Einaudi ripubblica «la rivoluzione romana» di Roland Syme, il magistrale saggio del 1939 che esaminava l’ascesa di Augusto con lo sguardo rivolto ai dittatori europei del momento.
Carlo Franco
Augusto visto da Oxford
Molti storici hanno
indagato la crisi che a Roma travolse la repubblica
aristocratica fino all’instaurazione del regime di
Augusto. E molti hanno raccontato la vita del
figlio adottivo di Cesare, che da leader di una fazione
della guerra civile divenne ‘princeps’. Nessuno in età
moderna lo ha fatto però con la forza e l’efficacia di
Ronald Syme (1903–1989), storico neozelandese
trapiantato a Oxford, in The Roman Revolution.
Il libro, che esamina l’ascesa dell’Augusto con lo sguardo
rivolto ai dittatori dell’Europa novecentesca,
uscì nel settembre del 1939.
La concomitanza
con lo scoppio del conflitto mondiale poteva
nuocere: la guerra avrebbe presto imposto una
differente agenda all’interpretazione dei governi
totalitari. Ma l’opera di Syme mantenne la propria
forza, e proprio dal dopoguerra ha esercitato
un’influenza durevole sugli studi. Il libro fu tradotto
in italiano nel 1962, su suggerimento di Arnaldo
Momigliano. Lo storico, costretto all’esilio in Gran
Bretagna dal 1938, aveva prontamente recensito
Syme in una delle sue prime pubblicazioni all’estero
e firmò la prefazione all’edizione italiana.
Altre edizioni nelle principali lingue europee
seguirono negli anni.
Nel frattempo, dopo
la pubblicazione degli altri suoi libri, Syme era
ormai «l’imperatore della storia romana» (come lo definì
Glenn Bowersock). Ora opportunamente La
rivoluzione romana torna in libreria , complice
il bimillenario della morte di Augusto (morto
nel 14 d.C.), con nuova introduzione a cura di
Giusto Traina, che analizza efficacemente
la ricezione del libro (traduzione di Manfredo
Manfredi, «Piccola Biblioteca Einaudi Ns», pp.
XXXVIII-650,euro 35,00).
Al successo così
prolungato del lavoro di Syme ha contribuito,
oltre al soggetto, lo stile particolarissimo
dell’autore. La storia di Roma dal dominio di Pompeo
alla fine del principato di Augusto è raccontata
in pagine nervose e taglienti, che consapevolmente
guardano a Tacito (lo storico romano a cui
l’autore dedicò, anni dopo, un grande studio). Secche
frasi liquidano miti e grandezze: le celeberrime
Filippiche di Cicerone appaiono «un eterno
monumento di eloquenza, di rancore, di
travisamento dei fatti», opera di un politico
vittima di una «costante illusione».
La politica
è studiata nella sua forma più cruda, descritta com’è
senza speranza e senza ideali. L’oligarchia romana non
era stata in grado di mantenere il conflitto entro
i confini della lotta per potere, ricchezza
o gloria: altri temi erano emersi, con la forza del denaro
e delle armi. Cesare, aristocratico fino al
midollo, si era appoggiato a senatori e cavalieri,
ma aveva promosso anche uomini che venivano dalla
periferia, nuovi alla politica. Come risultato,
la fazione che sostenne poi il giovane erede di Cesare aveva
compreso personaggi «privi di scrupoli,
arricchiti dalla guerra e dalla rivoluzione»,
e il nuovo ordine seguito alla feroce lotta era di fatto
plutocratico. Non c’era solo Mecenate con
i suoi pensosi letterati.
Al centro del
racconto, oltre ai singoli protagonisti,
stanno più in generale la lotta di vari ‘partiti’
e la crisi convulsa di una classe dirigente. I nodi
familiari e politici che stringevano tra
loro tutti i politici di primo e secondo piano nella
Roma della tarda repubblica sono evocati con precisione
(secondo il metodo «prosopografico») ma anche
con una strabiliante comprensione
«dall’interno», che ha fatto pensare per analogia
allo sguardo di Proust (cui Syme dedicò uno scritto, rimasto
inedito ma recentemente pubblicato).
In questa
focalizzazione sulle élites è stato
riconosciuto da tempo il senso e il limite del
lavoro: davvero, come scrisse Momigliano, la storia
di Roma si poteva ridurre alla lotta tra fazioni, allo studio
dei ristretti gruppi che si contesero il potere per
decenni, quando venne meno il precario equilibrio
della repubblica? Quale fu il ruolo degli eserciti, delle
provincie e, su un altro piano, dei moventi economici?
Temi questi non estranei a Syme, che alle carriere
di personaggi ‘provinciali’ dedicò studi
particolari di grande rilievo, ma che restano sullo
sfondo nella sua opera maggiore.
La rivoluzione
romana non voleva essere un lavoro esaustivo: molto lavoro
c’era da fare ancora (come l’autore esplicitamente
ammetteva), e molto da allora è stato fatto, in
ricerche importanti e sollecitate da
spinte differenti. Ad esempio, The last Generation
of the Roman Republic di Eric Gruen (1974) affrontava la
stessa crisi studiata da Syme, ma con interesse agli
elementi di continuità e alla resilienza
delle istituzioni rispetto alle epoche di
inquietudine (i turmoils dei tardi anni sessanta
e dei primi anni settanta negli Usa). Oggi, invece,
nessuna ricerca di storia antica, nemmeno
sull’Augusto, fa sentire l’urgenza di una questione
viva: come ha osservato Andrea Giardina, «l’impero
romano non suscita più passioni attualizzanti», ma
genera al più mostre, convegni, o serie televisive.
Non era invece così
negli anni trenta, dopo la fine degli imperi aristocratici
e la liquidazione dei governi liberali
a vantaggio di regimi personali a base
militare: il bimillenario augusteo del
1937-’38 fu celebrato in Italia con fervore
fascista. Impressionato da quel contesto,
Syme non raccontò la vittoria dell’Augusto come
l’ineluttabile e «giustificato» esito di un
processo storico (la «crisi senza alternative»
di Christian Meier), e ancor meno come l’affermazione di
un uomo carismatico: largo spazio è per contro
dato a tutte le ambiguità del protagonista
(un camaleonte, un ipocrita, una sfinge, secondo le
successive definizioni datene da Giuliano
Imperatore, da Gibbon, da Syme stesso).
Una certa comprensione
va piuttosto alle ragioni dei suoi avversari:
l’apprezzamento di Syme per il punto di vista di Marco Antonio,
più che una provocazione, pare una scelta di campo.
Ma senza concessioni a utopie «repubblicane»:
l’Augusto, un nuovo Cesare più paziente e metodico del
primo, dopo essere stato un problema (ossia una delle forze che
lacerarono definitivamente la
compagine statale) fu anche la soluzione.
Riadattando una efficace formulazione
di Plutarco (Vita di Cesare, 28,5), forse è vero che «il
potere di uno solo era l’unico rimedio ai mali della
repubblica, e allora era meglio che quella medicina
venisse somministrata dal medico più umano», anche
se non dal migliore.
Con La rivoluzione
romana Syme scrisse, con spirito aristocratico,
la storia della crisi di una aristocrazia: la
trasformazione violenta di una società
tradizionalista, scossa da un lungo
travaglio e finalmente da una rivoluzione.
Il termine, così discusso, si giustifica ampiamente
per il fatto che arrivò al vertice politico un nuovo ceto
dirigente, uscito dalle feroci lotte che avevano decimato
o emarginato le famiglie che a lungo
avevano tenuto stretto a sé il governo della repubblica.
La storia di
questi gruppi è stata narrata analiticamente
da Syme anni dopo in L’aristocazia augustea (tr. it.
Rizzoli, 1993). I nuovi gruppi di potere non sono
descritti da Syme con simpatia. Ai valori cui era legato
il vecchio ceto erano subentrate altre energie, altri
mores: «Quando un partito ha trionfato con la violenza
e si è impadronito del controllo dello
stato, sarebbe pura follia considerare il nuovo
governo come un’accolita di personaggi simpatici
e virtuosi».
Del resto, il
principato segnava la vittoria di quanti
avevano rinunciato alla libertà per avere la pace.
I giudizi di Syme sembrano suggerire che il
libro guardasse a un pubblico di lettori
solidali con le diffidenze dell’autore: verso la
folla incostante, verso gli eserciti incontrollati,
verso gli avidi veterani smobilitati, verso
i nuovi politici ambiziosi, verso gli uomini nuovi,
spesso moralmente impari alle sfide da fronteggiare,
e privi di dignità. La prospettiva è liberale
di fondo, ma conservatrice: un chiaro impulso
antitirannico la differenzia però
nettamente dalle posizioni degli amici di lord
Darlington, l’immaginario (ma non troppo) personaggio
di The remains of the day di Kazuo Ishiguro (1989).
Pur segnate
dall’esperienza degli anni trenta del secolo scorso, le pagine di
Syme mostrano a più di sessant’anni di distanza dalla
pubblicazione, e oltre cinquanta dalla
traduzione italiana, intatta forza. La tesi
centrale, che la «rivoluzione romana» portò al
potere le classi apolitiche dell’Italia, escluse
fino ad allora dal vero potere centrale, è stata
discussa, sfumata o contestata. Documenti
scoperti successivamente hanno modificato
l’interpretazione di taluni aspetti amministrativi.
La piena
focalizzazione sui dati della tradizione
letteraria portò Syme a lasciare ridotto
spazio ai temi ideologici, dal consenso alla
propaganda, e al «potere delle immagini», al
quale Paul Zanker ha dedicato anni fa il suo libro su
Augusto (tr. it. Einaudi, 1989, poi Bollati Boringhieri,
2006). La scelta di Syme, nata anche dalla presa di distanza
rispetto a certi lavori apologetici verso
l’Augusto, ha giovato alla stringatezza del
racconto, lucido e disilluso ma impegnato
a cogliere le motivazioni profonde,
psicologiche più che politico-economiche, degli
attori. I fatti sono ripercorsi con sapienza narrativa,
entro un magistrale dominio delle fonti antiche.
Scarno il ricorso alla
bibliografia moderna, presso che nulle le concessioni
alla teoria. E netto il rifiuto per le sottigliezze
della formalizzazione giuridica, cara
alla tradizione germanica del Mommsen: lo
stalinismo aveva insegnato che le
«costituzioni» possono essere semplici
facciate, che poco o nulla dicono sul reale strutturarsi
del potere, perché «qualunque sia la forma di un
governo, monarchia, repubblica o democrazia,
in ogni tempo c’è, dietro, una oligarchia».
Parole tornate oggi, per vie impreviste, di
sconcertante attualità: e certo, ogni età ha
l’oligarchia che si merita.
Il Manifesto – 20
luglio 2014
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