23 novembre 2023

UNA SCUOLA FEMMINISTA SPAGNOLA



Un immenso territorio comune di analisi e azione

Melissa Cicchetti
23 Novembre 2023

Le parole sono lame d’erba che, attraversando gli ostacoli, germogliano sulla pagina; lo spirito delle parole che si muove nel corpo è concreto e palpabile come la carne; la fame di creare è altrettanto materiale quanto le dita e la mano. Questa citazione di Gloria Anzaldúa, tratta da Borderlands/La Frontera: The New Mestiza, ci pare possa prestarsi bene a introdurre questa lunga e densa intervista con Silvia Federici, filosofa femminista italo-statunitense che non dovrebbe aver bisogno di presentazioni su queste pagine. La chiarezza e la profondità delle sue parole produce e riproduce germogli infiniti nell’energia vitale, nell’elaborazione dei saperi e nella concretezza dei corpi dei movimenti femministi e in ogni altro movimento anticapitalista. Lo fa ovunque e da molti decenni. La conversazione, raccolta da Melissa Ciocchetti in occasione della IV edizione della Scuola Femminista dell‘Assemblea Moza d’Asturies, tenuta in Spagna nell’estate scorsa, ne è un esempio illuminante. L’analisi e il racconto entrano in quasi ogni aspettosua passato, presente e futuro del femminismo. Dall’impossibilità di lottare senza cambiare la vita quotidiana e socializzare la sofferenza e la paura a quella di emanciparsi lavorando, frutto del tentativo, da parte del capitale, di appropriarsi di elementi del pensiero femminista; dall’analisi di un capitalismo che ci univa nelle fabbriche per poi dividerci nella vita alla necessità di cambiare le condizioni della riproduzione della vita e di farlo attraverso la costruzione di relazioni comunitarie; dall’abbattimento dei muri e alla sperimentazione come creazione di forme di lotta capaci di recuperare spazi, tempi e ricchezze sociali che continuano a esserci rubate; dalle grandi sfide allo Stato alla guerra, che serve anche a distruggere i movimenti sociali. E poi l’avanzata delle destre, la fascistizzazione della società, con i protagonismi grotteschi di Meloni e di Trump ma anche con quello del progressismo Usa e la sua militarizzazione delle frontiere. E così via via, fino alla militanza non come un peso, o un “lavoro” in più, ma come occasione di lotta segnata dal piacere d’incontrarsi e dall’allegria. Il femminismo, dice Silvia Federici, è un immenso territorio di analisi e di azione, un punto d’incontro per tutte le lotte sociali. Forse manca ancora un po’ di consapevolezza che “questa è la nostra forza”, così come è il presente e il futuro del più grande e vivo movimento contro il potere del nostro tempo. Quello che agisce nel territorio più importante della trasformazione sociale: la riproduzione dell’insieme delle attività fondamentali per la creazione della vita nel sistema capitalista

foto Ni una menos

La sua vita spazia dalle lotte degli anni ’70, in Italia, alle campagne per il salario domestico, a New York, dalle denunce dei piani di aggiustamento strutturale in Africa alla critica al processo di globalizzazione neoliberista e ai suoi effetti in tutto il pianeta, dal movimento per il recupero dei commons fino al più recente ciclo di lotte, iniziato nel 2011 e poi continuato con l’ultima ondata femminista. In altre parole, Silvia Federici ha trascorso decenni coniugando militanza e riflessione e, così facendo, ci ha fornito le chiavi per pensare e comprendere il nostro presente. È stata lei a chiudere, nello scorso luglio, con una conferenza online la IV edizione della Scuola Femminista dell‘Assemblea Moza d’Asturies, in Spagna.

Autrice di Calibano e la strega e Il punto zero della rivoluzione, Silvia è una delle teoriche più importanti e riconosciute del femminismo anticapitalista, con una lunga storia di attivismo e riflessione. Adesso che il movimento femminista internazionale sta attraversando un momento di forte discussione interna, torniamo a conversare con lei sul momento politico che stiamo vivendo.

Partiamo dal passato più recente del movimento femminista, che è stato un periodo di protesta, mobilitazione e rivendicazione sociale molto ampio e di massa. Come leggi e come pensi che dovremmo leggere questa “crescita politica” a fronte di un presente forse fino a oggi un po’ meno attivo? E come possiamo pensare, oggi, al movimento femminista?

Per prima cosa devo dire che non sono sorpresa dalla grande crescita del movimento femminista a livello internazionale. Teorizzo da tempo – insieme ad altre compagne, come Mary Miss e Verónica Gago – che il movimento femminista potenzialmente, cioè in potenza, sia il movimento più importante. Lo è perché lotta nel territorio più importante della trasformazione sociale, che è quello della riproduzione sociale. Fin dal principio, il femminismo si è focalizzato sull’analisi della riproduzione sociale come l’insieme delle attività fondamentali per la riproduzione della vita nel sistema capitalista. In questo senso, la perpetuazione della società capitalista è più importante della procreazione, della cura, della salute, dell’educazione e di ogni formazione culturale. Come ha detto più volte Verónica Gago insieme alle compagne di Ni una Menos, la riproduzione non è l’equivalente della produzione. Tutto il contrario: la riproduzione è qualcosa di molto più ampio. È l’insieme delle attività che costituiscono la condizione di possibilità della perpetuazione del mercato del lavoro. La lotta, quindi, non è altro che il territorio in cui diventa possibile unire diversi movimenti, riunire diverse dispute. Quel territorio è la lotta femminista. Questo è esattamente ciò che la lotta femminista ha dimostrato a livello internazionale: il femminismo, inteso come protesta contro l’oppressione e la discriminazione delle donne, è molto maturato nella sua analisi e, nella pratica, ha permesso il sorgere di molte più rivendicazioni. Negli ultimi decenni abbiamo capito che non è possibile cambiare la situazione delle donne nel mondo senza cambiare il mondo stesso. Il femminismo di oggi ha ormai questa consapevolezza, sa che come donne e come dissidenti sessuali non possiamo migliorare la nostra condizione senza cambiare il sistema sociale capitalista che si basa su una logica di guerra, violenza, sfruttamento del lavoro e della natura. In sostanza, non possiamo cambiare la nostra condizione senza lottare contro il sistema capitalista in tutte le sue forme.

Silvia Federici, foto https://www.nortes.me

E come possiamo spiegarne la crescita politica degli ultimi anni?         

Credo che la crescita politica degli ultimi anni sia dovuta soprattutto al fatto che la crisi del sistema capitalistico è diventata sempre più evidente. Potremmo parlare del perché si verifica questa crisi, ma è evidente che la crisi del capitalismo si sta facendo più profonda. Abbiamo un capitalismo sempre più violento, che fomenta la militarizzazione della vita, l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro e della natura e l’espropriazione della terra. Viviamo ormai in un presente terrificante in cui migliaia e migliaia di persone sono costrette a lasciare i loro luoghi ancestrali affinché diventino terre utili e produttive per il capitale. La risposta a questa guerra e a questo sistematico attacco internazionale contro la vita e la sua riproduzione è venuta dalle donne. Sono le donne che lottano in prima linea contro la distruzione dell’Amazzonia e dell’Africa, come sono le donne che lottano contro il taglio degli alberi e contro le compagnie minerarie e petrolifere. Si rendono conto che l’arrivo di una impresa mineraria comporta il fatto che ci sia mercurio nell’acqua e che questo significa la fine della loro comunità. Credo che l’essere il soggetto principale della riproduzione sociale abbia reso le donne le più coinvolte nella lotta contro quelle politiche che distruggono la vita e ne impediscono la riproduzione. Oggi questa è la questione fondamentale della politica internazionale.     

Da tempo hai messo in luce gli alti costi della riproduzione sociale del sistema capitalista per le donne: come ci ha colpito e ci colpisce questa imposizione?

Fin dall’inizio del movimento femminista, con molte donne, abbiamo denunciato, in tanti modi e con molte parole, il significato di questa imposizione sulle donne nella società capitalista, che implica il farsi carico della cura e della riproduzione della vita. Abbiamo messo in chiaro che questa imposizione ha generato un lavoro svalutato, non retribuito, senza orari né pensione. Credo, tuttavia, che sia importante anche dire che questa imposizione ci ha dato molta conoscenza: non è un caso che oggi le donne siano quelle più consapevoli della fragilità e del valore della vita, della trama di relazioni che la sostengono e ci permettono di andare oltre l’individualismo. Detto in altri termini, dell’importanza di costruire comunità. Ebbene, credo che questi due siano i temi al centro del femminismo: la lotta alla devastazione capitalista, coloniale e razzista e la capacità di pensare un’alternativa e praticarla dal presente, dalla nostra vita quotidiana. Pensare a questo, nella pericolosità dell’attuale situazione politica internazionale, nella quale troppe persone affrontano costantemente la morte, mi riempie di speranza. In questo contesto, la crescita del movimento femminista e della sua capacità organizzativa internazionale non è cosa da poco. Negli ultimi anni, in modo particolare, il movimento femminista ha dimostrato la grande capacità di creare alleanze per l’internazionalizzazione dello sciopero: dall’Argentina all’Europa si è gridato allo Stato: “lo stupratore sei tu”. La tecnologia ci ha aiutato a comunicare tra noi, ma questa grande capacità deriva, credo, dalla coscienza che le donne si trovano ad affrontare, in modi molto diversi, i problemi fondamentali della politica internazionale contemporanea. Le nostre vite dipendono da come si deciderà di risolverli.Potrebbe essere un'immagine raffigurante il seguente testo "25N NON UNA DI MENO TRANSFEMMINI INGOVERNAE CONTRO LA VIOLENZA PATRIARCALE CORTEI NAZIONALI ROMA & MESSINA"

Parli spesso di sperimentazione: cosa significa? Pensi che il nostro presente sia o possa essere un momento di sperimentazione?

Il mio concetto di sperimentazione nasce dall’idea che non possiamo più pensare al cambiamento sociale come a un compito per il futuro. Penso, per capirci, al concetto di “rivoluzione” della sinistra tradizionale, che considera la rivoluzione come qualcosa di molto lontano dal nostro presente, come qualcosa che non arriva mai. La mia idea di sperimentazione, un tema che ritengo molto importante per la pratica femminista, arriva a dire il contrario: la rivoluzione è oggi, il cambiamento si fa oggi. Non possiamo continuare a lottare contro tutto senza costruire qualcosa di positivo, non possiamo lottare solo organizzando proteste. Dire “No” è essenziale, scendere in piazza e opporsi è fondamentale, ma non possiamo limitarci a questo. Dobbiamo iniziare a costruire e dobbiamo farlo in comune. Dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere quotidiano sperimentando nuovi modi di fare comunità, che è la condizione stessa della nostra lotta. Quando parliamo di costrure i commons, non lo facciamo solo pensando a un futuro comunitario, lo facciamo a partire dalla convinzione della necessità di farlo adesso. Dobbiamo cominciare ora a cambiare le condizioni di riproduzione della vita. Per potersi riprodurre, il capitalismo ci ha diviso, individualizzato e atomizzato. Leopoldina Fortunati lo spiega molto bene: il capitalismo ci univa nelle fabbriche e ci divideva nella vita, basata sull’individualità. Questa idea della nostra casetta separata dalle altre, del nucleo familiare che pulisce la biancheria sporca a casa sua, della dimensione privata che fa a pezzi le relazioni tra vicini è ciò che dobbiamo rompere. Negli ultimi anni lo abbiamo detto forte e chiaro: andremo ad abbattere i muri. Per me questo è stato uno dei contributi più importanti del femminismo, vale a dire mettere sul tavolo la necessità di stare insieme e condividere i nostri problemi.

E come possiamo mettere in pratica questo apprendimento?

Il femminismo, fin dal suo nascere, ha capito che non possiamo lottare senza cambiare la nostra vita quotidiana e senza socializzare la nostra sofferenza e le nostre paure. Molto importanti sono stati i gruppi di autocoscienza. Quando le donne hanno cominciato a parlare e a raccontarsi le loro paure, i loro sensi di colpa, le loro sensazioni di non valere niente, si sono rese conto che condividevano tutte gli stessi problemi. Si sono rese conto che non si trattava dei problemi di ognuna di loro, che quelli erano problemi strutturali. I gruppi di autocoscienza ci hanno permesso di capire che il problema non eravamo noi, non erano i nostri corpi o le nostre menti, il problema era la società. Pertanto, ciò che era necessario allora, e continua ad esserlo adesso, è cambiare la società, non cambiare noi stesse. Abbiamo una grande capacità di socializzare e di mettere in comune i nostri problemi, ora dobbiamo cambiare l’organizzazione della riproduzione quotidiana, creare momenti condivisi a partire dalla cura, come ad esempio si fa con gli orti urbani.    
L’organizzazione femminista deve essere anche un’organizzazione di cambiamento nella vita quotidiana, che passi attraverso il comune: riunirci significa rafforzarci e acquisire fiducia, conoscenza e il potere per affrontare lo Stato che ha più potere. Affrontare lo Stato non vuol dire chiudersi in mini gruppi, al contrario: significa unirsi per rivendicare la ricchezza sociale che ci viene rubata e fermare le decisioni distruttive che vengono prese. Sperimentare, quindi, significa anche creare forme di lotta capaci di recuperare e riappropriarci di spazi, tempi, ricchezze sociali e risorse che ci sono state e continuano a esserci rubate. È molto importante perché non possiamo creare un mondo diverso senza prima riappropriarci della ricchezza sociale. È questo, credo, il vero terreno di lotta. Da tempo dico che i commons, cioè la creazione in comune, non sono solo l’obiettivo della lotta: sono piuttosto la condizione quotidiana della lotta e sono il suo potere di sfidare lo Stato e coloro che soffocano le nostre possibilità di cambiamento.

Qualche mese fa, parlando di sperimentazione con Verónica Gago in un’intervista pubblicata da Contexto, hai sviluppato una domanda chiave per il movimento femminista internazionale: “In che misura possiamo spostare la nostra attività riproduttiva dalla riproduzione della forza lavoro alla riproduzione del nostro potere di lotta?”. Dici, poi, che “questa è la misura della nostra crescita politica”. Cosa significa?  

È la capacità di unirsi per creare, superando l’atomizzazione nella nostra vita. Questa è la condizione indispensabile per un cambiamento sociale radicale. Solo così potremo ridurre il tempo che investiamo nello svolgere lavori che ci disciplinano e che generano persone più facilmente sfruttabili. Ed è, in questo modo, che potremo dedicarci a creare le condizioni necessarie per rafforzarci e cambiare la nostra situazione personale e collettiva. Tempo e risorse, come dicevo, sono fondamentali.      
La nostra vita è costantemente in contraddizione e la riproduzione lo rende evidente. La riproduzione sostiene la nostra vita, quella delle nostre famiglie e comunità e, allo stesso tempo, si sviluppa in condizioni che non scegliamo, che ci vengono imposte e che non sono desiderabili. Queste condizioni sono stabilite dal capitalismo, che ha bisogno di sfruttare per riprodursi. La questione ora, quindi, è cambiare e come farlo: come ci possiamo organizzare per raggiungere il potere di non dover lavorare dieci ore al giorno? Come possiamo garantire che le nostre figlie e i nostri figli non riproducano la nostra miseria e possano avere la libertà di rifiutare lo sfruttamento e l’espropriazione? Questo è ciò di cui parlo con il concetto di “sperimentazione”.

Quale pensi debba essere il percorso per riappropriarci del nostro tempo e del nostro potere e, così facendo, di organizzarci?

La forza che andiamo a costruire è qella del potere di recuperare la nostra vita e la nostra creatività. Credo che ciò che facciamo nella vita di tutti i giorni abbia conseguenze nelle case, nelle scuole, negli uffici e nelle fabbriche e questa è la misura della nostra crescita politica: influenzare le persone che attraversano gli spazi che cambiamo con le nostre azioni quotidiane. In questo ambito i sindacati dovrebbero avere un ruolo attivo. Penso sia giunto il momento che i sindacati includano il tema della riproduzione della vita nella lotta per migliorare le condizioni di lavoro della classe lavoratrice. La lotta che riguarda il lavoro deve espandersi e interessarsi a ciò che viene prodotto. Non si tratta solo di imporre orari di lavoro e condizioni di lavoro dignitose, ma anche di rivendicare il diritto di decidere se vogliamo produrre merci utili o materiali tossici e armi che la faranno finita con l’umanità e la natura. La riproduzione non è solo una questione domestica, anzi, è un tema molto ampio e tocca tutte le sfere della nostra vita. In definitiva, si tratta di decidere se vogliamo produrre morte e miseria o qualcosa che riproduca la nostra creatività e il benessere.   
Uno dei problemi che affrontiamo nel femminismo è liberare il tempo delle donne, liberare il nostro tempo. Credo che ci siano milioni e milioni di donne nel mondo che sarebbero disposte a scendere in piazza e ad organizzarsi tra loro, ma il lavoro di cura, che non ha fine, le incatena nelle loro case. Dobbiamo pensare al lavoro di cura in modo più ampio di quanto si faccia di solito. Prendersi cura non significa solo crescere le nostre figlie e figli, è prendersi cura delle migliaia di cose che servono al corpo e alla mente. Dobbiamo pensare alla cura emotiva di cui hanno bisogno le persone che alleviamo. Prendersi cura è il lavoro più difficile, perché richiede tutte le nostre energie fisiche, mentali ed emotive. È un lavoro estenuante. Per questo motivo, credo che pensare a forme comunitarie della cura sia un compito essenziale per il femminismo. Ci serve tempo, dobbiamo liberare il tempo delle donne che ancora oggi sono recluse nelle loro case, conciliando il loro lavoro con la cura degli anziani, dei bambini e delle persone con ridotte capacità fisiche. Il movimento femminista, lo ripeto, deve affrontare questo tema con la massima urgenza: se siamo fisicamente ed emotivamente logorate dalla riproduzione, come potremo investire le nostre energie nella lotta? Il cambiamento della vita quotidiana, quindi, è una condizione senza la quale è impossibile poter lottare. Temo proprio che il movimento femminista non abbia fatto abbastanza in questo senso. Penso sia necessario uno sforzo maggiore per pensare non solo a come possiamo cambiare il modo in cui le comunità si mettono in relazione tra loro, ma anche a come pensiamo di affrontare lo Stato. Non dimentichiamo che quando chiediamo servizi sociali allo Stato, dobbiamo essere in grado di stabilire un controllo sul tipo di servizi che ci vengono forniti. Credo che ogni donna che abbia affrontato la previdenza sociale sappia perfettamente che viviamo in uno stato di crisi permanente e continua. Lo Stato può fornirci dei servizi, ma a volte il modo in cui viene utilizzato è così sbagliato che la situazione finisce per peggiorare. Mi dispiace parlare così tanto di questo argomento, ma siccome io e tante mie compagne lo stiamo vivendo in prima persona, vorrei aprire un canale di comunicazione. Ultimamente ho capito che, a partire da una certa età in poi, il problema della cura aumenta e oggi non abbiamo un’alternativa al lavoro svolto dalle donne in casa. Lo trovo terrificante e deve essere una questione centrale per l’attuale movimento femminista.

foto AMA Asturies

Rimanendo sul tuo lungo percorso, hai vissuto in prima persona sia le lotte degli anni ’70 che l’ultima ondata femminista di cui abbiamo parlato all’inizio. A livello planetario, il momento attuale è segnato da un forte rifiuto del femminismo e da più parti si rimette in discussione anche ciò che abbiamo ottenuto. Pensi che ci sia qualche collegamento tra il rifiuto del femminismo avvenuto negli anni ’70 e quello di oggi? 

Sì, naturalmente. È una domanda complicata perché ci sono molti fattori in gioco. In primo luogo, non è un caso che a partire dagli anni ’70 le Nazioni Unite siano intervenute nella politica femminista. Le Nazioni Unite, cioè il capitale internazionale, si sono rese conto molto prima della sinistra tradizionale del pericolo del femminismo per la sua perpetuazione. A partire dal 1975, ci sono state molte conferenze e interventi delle Nazioni Unite (Città del Messico, Copenaghen, Nairobi, Pechino, ecc.) che avevano lo scopo di appropriarsi del movimento femminista e di utilizzare parte delle nostre idee contro di noi, di usare il nostro pensiero per controllarci e integrare le donne nel processo di globalizzazione come forza lavoro a basso costo. Fino al presente in cui le donne svolgono due lavori.    
Pertanto, il capitale ha voluto appropriarsi del movimento femminista attraverso l’ideologia dell’emancipazione attraverso il lavoro. Nessuno si emancipa attraverso il lavoro in una società capitalista, è una menzogna. Credo che questo elemento della dinamica capitalista ci abbia fatto molto male. Una certa massificazione del femminismo ci ha ferito. Ci sono molte persone, soprattutto molte giovani donne della nuova generazione, che credono che una donna femminista sia colei che lotta per l’uguaglianza tra uomini e donne e che occupa un ruolo di potere nel suo lavoro. In parole povere si tratta del fatto che una donna femminista possa diventare una donna catturata dall’istituzione. In parte è vero: sono molte le femministe intrappolate nelle istituzioni da quando molti governi, anche se non tutti, hanno capito che l’emancipazione delle donne poteva essere strumentalizzata a loro vantaggio. Le donne, quindi, possono essere sfruttate non solo in casa, ma anche nelle istituzioni, magari con paghe miserabili, e in altri lavori che non generano alcuna autonomia. Tutto ciò accresce la miseria delle donne, non le libera. Nonostante ciò, c’è chi continua a dire che questa sia la strada giusta. Ebbene, io ho i miei dubbi che lo sia e ritengo che a causa di questo oggi molte giovani donne abbiano cominciato a parlare di post-femminismo. Penso a una canzone, che si sente molto da queste parti, che dice: “Saremo post-femministe in una società post-patriarcale”. È una bugia: la società di oggi è ancora molto patriarcale e lo vediamo tutti i giorni.

Negli ultimi anni abbiamo visto crescere e raggiungere consensi in tutto il mondo molti partiti di estrema destra ostili alle conquiste dei movimenti femministi. Come ci colpisce questa ondata reazionaria globale? Anche nei tuoi ultimi libri parli di un concetto di fascistizzazione della società, puoi spiegarci un po’ cosa intendi?

A tutto quello che ho provato a spiegare finora, come fosse poco, oggi dobbiamo aggiungere il fascismo nel suo stato più puro. Un fascismo che sembra aver perso ogni tipo di vergogna. Da un lato abbiamo Giorgia Meloni, in Italia, che è grottesca. Lei, una donna, leader di un partito chiamato Fratelli d’Italia, che non ha mai pensato di cambiare il nome della sua organizzazione politica perché potesse sentirvisi inclusa come donna. Dall’altro, abbiamo il signor Trump e la lotta di grande successo del Partito Repubblicano per porre fine al diritto all’aborto. Nel contesto attuale, molto complesso, dobbiamo essere sagge e agire in modo attento e raffinato perché c’è un pericolo reale nel nostro presente. Identifichiamo come fascismo quello di Trump e della Meloni, un fascismo evidente, talmente evidente da risultare grottesco. Esiste però un altro fascismo, più sibillino, che vive nella politica e nell’economia attuale. Nel nostro presente, nelle società che si definiscono democratiche, c’è una fascistizzazione della società e dell’economia politica. Negli Stati Uniti, dove vivo, tutto questo è molto chiaro. Le politiche che hanno distrutto il welfare sociale sono state messe in atto con governi come quello di Clinton, che è riuscito a cambiare le leggi sul terrorismo, sulla gestione delle carceri e a militarizzare l’intera frontiera con il Messico. Lo stesso governo Biden, che sembra più aperto al femminismo e alle persone trans, in realtà non fa nulla di concreto. Milioni di dollari vengono inviati in tutto il mondo per sostenere le guerre imperialiste. Stiamo assistendo ad una brutale politica imperiale da parte del Partito Democratico negli Stati Uniti. Ciò che sta accadendo in Africa e in Ucraina è evidente: la guerra continua perché gli Stati Uniti vogliono che continui e stanno preparando una guerra contro Russia e Cina. Non molto tempo fa il governo Biden ha approvato un budget militare da un trilione di dollari. In sintesi, nell’intero 2023 l’attuale governo investirà nella guerra mille miliardi di dollari. Pensate quante cose si potrebbero fare con un trilione di dollari, quanto sostegno alla riproduzione sociale si potrebbe dare con tutti questi soldi. A causa di ciò che viene investito nella militarizzazione della società, vengono apportati continui tagli alla già scarsissima sanità pubblica. Quest’anno, sono stati tolti gli aiuti sanitari pubblici a più di un milione di persone ed è stato negato ogni tipo di sostegno agli studenti universitari che rimarranno indebitati per il resto della loro vita per aver voluto portare fino in fondo la loro formazione. Studiare negli Usa adesso è costosissimo e dunque, di fronte a questa situazione opprimente, si decide di investire un trilione di dollari in morte e guerra. Questa deve essere una questione importante per il movimento femminista. Siamo in un momento molto pericoloso, si preparano guerre internazionali. Il capitalismo vive di guerre e con esse si riproduce. La guerra è sempre stata un momento di profondo cambiamento sociale perché serve a trasformare l’economia e le relazioni di potere a livello locale e internazionale. E poi la guerra serve a distruggere i movimenti sociali. In questo momento di profonda crisi del capitalismo internazionale, giorno dopo giorno, si preparano le condizioni per la guerra. Pertanto, la lotta contro la guerra, a tutti i livelli, deve essere inclusa nell’agenda femminista. L’inclusione delle donne nelle forze armate, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, fu una grande sconfitta per il femminismo: c’erano persone che si battevano per l’ingresso delle donne negli eserciti nazionali, mi oppongo da decenni a questa barbarie. Uguaglianza, in questo caso, non vuol dire che uomini e donne siano uguali; uguaglianza significa che non muoia nessun altro in una guerra. Dobbiamo fermare la militarizzazione della vita quotidiana e per far questo abbiamo bisogno di un femminismo che lotti contro la guerra. Anche questa deve essere una questione centrale per il movimento internazionale: lottare contro la guerra, contro la militarizzazione della vita quotidiana, contro l’investimento di denaro in armi e soldati e contro il controllo sociale nelle città e nei quartieri.

Ci hai descritto un presente molto complicato attraverso quel quadro di fascistizzazione che permette di spiegare molti nodi dell’analisi sociale, economica e politica del nostro tempo. Che ruolo possono giocarvi le donne? E cosa può fare il movimento femminista per affrontare questa ondata fascista? Nei tuoi ultimi scritti, per mettere in luce un contrasto, ci parli anche di una militanza felice e gioiosa. Recuperare l’allegria può essere anche una chiave che facilita l’organizzazione? 

Oh, mi piace questo argomento. Sono profondamente convinta che sia già in atto un grande processo di sensibilizzazione a livello internazionale. La stragrande maggioranza degli uomini e delle donne, vecchi e giovani, sa che la società capitalista produce morte e scarsità in nome del progresso. La maggioranza della società sa che il progresso capitalista è una menzogna. Pertanto, la sfida del femminismo attuale è organizzare questa maggioranza sociale con nuove forme di lotta comunitaria. Lo scopo è, come abbiamo detto prima, liberare il nostro tempo per poter creare una mobilitazione forte, contundente e veramente capace di cambiare le cose. Perché ciò accada è necessario avere tempo libero. C’è però un’altra questione altrettanto importante da affrontare: la nostra forma di organizzazione. Penso che per molto tempo la forma di organizzazione politica sia stata molto maschile. Essendo un settore molto maschilizzato, si è sviluppata un’idea di cosa sia la politica e di come si possa farla molto irreggimentata. Noi femministe, al contrario, abbiamo capito che quando si tratta di organizzarsi per lottare bisogna pensare ad attività che non siano un lavoro in più. Dobbiamo pensare a forme di organizzazione e di lotta che che non ci diano più sofferenza e che non sembrino un nuovo peso nella nostra vita. Dobbiamo sforzarci di creare forme di organizzazione, lotta e mobilitazione che ci nutrano, che ci rafforzino emotivamente e che siano piacevoli e gioiose. La condizione perché ciò accada è prendere coscienza dell’importanza delle relazioni che creiamo tra di noi nel processo di lotta e mobilitazione. Dobbiamo prestare attenzione alle relazioni che creiamo e generare reti emotive che ci fanno venire voglia di andare a una riunione o a un incontro perché le nostre amiche, le donne che amiamo, saranno lì. L’organizzazione deve integrare anche momenti di allegria: cantare, ballare e fare attività gioiose insieme. Sono tante le donne che stanno già mettendo in pratica tutto questo. Un esempio fantastico è quello di Rafaela Pimentel di Territorio Domestico (che ha partecipato alla  3a edizione della Scuola Femminista Ama Asturies). Dobbiamo integrare questa affettività nella nostra lotta, soprattutto quando abbiamo al nostro fianco compagne che hanno lasciato i loro paesi e vivono lontane dalle loro comunità. La militanza gioiosa consiste nel creare nuove famiglie, nel senso più positivo del termine. Lo dico sempre: se il lavoro di mobilitazione diventa un altro peso, c’è qualcosa che non funziona. In questa condizione di dolore e sofferenza che si aggiunge alle nostre vite, è normale che le persone preferiscano andare a guardare il calcio o al cinema. Va creata una militanza allegra capace di riprodurre anche noi stesse, non solo gli altri. Dobbiamo anche riprodurre la lotta, il che significa riprodurre noi stesse in una crescita della gioia. Questa è solidarietà. La solidarietà non è solo teoria, è qualcosa che ci mobilita, che muove i nostri corpi.

Foto di gruppo per chi ha partecipato all’organizzazione della IV edizione della Scuola Femminista dell‘Assemblea Moza d’Asturies

Per concludere davvero, quali sono i compiti pendenti del femminismo contemporaneo? Ci hai parlato dell’importanza di includere nell’agenda femminista il lavoro riproduttivo e la riproduzione della vita, la lotta contro la guerra e la militarizzazione della società. Pensi che ci sia qualche nuovo terreno di riflessione che non riusciamo a vedere solo perché, come ci insegni, il capitalismo limita la nostra capacità di immaginare?

Credo che ciò che il movimento sta già facendo dimostri l’ampiezza del femminismo: il corpo, la sessualità, la salute, l’educazione e la produzione della conoscenza sono solo alcuni dei temi che il movimento femminista ha trattato nel corso degli ultimi decenni. Non possiamo poi dimenticare l’incredibile lotta per il recupero della Memoria Storica che portano avanti le compagne in America Latina. Ci insegnano l’importanza di recuperare il senso di comunità e la solidarietà con coloro che hanno lottato prima di noi, non solo per comprendere le lotte del passato, ma anche per mantenerle presenti nella nostra vita quotidiana. Comprendere le lotte del passato e conoscere i volti delle compagne e dei compagni che hanno perso la vita lottando ci rafforza. Per dirlo in sintesi, comprendere che la nostra lotta è parte di qualcosa di molto più grande e che va ben oltre la nostra vita individuale ci dà coraggio, saggezza e solidarietà.

       
Inoltre, femminista è la lotta per le risorse e contro la devastazione della natura in tutta la sua ampiezza: terra, acqua, mari, animali e alberi. E lo è anche la lotta contro il debito, molto forte in Argentina, di cui parla molto Verónica Gago (che ci ha accompagnato nella seconda edizione della Scuola Femminista Ama Asturies). Un debito creato dal capitale e che è l’ennesimo modo di imprigionare le donne nelle loro case. Le donne sono le più indebitate: abbiamo debiti per mangiare, curarci e per studiare. Oggi la gente non si indebita per comprare cose superflue, tutt’altro: oggi lo si fa per mangiare, per pagare la luce e il medico, perché i salari sono sempre più miseri. Ecco perché è così importante la capacità del movimento femminista di creare reti internazionali, dall’America all’Europa, all’Africa e all’Asia, contro il debito personale e nazionale. Organizzarsi a livello internazionale contro la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale è essenziale perché ovunque vengano imposti piani di austerità, i popoli non potranno fare altro che indebitarsi per sopravvivere.    

Il movimento femminista si è dimostrato capace di includere molte questioni nella sua analisi, come dicevo prima. Ora dobbiamo concentrarci sulla creazione di nuove modalità collettive di organizzazione della cura, dell’educazione e della creazione di conoscenza senza passare attraverso il mercato. È necessario liberare la riproduzione sociale dal mercato, liberarla dalla logica del profitto, recuperarla e incentrarla sul nostro benessere. Questo è l’obiettivo del femminismo e siamo già in cammino per raggiungerlo. Un percorso che deve essere internazionale, i suoi passi devono rafforzare le reti di donne esistenti e crearne altre capaci di connettere le donne indigene con le contadine e con coloro che lottano contro la repressione sessuale. Dobbiamo collegare tutte le nostre lotte. Il femminismo è un immenso territorio di analisi e di azione e credo che stiamo ancora comprendendo che questa è la nostra forza. Stiamo creando un territorio comune che serva da punto d’incontro per tutte le lotte sociali. Questa è la nostra forza e, allo stesso tempo, è il presente e il futuro del movimento femminista.


Melissa Cicchetti è nata in provincia di Rimini e cresciuta con le nonne a base di piadine. Vive da qualche anno a Oviedo, città delle Asturie, nella Spagna nord-occidentale, dove continua a far ricerca, in particolare sulle genealogie del femminismo gitano e le pratiche delle donne gitane in Spagna. Sconfigge la solitudine della ricerca, partecipando in modo appassionato e intenso al movimento femminista, all’8M e all’Assemblea Moza d’Asturies. L’intervista che ci ha inviato, insieme a un sacco di parole belle e preziose sul suo percorso di vita, è uscita in lingua castigliana all’inizio di novembre anche su Nortes con il titolo “Nadie se emancipa trabajando”

La traduzione per Comune-info è di marco calabria

Nessun commento:

Posta un commento