LA POESIA IRANIANA
di Forugh Farrokhzad
(trad. di Domenico Ingenito)
È uscito da poche settimane, a cura di Domenico Ingenito, il volume di versi Io parlo dai confini della notte (Bompiani) della poetessa e regista iraniana Forugh Farrokhzad (1934-1967). L’opera è la prima edizione critica al mondo, completa e senza censura, di una delle più grandi innovatrici della poesia iraniana. Proponiamo alcuni testi.
Testi ripresi da https://www.leparoleelecose.it/?p=48199
Angoscia (dalla raccolta Prigioniera, 1955)
Il Karun, fiume meridiano,
si snoda sulle spalle nude del paesaggio
come i riccioli scarmigliati di una ragazza.
Il sole cala, e i respiri torridi della notte
sfiorano il petto palpitante delle acque.
Lontana dal mio sguardo fisso, inebriata d’amore,
quella sponda meridionale casca
nell’abbraccio luminoso della luna.
La notte, con mille occhi radiosi e insanguinati
cala al capezzale degli amanti immacolati.
Il canneto riposa silenzioso
e dal suo fondo scuro
un uccello sconosciuto schiamazza senza sosta.
Si affretta il chiaro di luna per vedere
cosa accade all’uccellino preso nella morsa del terrore.
Per la brezza sensuale di mezzanotte
l’ombra delle palme nella sponda
trema sulle acque di quel delta.
Il verso sordo del brusio delle rane
si insinua nel silenzio misterioso della notte.
Nel rapimento scaturito dalla bellezza notturna
il sogno remoto della tua presenza si fa più vicino.
Laggiù l’odore tuo fluttua tra le acque,
i tuoi occhi brillano per poi rabbuiarsi.
Povero quel cuore
che con tutto l’ardore e la speranza
si spezzò per mano tua, prigione poi del mio amarti.
O ramo divelto dalla tempesta di questo amare,
te ne vai alla deriva del tuo delta,
te ne vai via da questa terra.
(Ahvaz, estate 1955)
Nuda nella fonte (dalla raccolta Il muro, 1956)
Mi denudai in un’aria dolce e serena
per bagnare la mia figura nell’acqua della fonte.
La notte silenziosa suggeriva al cuore sottovoce
di confidare alla fonte il dolore riposto in petto.
L’acqua era fresca e i flutti, brillando,
mi accarezzavano nel sussurro di passione.
Come mani morbide e cristalline
li sentivo trarre a sé il mio corpo, il mio spirito.
Da lontano una brezza mi scorreva addosso
versandomi sui capelli un grappolo di fiori.
L’alito di vento mi soffiava piano nelle narici
un odore di mentuccia, incantevole e pungente.
Socchiudendo gli occhi silenziosa e serena
strinsi il mio corpo all’erba morbida e umida.
Come una donna che riposa sul petto dell’amato
mi concessi tutta alle mani della fonte.
Le labbra dell’acqua mi tremavano sulle cosce
baciandomi con fervore, nella sete di un fremito febbrile.
E d’un tratto la mia figura e l’anima lasciva della fonte
scivolarono l’una dentro l’altra inebriate dall’orgasmo.
Dalla raccolta Una rinascita (1964):
Nel sorgere del sole
Guarda, il dolore nei miei occhi
scivola via goccia a goccia come l’acqua,
guarda come la mia ombra nera e ribelle
è dominata dal sole
guarda
si disfa la mia vita intera
una scintilla mi trascina al desiderio
e mi spinge all’estasi
mi trascina all’inganno
guarda
come tutto il mio cielo
è solcato da stelle cadenti.
**
Sei arrivato dai luoghi remotissimi, tu,
dalla terra di bagliori e profumi,
adesso mi distendi in una barca
fatta d’avorio, nuvole e cristalli:
portami via, mia speranza, carezza del cuore,
portami via, nella città dei versi e dei fervori.
Mi trascini lungo il sentiero costellato di astri,
mi hai distesa oltre la stella,
guardami,
io sono arsa dalla stella
da lato a lato, infiammata dalle stelle
come i pesci dal petto rosso che semplice hanno il cuore,
stringo a me le stelle negli stagni della notte.
Quanto lontana era prima d’ora la nostra terra,
adesso in questo azzurro, nelle dimore del cielo
mi sovviene di nuovo
la tua voce,
il fruscio delle ali innevate degli angeli
e guarda fino a dove sono arrivata
alla via lattea, oltre lo spazio e l’eterno.
Adesso che giungiamo sino al culmine
lava il mio corpo con il vino delle onde
avvolgimi nella seta del tuo bacio
desiderami nelle notti senza fine
e non lasciarmi,
non separarmi più da queste stelle.
**
Guarda, come la cera della notte sui nostri sospiri
goccia a goccia diventa seme,
la coppa nera dei miei occhi
nella tua nenia calda
da lato a lato trabocca col vino del sonno,
affàcciati sulla culla dei miei versi
e guarda,
tu ti stagli
nel sorgere del sole.
Per le acque verdi dell’estate
Più sola di una foglia
e gravata da felicità abbandonate
mi affido serenamente
alle acque verdi dell’estate
verso il terreno della morte
verso la riva di dolori autunnali
abbandonando me stessa a un’ombra,
l’ombra screditata dell’amore
sotto l’ombra di fortuna fugace
all’ombra di ogni evanescenza.
Quando a notte nel tristissimo spazio del cielo
gravita una brezza stordita
quando a notte una nebbia insanguinata
scivola per i vicoli azzurri delle vene
quando a notte siamo soli
con il brivido dello spirito, solo allora
dentro i nostri polsi freme questo
morboso senso d’essere.
“Mistero che ti celi nell’attesa delle valli”
incisero per le vette dei monti
su costoni spaventosi
coloro che cadendo a notte
colmavano il silenzio delle cime
con amarissimi scongiuri.
“La pace delle mani vuote
non si trova nei pugni stretti,
sublime silenzio delle rovine.”
Questo cantava una donna nelle acque
per le acque verdi dell’estate
– si diceva vivesse tra rovine.
Noi ci macchiamo l’un l’altro
con il fiato
macchiati noi da pietà di sorte
temiamo la voce del vento,
impallidiamo quando le ombre del dubbio
penetrano i giardini dei nostri baci,
e in tutte le feste nel castello di luce
tremiamo nel terrore di rovina.
**
Adesso sei qui
ti spandi come aroma di acacia
nei vicoli del mattino.
Pesante, sul mio petto,
bruciante, tra le mani,
arso, sconvolto, abbandonato ai miei capelli
adesso sei qui.
Qualcosa di oscuro, denso, immenso
qualcosa di turbato, come voce lontana del giorno,
ruota e si diffonde
per le mie pupille stravolte.
Forse mi attingono da fonti
forse mi colgono da rami
forse mi chiudono come porta
sugli istanti imminenti, forse
io non riesco più a vedere.
**
Noi crescemmo da vano terreno
piovemmo su vano terreno
vedemmo il Nulla sui sentieri:
avanzava sovrano sul dorso
del suo giallo cavallo alato.
Poveri noi, baciati da pace e fortuna
addolorati e silenziosi
nella gioia d’amare, poveri,
per amore che è ingiuria
Versetti terrestri
Allora poi
raggelatosi il sole
la grazia abbandonò i campi.
L’erba riarse nelle valli verdeggianti,
si seccarono i pesci nei mari
e il suolo cessò di accogliere
i morti.
In tutte le finestre impallidite
come immaginazione equivoca
la notte si addensava straripando
e le strade cedevano le curve
alle braccia del buio.
Nessuno pensò più all’amore,
nessuno pensò più al possesso,
poi, nessuno più
pensò a nulla.
Nelle caverne di solitudine
il vacuo venne al mondo
il sangue si appestava d’oppio
le donne incinte
partorivano neonati senza testa.
Le culle, vergognose,
si rifugiavano nelle tombe.
Un giorno amarissimo, nerissimo,
venne a mancare al pane,
la forza gloriosa della vocazione.
I profeti, affamati, sventurati,
sfuggirono alla presenza divina
e gli agnelli smarriti del Messia
persero il richiamo dei pastori
nello stupore degli altopiani.
Pareva che negli occhi
gli specchi riflettessero
le immagini distorte di gesti e colori
e in cima al cappello dei pagliacci
sui volti sfacciati delle puttane
come un cerchio che sfavilla
bruciasse un’aura di luce sacra.
Le paludi etiliche
con i loro vapori
acremente tossici
risucchiavano le masse inerti d’intellettuali,
subdoli i ratti
nei vecchi ripostigli
masticavano i fogli dorati dei manoscritti.
Il sole era morto
il sole era morto
e il senso del domani, vacuo,
svaniva dalla mente dei fanciulli.
Domani, una parola disusata e oscura
che segnavano
sui quaderni
con grosse macchie nere.
La gente
il consesso estinto della gente
afflitta, scarna e smarrita
sotto il peso funesto delle salme
vagava di nostalgia in nostalgia
e si gonfiava nelle proprie mani
il desiderio doloroso di delitti.
Una scintilla poi d’un tratto
povera cosa
consumava dall’interno
questa folla esanime e quieta
gli uomini si scannavano
recidendosi le gole
per poi andare a coricarsi
con piccole bambine
nelle alcove del sangue.
Sprofondavano nel proprio panico,
il senso spaventoso di un peccare
paralizzava i loro spiriti
orbi e ottusi.
Durante il rito dell’esecuzione
quando la forca spingeva
fuori dalle orbite
gli occhi straziati di un condannato,
loro, con nervi aridi e logori,
meditavano, compassati,
trafitti da un pensiero di lussuria.
Lungo i margini delle piazze poi
vedevi questi piccoli criminali
in piedi, fermi,
a fissare
lo scrosciare d’acqua dalle fonti.
**
Ma forse, dopotutto,
nelle profondità del gelo
oltre tutti quegli occhi schiacciati
restava qualcosa di confuso e vivo per metà
che nel suo sforzo spento desiderava credere
alla purezza del canto delle acque.
Eppure, come fare con quel vuoto senza fine?
Il sole si era estinto e nessuno sapeva
che quella triste colomba
fuggita da ogni cuore
recava il nome della fede.
**
Ascolta, o voce imprigionata,
potrà mai lo splendore
della tua disperazione
aprire un varco verso la luce
nel mezzo di questa notte infausta?
Ah, voce imprigionata,
o ultima voce delle voci.
Poesie postume:
Nulla resta se non il suono (dalla raccolta Crediamo pure all’inizio della stagione fredda)
Perché fermarmi, perché?
Gli uccelli sono andati alla ricerca di un lato azzurro
orizzonte verticale
orizzonte verticale, movimento che scaturisce
e nei margini del vedere
ruotano pianeti luminosi,
nella sua elevazione la terra si ripete
e i vuoti d’aria
si trasformano in connessioni sotterranee
e il giorno è un’immensità
che non entra nel ristretto immaginare dei tarli dei giornali.
Perché fermarmi?
Attraverso i capillari della vita
la qualità del terreno di coltura
per l’utero della luna ucciderà le cellule infette
e nello spazio chimico che segue l’alba
c’è solo il suono,
suono poi dissolto nelle molecole del tempo
perché fermarmi?
Cosa sarà mai l’acquitrino,
cosa sarà mai se non il luogo dove insetti infetti depongono le uova?
Le salme tumefatte
schedano i pensieri della cella frigorifera.
L’uomo infame nasconde nel buio
la sua vigliaccheria
e lo scarafaggio, ah,
se lo scarafaggio comincia a parlare
perché fermarmi?
Non ha valore l’aiuto dei caratteri mobili,
l’ausilio dei caratteri di piombo
non ci salverà dal pensiero meschino,
mi ammalo nel respiro dell’aria viziata,
un uccello morto mi consigliò di ricordarmi del volo.
Il fine ultimo di tutte le forze è quello di unirsi,
unirsi al principio luminoso del sole
e sfociare nell’intelletto della luce.
È naturale
che marciscano i mulini a vento.
Perché fermarmi?
Io spingo sotto il seno
le spighe verdi del grano
per allattarle,
è il suono, il suono, il suono
il suono del desiderio limpido che l’acqua ha di scorrere
il suono del riversarsi luminoso della stella
sulle pareti femminee del suolo
il suono del seme che si rapprende in senso
il dilatarsi della mente condivisa dell’amore
il suono, il suono, il suono solo il suono resta.
Nella terra della gente bassa
i criteri della misura
viaggiano sempre sul meridiano zero,
perché fermarmi?
Io mi conformo ai quattro elementi
e la stesura delle norme del mio cuore
non pertiene al governo locale dei ciechi.
Cosa farmene del lungo gemito selvatico
dell’organo sessuale degli animali?
Cosa farmene del movimento infimo di un verme nelle cavità della carne?
Un legame di sangue con i fiori mi obbliga a vivere,
sapete voi del legame di sangue con i fiori?
[Novembre / dicembre 1966]
Erezione suicida (testo scritto a quattro mani con Yadollah Roya’i poche settimane prima della morte di Farrokhzad)
Erezione suicida
vena trasversale, vena occlusa
pressione di massa intorpidita
incarnazione del respiro, convulsione della seta
scollarsi dalla cornice, sversamento del sospiro
liberazione che discende.
Un saluto
saluti dall’elevazione
e invitami
al livello dell’umidità
invitami alle contorsioni
alla febbre della carne
invitami al buio della falena nera
alla voluttà del fiore carnivoro
alla costola, al periodo, invitami
al termine del canale d’acqua,
invitami
al fossato del tuo essere femmina
dentro al nucleo triangolare
invitami
al dischiudersi e contrarsi
in questo spazio uncinato, spietato
vuoto di mormorio
pieno di crolli
invitami
all’eiaculare
il folle eiaculare
la discesa della forza muscolare
passaggio nello zolfo
respirare nell’androne
soffocare
circuirsi
sobbalzare nella letargia
sobbalzare nel sonno
oblio delle palpebre
generalità di palude…
Aaah…
è il suono del fumo?
È una luna solitaria.
[Inverno 1967]
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