Era da tempo che non vedevo un film così ben fatto come quello realizzato sorprendentemente da Paola Cortellesi. Ho raccomandato vivamente ai miei figli e a tutte le mie amiche ed amici di andarlo a vedere. Oggi lascio la parola ad un critico che ho sempre apprezzato, ROBERTO CHIESI, direttore della Cineteca di Bologna. (fv)
C'È ANCORA DOMANI di Paola Cortellesi
C'era una volta la commedia italiana, quella ricca, eterogenea e variegata tradizione di storie, personaggi, ambienti, sottoboschi dove venivano sviscerati la viltà, la corruzione, l'opportunismo, il maschilismo, l'immaturità, l'ambiguità, il cinismo italiani come chiavi di volta di un paese mancato, mai diventato civile, cresciuto sotto la Chiesa cattolica, intossicato dal fascismo, dalle mafie e dalle massonerie e mai veramente ripulitosi da queste scorie purulente che, trasformate e rigenerate, continuano a farlo marcire dall'interno. Questo cinema, superato dalle derive aberranti della realtà (vedi il berlusconismo, vedi oggi il melonismo) si è rarefatto negli ultimi decenni, annacquato nei sottoprodotti televisivi o degenerato nella "commediaccia" (che però è già morta, per fortuna, con la fine dei cinepanettoni) e sono pochissimi i film (come quelli di Virzì, per esempio) che riescono a raccontare il Paese con un umorismo caustico che rende i drammi ancora più laceranti. La buona notizia è che in questa tradizione si inserisce brillantemente Paola Cortellesi che con il suo esordio nella regia, "C'è ancora domani" (2023), scritto con Furio Andreotti e Giulia Calenda, ha anche valorizzato le sue notevoli doti di attrice comica e drammatica come nessuno era riuscito a fare finora. Il trionfo, meritato, che le sta decretando il pubblico italiano, è il segno che di questo cinema si sentiva la mancanza.
A parte i film "papalini" di Magni e i Brancaleone o "Il Marchese del Grillo" di Monicelli, in genere la commedia italiana rimaneva centrata sul presente o risaliva di pochi decenni la storia d'Italia: Cortellesi, ispirandosi ai racconti di vita vissuta di sua nonna abruzzese, ha avuto la felice idea di ritornare indietro di quasi 80 anni per raccontare il momento in cui, appena caduto il fascismo, l'Italia aveva la possibilità di conoscere una significativa (e tardiva) conquista sociale grazie al voto finalmente concesso alle donne mentre, al tempo stesso, rimaneva ancora inchiodata ad un maschilismo bieco, violento e retrogrado, che dominava in tutte le famiglie (come il film mostra bene, da una classe all'altra). Lo incarna nel film il prototipo dell'uomo medio del tempo, Ivano (un sorprendente Valerio Mastandrea in un ruolo ingrato), figlio di un padre ancora più troglodita di lui, che nella Roma popolare del '46 brutalizza, umilia e sfrutta la moglie Delia (Cortellesi), talmente succube da non potere neanche concepire l'ipotesi di ribellarsi anche perché sacrifica tutta se stessa per i figli e in particolare per la figlia Marcella, per il suo futuro di futura sposa che la madre non vuole somigli al proprio passato e presente. Calato nel bianco e nero della fotografia di Davide Leone, che tende al grigio, come la vita di Delia, narrato con una naturalezza e un ritmo scandito da momenti di tensioni e tonalità amare e amarissime che si alternano o si fondono sapientemente ad una comicità salace e a tratti surreale, il film ha il suo fulcro nell'umanità della protagonista, eroina che diviene emblematica di quella condizione di schiavitù da cui le donne si sono affrancate, in Italia, appena pochi decenni fa, anche grazie ad un diritto oggi trascurato dai più, come la facoltà di voto. Il film ha anche il pregio di non ricorrere ad un ottimismo consolatorio, raccontando rivolte femministe che nell'Italia del '46 erano purtroppo inimmaginabili per la maggior parte delle donne e lascia alla protagonista appena lo spiraglio per un primo passo di rivendicazione, affidando quindi allo spettatore lo sdegno di come dovesse in realtà già essere un suo diritto sacrosanto, quel passo.
Fare un film come "C'è ancora domani" nel 2023 significa rievocare quell'abbruttimento maschilista che, come cultura, ha dominato in Italia non solo a destra ma anche a sinistra e che, mutatis mutandis, continua ad allignare. Ma significa anche un memento che ha un valore politico significativo oggi, che il melonismo, erede del fascismo, dopo essersi dato una riverniciata che ne lascia intatto il fetore, vuole revisionare i lineamenti beceri e oscurantisti di un modello di società basato sull'autoritarismo.
ROBERTO CHIESI
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