Sono sempre stato molto critico, non
tanto del pensiero filosofico di Toni Negri, quanto della impostazione che
contribuì forse più di ogni altro a dare a ciò che era stato il grande
sollevamento del '77. Negri non capì. questa la mia critica, che quel momento -
proprio in quanto punto più alto del vasto movimento sociale innescato dal '68
e dalle lotte operaie del '69 - segnava l'inizio inevitabile di una fase di
riflusso. Bisognava per usare il linguaggio gramsciano, passare dalla guerra di
movimento alla guerra di posizione, consolidare le forze, offrire una
prospettiva di lunga durata, ed invece Negri puntò su una accelerazione delle
lotte, su una teoria dell'offensiva come realtà che trovava già nella sua
proclamazione senso e progetto. Fu la disfatta di un movimento e di una
generazione. Ciò non toglie che questa intervista, che riprendiamo dal
Manifesto, in occasione dei suoi 90 anni sia di grandissimo interesse umano e
politico. E aggiungo, anche pienamente condivisibile soprattutto per quanto
riguarda la critica del PCI (che spiega bene l'attuale totale assenza di una
sinistra), e di una magistratura sempre più da allora soggetto politico
autonomo e autoreferenziale. Quel "partito" dei giudici che, pur
diviso in correnti ferocemente in lotta tra loro per il potere, da decenni
condiziona pesantemente in negativo la vita politica italiana. (La copertina è
un omaggio al grande contributo teorico che comunque Negri ha dato e che
resterà come il suo lascito più importante).
G.A.
Il secolo breve di Toni Negri
Toni Negri hai compiuto novant’anni.
Come vivi oggi il tuo tempo?
Mi
ricordo Gilles Deleuze che soffriva di un malanno simile al mio. Allora non
c’erano l’assistenza e la tecnologia di cui possiamo godere noi oggi. L’ultima
volta che l’ho visto girava con un carrellino con le bombole di ossigeno. Era
veramente dura. Lo è anche per me oggi. Penso che ogni giorno che passa a
questa età sia un giorno di meno. Non hai la forza di farlo diventare un giorno
magico. È come quando mangi un buon frutto e ti lascia in bocca un gusto
meraviglioso. Questo frutto è la vita, probabilmente. È una delle sue grandi
virtù.
Novant’anni
sono un secolo breve.
Di
secoli brevi ce ne possono essere diversi. C’è il classico periodo definito da
Hobsbawm che va dal 1917 al 1989. C’è stato il secolo americano che però è
stato molto più breve. È durato dagli accordi monetari e dalla definizione di
una governance mondiale a Bretton Woods, agli attentati alle Torri Gemelle nel
settembre 2001. Per quanto mi riguarda il mio lungo secolo è iniziato con la
vittoria bolscevica, poco prima che nascessi, ed è continuato con le lotte
operaie, e con tutti i conflitti politici e sociali ai quali ho partecipato.
Questo
secolo breve è terminato con una sconfitta colossale.
È
vero. Ma hanno pensato che fosse finita la storia e fosse iniziata l’epoca di
una globalizzazione pacificata. Nulla di più falso, come vediamo ogni giorno da
più di trent’anni. Siamo in un’età di transizione, ma in realtà lo siamo sempre
stati. Anche se sottotraccia, ci troviamo in un nuovo tempo segnato da una
ripresa globale delle lotte contro le quali c’è una risposta dura. Le lotte
operaie hanno iniziato a intersecarsi sempre di più con quelle femministe,
antirazziste, a difesa dei migranti e per la libertà di movimento, o ecologiste.
Filosofo,
arrivi giovanissimo in cattedra a Padova. Partecipi a Quaderni Rossi, la
rivista dell’operaismo italiano. Fai inchiesta, fai un lavoro di base nelle
fabbriche, a cominciare dal Petrolchimico di Marghera. Fai parte di Potere
Operaio prima, di Autonomia Operaia poi. Vivi il lungo Sessantotto italiano, a
cominciare dall’impetuoso Sessantanove operaio a Corso Traiano a Torino. Qual è
stato il momento politico culminante di questa storia?
Gli
anni Settanta, quando il capitalismo ha anticipato con forza una strategia per
il suo futuro. Attraverso la globalizzazione, ha precarizzato il lavoro
industriale insieme all’intero processo di accumulazione del valore. In questa
transizione, sono stati accesi nuovi poli produttivi: il lavoro intellettuale,
quello affettivo, il lavoro sociale che costruisce la cooperazione. Alla base
della nuova accumulazione del valore, ci sono ovviamente anche l’aria, l’acqua,
il vivente e tutti i beni comuni che il capitale ha continuato a sfruttare per
contrastare l’abbassamento del tasso di profitto che aveva conosciuto a partire
dagli anni Sessanta.
Perché,
dalla metà degli anni Settanta, la strategia capitalista ha vinto?
Perché
è mancata una risposta di sinistra. Anzi, per un tempo lungo, c’è stata una
totale ignoranza di questi processi. A partire dalla fine degli anni Settanta,
c’è stata la soppressione di ogni potenza intellettuale o politica, puntuale o
di movimento, che tentasse di mostrare l’importanza di questa trasformazione, e
che puntasse alla riorganizzazione del movimento operaio attorno a nuove forme
di socializzazione e di organizzazione politica e culturale. È stata una
tragedia. Qui che appare la continuità del secolo breve nel tempo che stiamo
vivendo ora. C’è stata una volontà della sinistra di bloccare il quadro
politico su quello che possedeva.
E
che cosa possedeva quella sinistra?
Un’immagine
potente ma già allora inadeguata. Ha mitizzato la figura dell’operaio
industriale senza comprendere che egli desiderava ben altro. Non voleva
accomodarsi nella fabbrica di Agnelli, ma distruggere la sua organizzazione;
voleva costruire automobili per offrirle agli altri senza schiavizzare nessuno.
A Marghera non avrebbe voluto morire di cancro né distruggere il pianeta. In
fondo è quello che ha scritto Marx nella Critica del programma di Gotha: contro
l’emancipazione attraverso il lavoro mercificato della socialdemocrazia e per
la liberazione della forza lavoro dal lavoro mercificato. Sono convinto che la
direzione presa dall’Internazionale comunista – in maniera evidente e tragica
con lo stalinismo, e poi in maniera sempre più contraddittoria e irruente -,
abbia distrutto il desiderio che aveva mobilitato masse gigantesche. Per tutta
la storia del movimento comunista è stata quella la battaglia.
Cosa
si scontrava su quel campo di battaglia?
Da
un lato, c’era l’idea della liberazione. In Italia è stata illuminata dalla
resistenza contro il nazi-fascismo. L’idea di liberazione si è proiettata nella
stessa Costituzione così come noi ragazzi la interpretammo allora. E in questa
vicenda non sottovaluterei l’evoluzione sociale della Chiesa Cattolica che
culminò con il Secondo Concilio Vaticano. Dall’altra parte, c’era il realismo
ereditato dal partito comunista italiano dalla socialdemocrazia, quello degli
Amendola e dei togliattiani di varia origine. Tutto è iniziato a precipitare
negli anni Settanta, mentre invece c’era la possibilità di inventare una nuova
forma di vita, un nuovo modo di essere comunisti.
Continui
a definirti un comunista. Cosa significa oggi?
Quello
che per me ha significato da giovane: conoscere un futuro nel quale avremmo
conquistato il potere di essere liberi, di lavorare meno, di volerci bene.
Eravamo convinti che concetti della borghesia quali libertà, uguaglianza e
fraternità avrebbero potuto realizzarsi nelle parole d’ordine della
cooperazione, della solidarietà, della democrazia radicale e dell’amore. Lo
pensavamo e lo abbiamo agito, ed era quello che pensava la maggioranza che
votava la sinistra e la faceva esistere. Ma il mondo era ed è insopportabile,
ha un rapporto contraddittorio con le virtù essenziali del vivere insieme.
Eppure queste virtù non si perdono, si acquisiscono con la pratica collettiva e
sono accompagnate dalla trasformazione dell’idea di produttività che non
significa produrre più merci in meno tempo, né fare guerre sempre più
devastanti. Al contrario serve a dare da mangiare a tutti, modernizzare,
rendere felici. Comunismo è una passione collettiva gioiosa, etica e politica
che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale.
L’arresto
avvenuto il 7 aprile 1979, primo momento della repressione del movimento
dell’autonomia operaia, è stato uno spartiacque. Per ragioni diverse, a mio
avviso, lo è stato anche per la storia del «manifesto» grazie a una vibrante
campagna garantista durata anni, un caso giornalistico unico condotto con i
militanti dei movimenti, un gruppo di coraggiosi intellettuali, il partito
radicale. Otto anni dopo, il 9 giugno 1987, quando fu demolito il castello di
accuse cangianti, e infondate, Rossana Rossanda scrisse che fu una «tardiva,
parziale riparazione di molto irreparabile». Cosa significa oggi per te tutto
questo?
È
stato innanzitutto il segno di un’amicizia mai smentita. Rossana per noi è
stata una persona di una generosità incredibile. Anche se, a un certo punto, si
è fermata anche lei: non riusciva a imputare al Pci quello che il Pci era
diventato.
Che
cosa era diventato?
Un oppressore. Ha
massacrato quelli che denunciavano il pasticcio in cui si era andato a ficcare.
In quegli anni siamo stati in molti a dirglielo. Esisteva un’altra strada, che
passava dall’ascolto della classe operaia, del movimento studentesco, delle donne,
di tutte le nuove forme nelle quali le passioni sociali, politiche e
democratiche si stavano organizzando. Noi abbiamo proposto un’alternativa in
maniera onesta, pulita e di massa. Facevamo parte di un enorme movimento che
investiva le grandi fabbriche, le scuole, le generazioni. La chiusura da parte
del Pci ha determinato la nascita di estremizzazioni terroristiche: questo è
fuori dubbio. Noi abbiamo pagato tutto e pesantemente. Solo io ho fatto
complessivamente quattordici anni di esilio e undici e mezzo di prigione. Il
Manifesto ha sempre difeso la nostra innocenza. Era completamente idiota che io
o altri dell’Autonomia fossimo considerati i rapitori di Aldo Moro o gli
uccisori di compagni. Tuttavia, nella campagna innocentista che è stata
coraggiosa e importante è stato però lasciato sul fondo un aspetto sostanziale.
Quale?
Eravamo politicamente
responsabili di un movimento molto più ampio contro il compromesso storico tra
il Pci e la Dc. Contro di noi c’è stata una risposta poliziesca della destra, e
questo si capisce. Quello che non si vuol capire è stata invece la copertura
che il Pci ha dato a questa risposta. In fondo, avevano paura che cambiasse
l’orizzonte politico di classe. Se non si comprende questo nodo storico, come
ci si può lamentare dell’inesistenza di una sinistra oggi in Italia?
Il sette aprile, e il
cosiddetto «teorema Calogero», sono stati considerati un passo verso la
conversione di una parte non piccola della sinistra al giustizialismo e alla
delega politica alla magistratura. Come è stato possibile lasciarsi incastrare
in una simile trappola?
Quando il Pci sostituì la
centralità della lotta morale a quella economica e politica, e lo fece
attraverso giudici che gravitavano attorno alla sua area, ha finito il suo
percorso. Questi davvero credevano di usare il giustizialismo per costruire il
socialismo? Il giustizialismo è una delle cose più care alla borghesia. È
un’illusione devastante e tragica che impedisce di vedere l’uso di classe del
diritto, del carcere o della polizia contro i subalterni. In quegli anni
cambiarono anche i giovani magistrati. Prima erano molto diversi. Li chiamavano
«pretori di assalto». Ricordo i primi numeri della rivista Democrazia e
Diritto ai quali ho lavorato anch’io. Mi riempivano di gioia perché
parlavamo di giustizia di massa. Poi l’idea di giustizia è stata declinata
molto diversamente, riportata ai concetti di legalità e di legittimità. E nella
magistratura non c’è più stata una presa di parola politica, ma solo
schieramenti tra correnti. Oggi, poi abbiamo una Costituzione ridotta a un
pacchetto di norme che non corrispondono neanche più alla realtà del paese.
In carcere avete
continuato la battaglia politica. Nel 1983 scriveste un documento in carcere,
pubblicato da Il Manifesto, intitolato «Do You remember revolution». Si parlava
dell’originalità del 68 italiano, dei movimenti degli anni Settanta non
riducibili agli «anni di piombo». Come hai vissuto quegli anni?
Quel documento diceva
cose importanti con qualche timidezza. Credo dica più o meno le cose che ho
appena ricordato. Era un periodo duro. Noi eravamo dentro, dovevamo uscire in
qualche maniera. Ti confesso che in quell’immane sofferenza per me era meglio
studiare Spinoza che pensare all’assurda cupezza in cui eravamo stati
rinchiusi. Ho scritto su Spinoza un grosso libro ed è stato una specie di atto
eroico. Non potevo avere più di cinque libri in cella. E cambiavo carcere
speciale in continuazione: Rebibbia, Palmi, Trani, Fossombrone, Rovigo. Ogni
volta in una cella nuova con gente nuova. Aspettare giorni e ricominciare.
L’unico libro che portavo con me era l’Etica di Spinoza. La fortuna è stata
finire il mio testo prima della rivolta a Trani nel 1981 quando i corpi
speciali hanno distrutto tutto. Sono felice che abbia prodotto uno scossone
nella storia della filosofia.
Nel 1983 sei stato eletto
in parlamento e uscisti per qualche mese dal carcere. Cosa pensi del momento in
cui votarono per farti tornare in carcere e tu decidesti di andare in esilio in
Francia?
Ne soffro ancora molto.
Se devo dare un giudizio storico e distaccato penso di avere fatto bene ad
andarmene. In Francia sono stato utile per stabilire rapporti tra generazioni e
ho studiato. Ho avuto la possibilità di lavorare con Félix Guattari e sono
riuscito a inserirmi nel dibattito del tempo. Mi ha aiutato moltissimo a
comprendere la vita dei Sans Papiers. Lo sono stato anch’io, ho insegnato pur
non avendo una carta di identità. Mi hanno aiutato i compagni dell’università
di Parigi 8. Ma per altri versi mi dico che ho sbagliato. Mi scuote
profondamente il fatto di avere lasciato i compagni in carcere, quelli con cui
ho vissuto i migliori anni della mia vita e le rivolte in quattro anni di
carcerazione preventiva. Averli lasciati mi fa ancora male. Quella galera ha
devastato la vita di compagni carissimi, e spesso delle loro famiglie. Ho
novant’anni e mi sono salvato. Non mi rende più sereno di fronte a quel dramma.
Anche Rossanda ti
criticò…
Sì,
mi ha chiesto di comportarmi come Socrate. Io le risposi che rischiavo proprio
di finire come il filosofo. Per i rapporti che c’erano in galera avrei potuto
morire. Pannella mi ha materialmente portato fuori dalla galera e poi mi ha
rovesciato tutte le colpe del mondo perché non volevo tornarci. Sono stati in
molti a imbrogliarmi. Rossana mi aveva messo in guardia già allora, e forse
aveva ragione.
C’è stata un’altra volta
che lo ha fatto?
Sì, quando mi disse di
non rientrare da Parigi in Italia nel 1997 dopo 14 anni di esilio. La vidi
l’ultima volta prima di partire in un café dalle parti del Museo di Cluny, il
museo nazionale del Medioevo. Mi disse che avrebbe voluto legami con una catena
per impedirmi di prendere quell’aereo.
Perché allora hai deciso
di tornare in Italia?
Ero convinto di fare una
battaglia sull’amnistia per tutti i compagni degli anni Settanta. Allora c’era
la Bicamerale, sembrava possibile. Mi sono fatto sei anni di galera fino al
2003. Forse Rossana aveva ragione.
Che ricordo oggi hai di
lei?
Ricordo l’ultima volta
che l’ho vista a Parigi. Una dolcissima amica, che si preoccupava dei miei
viaggi in Cina, temeva che mi facessi male. È stata una persona meravigliosa,
allora e sempre.
Anna Negri, tua figlia,
ha scritto «Con un piede impigliato nella storia» (DeriveApprodi) che racconta
questa storia dal punto di vista dei vostri affetti, e di un’altra generazione.
Ho tre figli splendidi
Anna, Francesco e Nina che hanno sofferto in maniera indicibile quello che è
successo. Ho guardato la serie di Bellocchio su Moro e continuo ad essere
stupefatto di essere stato accusato di quella incredibile tragedia. Penso ai
miei due primi figli, che andavano a scuola. Qualcuno li vedeva come i figli di
un mostro. Questi ragazzi, in una maniera o nell’altra, hanno sopportato eventi
enormi. Sono andati via dall’Italia e ci sono tornati, hanno attraversato quel
lungo inverno in primissima persona. Il minimo che possono avere è una certa
collera nei confronti dei genitori che li hanno messi in questa situazione. E
io ho una certa responsabilità in questa storia. Siamo tornati ad essere amici.
Questo per me è un regalo di una immensa bellezza.
Alla
fine degli anni Novanta, in coincidenza con i nuovi movimenti globali, e poi
contro la guerra, hai acquisito una forte posizione di riconoscibilità insieme
a Michael Hardt a cominciare da «Impero». Come definiresti oggi, in un momento
di ritorno allo specialismo e di idee reazionarie e elitarie, il rapporto tra
filosofia e militanza?
È difficile per me
rispondere a questa domanda. Quando mi dicono che ho fatto un’opera, io
rispondo: Lirica? Ma ti rendi conto? Mi scappa da ridere. Perché sono più un
militante che un filosofo. Farà ridere qualcuno, ma io mi ci vedo, come
Papageno…
Non c’è dubbio però che
tu abbia scritto molti libri…
Ho avuto la fortuna di
trovarmi a metà strada tra la filosofia e la militanza. Nei migliori periodi
della mia vita sono passato in permanenza dall’una all’altra. Ciò mi ha
permesso di coltivare un rapporto critico con la teoria capitalista del potere.
Facendo perno su Marx, sono andato da Hobbes a Habermas, passando da Kant,
Rousseau e Hegel. Gente abbastanza seria da dovere essere combattuta. Di contro
la linea Machiavelli-Spinoza-Marx è stata un’alternativa vera. Ribadisco: la
storia della filosofia per me non è una specie di testo sacro che ha impastato
tutto il sapere occidentale, da Platone ad Heidegger, con la civiltà borghese e
ha tramandato con ciò concetti funzionali al potere. La filosofia fa parte
della nostra cultura, ma va usata per quello che serve, cioè a trasformare il
mondo e farlo diventare più giusto. Deleuze parlava di Spinoza e riprendeva
l’iconografia che lo rappresentava nei panni di Masaniello. Vorrei che fosse
vero per me. Anche adesso che ho novant’anni continuo ad avere questo rapporto
con la filosofia. Vivere la militanza è meno facile, eppure riesco a scrivere e
ad ascoltare, in una situazione di esule.
Esule, ancora, oggi?
Un
po’, sì. È un esilio diverso però. Dipende dal fatto che i due mondi in cui
vivo, l’Italia e la Francia, hanno dinamiche di movimento molto diverse. In
Francia, l’operaismo non ha avuto un seguito largo, anche se oggi viene
riscoperto. La sinistra di movimento in Francia è sempre stata guidata dal
trotzkismo o dall’anarchismo. Negli anni Novanta, con la rivista Futur
antérieur, con l’amico e compagno Jean-Marie Vincent, avevamo trovato una
mediazione tra gauchisme e operaismo: ha funzionato per una decina
d’anni. Ma lo abbiamo fatto con molta prudenza. il giudizio sulla politica
francese lo lasciavamo ai compagni francesi. L’unico editoriale importante
scritto dagli italiani sulla rivista è stato quello sul grande sciopero dei
ferrovieri del ’95, che assomigliava tanto alle lotte italiane.
Perché l’operaismo
conosce oggi una risonanza a livello globale?
Perché risponde
all’esigenza di una resistenza e di una ripresa delle lotte, come in altre
culture critiche con le quali dialoga: il femminismo, l’ecologia politica, la
critica postcoloniale ad esempio. E poi perché non è la costola di niente e di
nessuno. Non lo è stato mai, e neanche è stato un capitolo della storia del
Pci, come qualcuno s’illude. È invece un’idea precisa della lotta di classe e
una critica della sovranità che coagula il potere attorno al polo padronale,
proprietario e capitalista. Ma il potere è sempre scisso, ed è sempre aperto,
anche quando non sembra esserci alternativa. Tutta la teoria del potere come
estensione del dominio e dell’autorità fatta dalla Scuola di Francoforte e
dalle sue recenti evoluzioni è falsa, anche se purtroppo rimane egemone.
L’operaismo fa saltare questa lettura brutale. È uno stile di lavoro e di
pensiero. Riprende la storia dal basso fatta da grandi masse che si muovono,
cerca la singolarità in una dialettica aperta e produttiva.
I tuoi costanti
riferimenti a Francesco d’Assisi mi hanno sempre colpito. Da dove nasce questo
interesse per il santo e perché lo hai preso ad esempio della tua gioia di
essere comunista?
Da quando ero giovane mi
hanno deriso perché usavo la parola amore. Mi prendevano per un poeta o per un
illuso. Di contro, ho sempre pensato che l’amore era una passione fondamentale
che tiene in piedi il genere umano. Può diventare un’arma per vivere. Vengo da
una famiglia che è stata miserabile durante la guerra e mi ha insegnato un
affetto che mi fa vivere ancora oggi. Francesco è in fondo un borghese che vive
in un periodo in cui coglie la possibilità di trasformare la borghesia stessa,
e di fare un mondo in cui la gente si ama e ama il vivente. Il richiamo a lui,
per me, è come il richiamo ai Ciompi di Machiavelli. Francesco è l’amore contro
la proprietà: esattamente quello che avremmo potuto fare negli anni Settanta,
rovesciando quello sviluppo e creando un nuovo modo di produrre. Non è mai
stato ripreso a sufficienza Francesco, né è stato presa in debito conto
l’importanza che ha avuto il francescanesimo nella storia italiana. Lo cito
perché voglio che parole come amore e gioia entrino nel linguaggio politico.
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