louis Calhern.
Il film è Gli Spostati, nella sua sequenza più lacerante. Marilyn ha scoperto, per l’ennesima volta, che gli uomini a cui ha regalato il cuore hanno tradito il suo sogno. Malconci e rancorosi, non hanno più frontiere da conquistare, ma continuano a catturare i Mustang, magnifici cavalli selvaggi, diventati nell’ottocento il simbolo scalpitante della libertà americana. Sanno ancora prenderli al lazo, ma non ne fanno più simbiotici strumenti di trasporto, come i loro antenati. Li consegnano al macello, in cambio di pochi dollari, perché diventino cibo in scatola per animali domestici. Una crudeltà mediocre, riversata su magnifiche prede, creature rare e preziose.
Miti da divorare, serializzati e inscatolati, ridotti a scadente merce di massa: l’identificazione empatica di Marylin coi Mustang è fatale. Cerca di proteggerli, assediata da testosterone e brutalità ottusa, da uomini incapaci di amare e farsi amare. Eppure, a inizio film, promettevano meglio. Tra loro, spicca il totemico Clark Gable, Stetson d’ordinanza in testa e schiena dritta da quercia, nonostante i sessant’anni navigati nel bourbon e nel tabacco forte. Si atteggia ancora a Rhett Butler, pronto a infischiarsene di tutto, a lisciarsi i baffi e ripartire per la sua strada. Ma la faccia da impunito si è fatta più tumida, l’occhio è liquido e il cuore più stanco, da old cowboy senza luna, senza stelle e senza fortuna. Marilyn lo adora a distanza, da sempre, da quando era solo una bambina sognante, rapita dagli schermi panoramici. Nel buio dei cinema, lo ha eletto subito a roccioso padre in celluloide, in mancanza di uno vero.
Al suo fianco, a dilatare spiritato gli occhi magnetici, c’è Montgomery Clift, molto impegnato nella sua meticolosa autodistruzione, gemello spirituale di Marilyn, quasi sollevata nel trovare in Nevada il primo che sta peggio di lei. Lacerato tra un’omosessualità da nascondere e un male di vivere che nessun successo può consolare. Nel film è un emarginato, abbandonato dalla famiglia, in cerca dell’estremo rodeo, per farla finita, o per conquistare finalmente un’identità. Il terzo uomo è Eli Wallach: l’unico del quartetto brutto, sporco, e anche un po’ cattivo. Pilota d’aereo, reduce di guerra senza rimorsi, brama Marilyn con gelosa possessività. Sembra già un po’il Tuco, The ugly, che diventerà qualche anno dopo, nel West canagliesco, reinventato da Sergio Leone. Maschera cinica e beffarda, crede solo al suo pugno di dollari, e in nessuna terra promessa da conquistare. Nemmeno nell’amore.
Marilyn Monroe, nel suo ultimo film completo, finisce per rivelare molto di sè, come attrice e come essere umano. Trentaquattrenne, lievemente sgualcita da alcol e pasticche, un velo di dolore sugli occhi imploranti, è un oggetto di desiderio forse ancora più bruciante, della pin up in technicolor degli anni cinquanta. Intermittente stella polare di un gruppo di misfits, spostati, o disadattati, stando alla traduzione letterale, è una luce che attira le anime dolenti che la circondano, condannandole a un desiderio spasmodico.
Nel crudo bianco e nero della fotografia, Russel Metty, a tratti, la avvolge in un soft focus, rendendola impalpabile come un miraggio.
Persino la notte, nel film, è spesso americana, finta e opaca come un brutto sogno: le stelle che indicano la rotta giusta sono invisibili, più da ricordare che da seguire.
Un crepuscolo artificiale in cui Marilyn sta andando in dissolvenza, arrivata al suo ultimo giro completo di manovella, prima della trasfigurazione definitiva nel mito. Il suo marito uscente, Arthur Miller le ha cucito addosso un copione rimuginato per anni, vissuti all’ombra della sua stella, in un ménage molto complesso. Ma forse ha stretto troppo i nodi, attingendo a troppi, dolorosi brandelli di vita, per regalarle il primo personaggio compiutamente drammatico della sua carriera. Concedendole la possibilità di invecchiare, di sgusciare via gradualmente, senza soffrire troppo, da quel corpo da bambola che l’ha resa una diva.
Il drammaturgo ha lavorato a lungo per lacerare, come Mimmo Rotella, il primo piano da locandina in technicolor di sua moglie. Il cinismo rivelatore di Andy Warhol lo riprodurrà postumo, congelando l’icona nei colori violenti di un’infinita serigrafia.
Marilyn, nella vita, è una fata vulnerabile, così potente da salvare quell’eversivo di Miller dalle spire del maccartismo, così fragile da consumarsi giorno per giorno, in preda ai suoi demoni. Quando iniziano le riprese del film, la coppia è ormai vicina alla separazione. E fresca di divorzio è anche Roslyn, il suo personaggio, una showgirl arrivata a Reno per sveltire la pratica, in un Nevada in cui divorziare è rapido e facile come annegare nel whisky a prima mattina, o perdere tutto sui tavoli verdi dei casinò. Uno stato di perenne, controversa libertà, come il sogno americano, e come Marilyn, libera e condannata, dal suo corpo e dal suo personaggio, ad offrirsi con innocente immediatezza, agli sbandati che le ronzano intorno, illusi di essere ribelli senza padrone. L’alcol scorre a fiumi, e la vita vera degli attori affiora nei dialoghi sconnessi. Tutti sembrano vicini solo fisicamente, isolati nel proprio intimo malessere. Entrano, a tratti, in contatto quasi casuale con il proprio interlocutore, specchiandosi nei reciproci abissi, e rimanendone atterriti. “Tutti stiamo morendo. Ogni minuto che passa ci avviciniamo sempre di più alla morte” constata Marylin, mentre balla in un locale, tra speroni, sguardi pesanti, sudore e polvere.
Clark Gable, troppo fiducioso nel proprio mito, rinuncia una volta di più alla controfigura, come ha fatto per tutta la vita. Muore d’infarto, una manciata di giorni dopo l’ultimo ciak. Stremato dai mustang, affrontati al lazo e a mani nude, all’ultimo respiro. Logorato anche dalle infinite attese, sul set, sotto il sole cocente, di quella diva rimasta bambina, che da piccola sognava di essere sua figlia.
Quella Marilyn che gioca pericolosamente con le pasticche, bagnate di vodka e champagne. Fino a tarda sera, in Nevada, impara faticosamente i dialoghi, continuamente modificati da Miller, ansioso quanto lei. Poi, per dormire e soffocare gli incubi, ingurgita i sonniferi, forati con uno spillo per potenziare l’effetto.
Al mattino, per tornare in vita e sul set, dov’è attesa da ore, si riempie di stimolanti. I suoi proverbiali ritardi non sono arroganze da diva, ma spie del suo volersi proteggere, del suo dilatare all’infinito il tempo del trucco, del rifarsi il volto. Ore volate via in bagni infiniti, regali, di quella bambina che da piccola buttavano in una tinozza, già molto usata. Esprimono la sua necessità di esasperare il desiderio di sé, di misurare l’amore del prossimo, tendendo l’attesa allo spasimo.
Sfinita, in piene riprese, viene ricoverata in ospedale per una decina di giorni, per poi uscire e completare il film. La sua ultima interpretazione completa coincide con la dissolvenza finale della vecchia Hollywood, dell’epoca d’oro delle majors, fabbriche di sogni, divismi e denaro sonante.
Qualche tempo dopo, in una notte d’agosto, svanisce anche Marilyn. Come un’Ofelia americana, ferita a morte da troppi Amleti.
Ma da dove era piovuta, quella lost little girl capace di trasformarsi, in pochi anni, in dea dell’eros?
Nella prima infanzia, il buio della sala cinematografica è un guscio protettivo, dove abbandonarsi ad una salvifica allucinazione. Identificarsi nelle dive sullo schermo è l’unico modo per evadere da una quotidianità di abusi, follia ereditaria e abbandoni. La bambina violata, sempre rifiutata, sballottata da un’anaffettività all’altra, diventa presto una ragazza tormentata, eppure radiosa, decisa a splendere per sempre. Conscia del suo crescente potere seduttivo, agitata da sogni sconfinati, che riuscirà a coronare, e superare per eccesso.
In certi concorsi di bellezza di provincia, nel dopoguerra, comincia a spiccare da reginetta, aderendo ad un nuovo archetipo, un incrocio tra Cenerentola e Daisy Mae, la bionda procace, sbucata in pieni anni trenta dalle strisce a fumetti di Al Capp, eterna pretendente dell’ingenuo ragazzone di campagna Li’l Abner. Una maggiorata piena di ingenuità seduttiva, ironica, proprio come Jean Harlow, suo primo, precocissimo role model. Un’ossessione che conserverà da star, fantasticando vanamente di incarnare sullo schermo, in un film biografico, la breve vita della prima bomba bionda.
Nel 1949, ancora semisconosciuta, si fa fotografare nuda per un calendario sexy, per cinquanta dollari, quanto le basta per far “spignorare l’auto”. Immagini che finiranno sul primo numero di Playboy, replicate in milioni di copie vendute. Diventa subito un simbolo erotico, tenendosi in bilico, come farà sempre, tra candore e spudoratezza, tra sincerità infantile e consapevolezza da manager di se stessa, cosciente dei suoi mezzi, e del contesto in cui si muove. Si costruisce, pezzo su pezzo.
A partire dal nome d’arte, scelto per il suono sensuale della doppia emme, decisamente più accattivante di Norma Jeane Mortenson.
Tolto il rosso rame dei capelli, a colpi di acqua ossigenata, consegna alla storia il biondo Marilyn, una tonalità che ribattezza color federa sporca.
Si ridisegna l’ovale, a colpi leggeri e mirati di chirurgia estetica, nasino scorciato e mento ammorbidito. Rasa le sopracciglia come ali di gabbiano, rende le labbra scarlatte e si libera anche degli occhiali per dare agli occhi blu il fascino acquoso della miopia. Eternamente schiava del paradosso, rende atomico, come nessuna, il sex appeal dell’oca giuliva, lo stereotipo della dumb blonde, e lotta poi fino alla fine, per emanciparsene.
Viene presto intrappolata dalla Twentieth Century Fox in commedie ripetitive, relegata inizialmente a gingillo per uomini potenti e incravattati, spesso nei panni della segretaria tonta e molto decorativa. Fa capolino anche nel capolavoro di Joseph L. Mankiewicz, All about Eve: è un’attricetta in ascesa, amante del perfido critico teatrale George Sanders, che la aizza a “rendere felici i produttori”.
Nella vita sembra impermeabile, ma forse è solo apparenza, all’efferatezza degli studios, e impone gradualmente cachet sempre più alti. Mai per avidità: per lei si tratta di pretendere una concreta, quantificabile attestazione d’amore, in un mondo di pescecani. Ai quali fa guadagnare fiumi di dollari, trascinandoli spesso all’esasperazione. Beffandosi di una Hollywood disposta a pagare mille dollari per il suo corpo, per i suoi baci, ma solo cinquanta centesimi per la sua anima. Articolo, tralaltro, che sembra interessare a pochi. Tutti la vedono come la bionda da preferire alle brune, che sa come si sposa un milionario e che ritiene i diamanti i migliori amici di una ragazza. Ma a luci spente è sempre condannata al suo contrappasso, a “non riuscire mai ad abituarsi alla felicità”, costretta ad anestetizzare chimicamente il dolore quotidiano. Perennemente assetata d’amore, di quel desiderio sfacciato, incontenibile, che scatena nelle truppe americane, in quei centomila soldati con gli occhi schizzati dalle orbite, accalcati in Corea, sotto quel palco in cui videro farsi carne viva e splendente, come per miracolo, la foto che tenevano nel portafoglio. Truman Capote, altra creatura dissonante, ne percepisce la natura da ninfa di cristallo. Vede riflessa in lei la sua fragilità, e il suo destino. La indica, burrosa e dolcemente alla deriva, come protagonista ideale di Colazione da Tiffany, ma Blake Edwards finisce per imporre la sofisticata eleganza di Audrey Hepburn.
E’ l’oggetto da plasmare, miele per troppi pigmalioni, eppure riesce a conservare sempre una sua sfuggente autonomia, diventando persino produttrice di se stessa.
Sempre ansiosa di migliorarsi, a metà degli anni cinquanta, all’apice del successo, decide di trasferirsi a New York, per studiare all’Actors Studio e perfezionare il suo talento. Gli Strasberg le garantiscono che mostreranno al mondo la sua grandezza d’attrice, ancora parzialmente inespressa. Finiscono per imporre la propria invadente presenza sui set, alitando sul collo del regista di turno: sembrano gli unici autorizzati a maneggiare la memoria emotiva di Marilyn, quella nitroglicerina che si porta dentro, perché possa distillarla nelle giuste dosi.
Lee Strasberg, nel discorso funebre, ne traccerà uno dei ritratti più nitidi: «Marilyn aveva qualcosa di luminoso. Una combinazione di pensosità, radiosità, struggimento, che la distingueva e nello stesso tempo faceva desiderare a tutti di condividere quell’ingenuità infantile, che era insieme così timida, e così vibrante».
La grande attrice Constance Collier, per un periodo sua maestra di recitazione, approfondisce ulteriormente la fenomenologia di Marilyn:
“Ha qualcosa dentro, una bellissima bambina… Non credo affatto che sia un’attrice in senso tradizionale. Le qualità che ha, questa presenza, questa luminosità, questi sprazzi di intelligenza, non potrebbero mai emergere a teatro. E’ come il volo di un colibrì: solo una cinepresa può fissarne la poesia”
L’incantesimo che si consuma tra la dea e l’obiettivo sembra destinato a rimanere un mistero intimo. Un flusso essenziale, invisibile agli occhi di chi ne condivide il set, ma ingoiato dall’obiettivo, per essere consegnato direttamente all’effimera eternità del cinema. Billy Wilder, occhio lungo, installa Marilyn nella memoria collettiva nel suo frammento più iconico, con la gonna bianca svolazzante, sollevata dal vento della metropolitana, in “Quando la moglie è in vacanza”. Restituendo a Marilyn la sua consistenza di sogno: nel copione figura semplicemente come la ragazza, personaggio senza nome, entità impersonale e quasi extrafilmica. Un concentrato di turbamento puro, piombato come un fulmine estivo nella routine coniugale dell’americano medio.
Wilder ricorre di nuovo a lei, per A qualcuno piace caldo. Il ruolo della bionda svampita, croce e delizia di Marilyn, smette per l’occasione di essere un clichè invalidante, per trasformarsi in una brillante invenzione comica.
La diva tiene in scacco, ogni giorno, l’intera troupe, trincerandosi in camerino per ore, mentre tutti aspettano che si manifesti. E lei, alla fine, appare: armata del suo ukulele, con la fiaschetta di bourbon, forse vero, infilata nella giarrettiera, troppo offuscata per imparare a memoria le battute, è costretta a leggerle da lavagne e foglietti, dissimulati ad arte nella scenografia.
Lemmon la ricorda sbagliare per sessantadue volte di seguito la battuta “It’s me, Sugar!”. Forse è un’iperbole, o forse no, ma lo stesso Jack ammette che, guardando a sera i giornalieri, ci si ritrova davanti ad una Marilyn magicamente perfetta, misteriosamente sincronizzata su tempi e cadenze giuste. Ancora una volta, la diva celebra il suo love affair con la macchina da presa, quell’aura riproducibile solo tecnicamente, alchimia in cui emerge tutto il suo genio comico. Estasiato, Wilder finisce per liquidare amnesie, imprecisioni, e ritardi mostruosi, con una battuta: “D’altra parte mia zia Minnie arriva sempre puntuale. Ma chi pagherebbe, per vederla al cinema?”.
Marilyn si presta magnificamente alla commedia, senza appannare nemmeno un po’ la sua carica erotica: in una delle prime pose in carriera, ancheggia da femme fatale, accelerando le palpitazioni di Groucho Marx.
Per Anthony Burgess, è molto affine a Mae West. “Due grandi comiche. Sembravano farsi beffe del sesso, della lussuria bramosa che accendevano nei maschi, senza che questo intaccasse il loro fascino divino. Come se il loro vero sé fosse un po’ altrove, rispetto al corpo”
George Cukor la trova intelligente quanto nervosa, spesso quasi inavvicinabile. Estremamente dotata, eppure poco fiduciosa nel proprio talento, al punto da studiare accanitamente, anche se non sembra averne alcun bisogno.
In diverse occasioni, mostra di essere un’attrice duttile, anche se pochi ci fanno caso. Sa essere ambigua e perturbante, moglie fedifraga e stralunata, fasciata in ultravioletto scintillante, pronta a liberarsi ad ogni costo del marito. Si cala bene anche nei panni di una babysitter con impulsi omicidi e polsi tagliati, con la bellissima bocca che brucia di pazzia, e di ricordi dolorosi. Peccato che Niagara e Don’t Bother to Knock non siano due noir memorabili, e finiscano solo per alimentare i rimpianti.
Marilyn, senza troppo sforzo, è la Molly Bloom che avrebbe potuto essere, forse a teatro, o forse anche al cinema. Basta guardarla in quella foto di Eve Arnold, seduta in costume da bagno sulla giostra di un parco giochi, gli occhioni stretti sulle ultime pagine dell’Ulisse.
Incantata dalla musicalità di Joyce, l’attrice ama leggere spesso, a voce alta il soliloquio orgasmico di quella Penelope contemporanea. Perdendosi e ritrovandosi in un flusso di coscienza di sogni bagnati, da sillabare ritmicamante, a letto, tra la veglia e il sonno: parole molto in sintonia con la sua vitale carnalità femminile. Alla fine, come all’inizio del capitolo, Molly esclama un potente, definitivo, sì alla vita. Quello che Marilyn non riuscirà mai a dire, se non sullo schermo.
Something’s Got to Give, suo ultimo film, diretto da Cukor, rimarrà incompleto, a causa delle sue continue diserzioni. Resterà, nella memoria, un ultimo frammento: la sua nudità notturna, sfolgorante e tenera, in una piscina. Tra le varie fughe dal set, la più plateale si consuma il 19 maggio1962.
Quella sera è di scena al Madison Square Garden, nella sua ultima, memorabile performance.
The late Marilyn Monroe, come la introdusse il presentatore Peter Lawford, sottolineando il suo ritardo, sale sul palco trafelata, per flautare i più sensuali auguri di compleanno della storia umana, al presidente John Kennedy. Mollemente lussuriosa, come un incidente diplomatico in paillettes, l’abito color carne che scintilla nel buio, amoreggia languida col microfono.
Con grazia forse un po’ebbra, sembra parodiare i suoi musical, Hollywood e l’intero apparato spettacolare e politico americano.
Portando sotto i riflettori la metà oscura, libertina e inconfessabile, del presidente.
E’ la penultima scena: la dissolvenza a nero finale, irrisolta, si chiude nell’agosto successivo.
Come in film noir, dal finale ancora aperto, il suo corpo nudo giace a letto, addormentato per sempre. La cornetta tra le dita sembra la traccia di un’ultima richiesta d’aiuto.
Sparì, come un pulviscolo d’oro, scrive Pier Paolo Pasolini, dedicandole forse l’epitaffio più bello. Fra te e la tua bellezza posseduta dal potere si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente. Te la portavi sempre dietro, come un sorriso tra le lacrime, impudica per passività, indecente per obbedienza
La morte di Marilyn consegna la singolarità della sua bellezza, intatta e incorruttibile dal tempo, alla memoria del mondo.
Da allora si consuma, inarrestabile, il tentativo di replicarla in una miriade di sosia, riducendola a icona di stile seriale, ancora molto spendibile.
Eppure, lo scintillio dei suoi occhi e del suo sorriso, nelle foto e nei primi piani, sembra lo sberleffo eterno di una bambina bellissima.
Perfettamente consapevole dell’irriproducibilità della sua anima.
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