Diga Jato. Foto di Giovanna Biondo
L'amico Giuseppe Casarrubea mi ha segnalato stamattina un pezzo pubblicato sul suo blog che non posso non condividere. Danilo Dolci ci ha insegnato a capire la centralità che ha l'acqua in terra di Sicilia:
GIUSEPPE CASARRUBEA
Dall'acqua dello Jato al patto Crocetta-Renzi
Non è necessario avere la scienza infusa
per capire cosa si nasconde dietro i giochi di palazzo da cui dipende la
vita di molte persone e famiglie. Una scelta non vale l’altra e, se ci
si viene a trovare in una palude, la colpa non è della palude ma di chi
ha messo un cartello stradale indirizzando le persone ad impantanarsi.
Nel nostro caso il pantano è la grande
crisi in cui è entrato da tempo il valore del lavoro e, collegato ad
esso, il concetto di sviluppo. La Sicilia si muove sul binario
dell’emergenza, al rimorchio delle concessioni dello Stato, che alla
fine cede per sanare la cattiva politica e lenire la sicumera
parlamentare dei nostri “onorevoli” regionali. Non è che a Roma sono
tutti galantuomini, ma noi siamo buoni per le chiacchiere e per
sollevare pennacchi di fumo, esperti nel non dare certezze e speranze al
futuro. Attenzione, è una storia che dura dal tempo dei viceré, quando
il Parlamento era fatto da baroni che, se li gradivano, li lasciavano al
loro posto, altrimenti li cacciavano via a pedate nel sedere come
successe al viceré Fogliani.
Calano tutti nei loro feudi territoriali
per le elezioni regionali, le più inquinate dal sistema clientelare, e
spariscono per sempre negli anni successivi. Tranne poi a leggere che
sono stati incriminati. Perché un deputato senza “nei” sarebbe proprio
brutto, visto che il “neo” era un vezzo salottiero delle aristocrazie
della capitale nel Settecento e nell’Ottocento. E anche nei secoli
ancora più lontani. Tutti ora hanno lo stesso vizietto. Nessuno escluso.
E il vizio si è trasformato in virtù.
A monte ci sono le clientele e i
carrozzoni dell’onorevole Tizio, o dell’onorevole Caio. Il loro insieme
forma una spinta sul governatore, la cui collocazione oggi è analoga al
ferro da forgiare nella fucina dove si battono indefinibili oggetti tra
incudine e martello. Oggetti un po’ incandescenti, per il fuoco e la
battitura, ma di fatto senza forma e senza identità. Manca il vero
mastro artigiano che ci metta anima e ingegno.
Prendiamo in considerazione un esempio
fresco, di qualche giorno fa: l’assestamento del Bilancio regionale per
l’anno 2014. Materia di attualissima discussione. Osserviamo l’errore
concettuale. Si assesta ciò che sta consolidandosi, ma quando tale
fenomeno diventa manovra correttiva, variazione di bilancio,
consuetudine, il discorso cambia. Ed è il nostro caso. Il pretesto del
ragionamento ce lo da il presidente della Commissione Nino Dina. Parla
senza peli sulla lingua e lo dice apertamente. A modo suo. Si tratta di
definire stanziamenti di bilancio nuovi, di utilizzare risorse dello
Stato conseguenti all’accordo del 5 giugno 2014, tra il Ministro
dell’Economia e delle Finanze e la Regione siciliana. Pare che ci sia un
accordo verbale, politico, tra Stato e Regione. In parole più chiare lo
Stato concede 500 milioni alla Sicilia, ma in cambio questa tace e
mentre tace e riceve elemosine, tappa i suoi buchi, e come una grande
prostituta gode, o finge di godere. Come forse piacerebbe meglio dire a
Pietrangelo Buttafuoco.
La Sicilia di sempre: dominata e
taciturna. Festa, farina e forca erano i grandi bisogni del popolo di
una volta. Ma la regola non è per niente cambiata. Di ribellioni
sociali, di sane e salutari indignazioni neanche a parlarne. Hai
problemi? Adotta un onorevole. Eppure si tratta di questioni nodali, di
grande interesse sociale, come “il ricovero dei minori, le comunità
alloggio per disabili psichici, la forestazione e la prevenzione agli
incendi (sic), i Consorzi di bonifica, l’Esa, la gestione degli impianti
idrici, […] i contratti di filiera e di distretto e le nuove iniziative
per favorire lo sviluppo”. In altre parole: la gestione di alcune
emarginazioni sociali affidate non alla cura degli enti pubblici ma
all’incerto ed equivoco volontariato di privati laici e cattolici, la
politica del rimboschimento che nessuno sa quanti ettari di foresta in
più ha prodotto negli ultimi decenni e quanta ne è stata distrutta, la
gestione delle acque e degli impianti, le iniziative di sviluppo che
nessuno ha mai saputo in che cosa consistono. Con buona pace
dell’Autonomia virtuale della Sicilia. Che è meglio di niente.
Altra caratteristica di questa Sicilia
imperitura e subalterna è l’uso dell’Autonomia come arma per stipulare
patti scellerati, per sancire eterne sudditanze, per mettere lo Stato
nella condizione di essere solo lui il garante della risoluzione dei
gravi e drammatici problemi che affliggono l’isola: la disoccupazione, i
bassi redditi, il pecariato e l’incertezza del futuro, l’uso della
Sicilia per finalità militari, i Muos, e chi più ne ha più ne metta.
Il caso della gestione delle acque è
emblematico, come la scomparsa dei Consorzi di bonifica che da una
decina sono adesso solo due. Tutta salute per i risparmi degli stipendi
dei vari direttori. Risultato: la stagione irrigua quest’anno a
Partinico è cominciata a giugno e, se ad agosto non sarà approvato lo
strumento finanziario della Regione, ben 49 operai del Consorzio di
Palermo e provincia si troveranno in mezzo a una strada già tra qualche
giorno. Con il risultato che i produttori di Partinico potranno
espatriare. A meno che non vivano di altre risorse. In ogni caso, con la
chiusura della campagna irrigua questi operai, a ottobre, saranno
licenziati dal commissario unico del Consorzio della Sicilia
occidentale, Fabrizio Viola. Per la Sicilia orientale il nuovo
commissario unico, Francesco Petralia, non pare navighi in acque
migliori.
C’è da chiedersi: come si può vivere con
la mannaia sempre sopra la propria testa? E ancora, questi due burocrati
hanno poteri di autonomia reale? Senza quattrini da gestire e con pochi
dipendenti da governare valgono quanto un asso di coppe. L’assestamento
di bilancio risolverebbe perciò la situazione consentendo la
riassunzione dei precari. Un sospiro di sollievo. Ma le cose non stanno
così.
Aboliti i Consorzi di bonifica si sono
creati, infatti, due mostri, che forse tra di loro neanche comunicano,
anche se hanno problemi analoghi da risolvere. Si vedano le “proporzioni
politiche” dell’impiego: il Consorzio di Agrigento ha circa 300
dipendenti, quello di Palermo appena 153. Si sente o no il respiro
cuffariano? La forza operaia è stagionale e si compone di 72 elementi.
Ma i loro capi, burocrati, capetti e generali sommano in tutto a 81
unità. Capi senza la forza viva di un’azienda, che vivono di carte,
comandi, signorsì, sudditanze politiche. Un apparato parassitario
incompetente che a tutto pensa tranne che a formare la manodopera,
aggiornarla sul piano delle tecnologie e delle relazioni sociali, a
costruire il senso collettivo dello sviluppo, come succede in molti
altri Consorzi dell’Italia e dell’Europa.
La realtà più grande del Consorzio
occidentale è la piana di Partinico, su cui nel 1952 cominciò a lavorare
il sociologo triestino Danilo Dolci. Frutto di oltre sessant’anni di
lotte e di costruzione del tessuto democratico. Oggi vandea della
criminalità organizzata, sede dell’individualismo più sfrenato. Chi si
alza per primo la mattina detta legge. “Area 51” di Cosa Nostra, l’ha
definita Francesco Del Bene, sostituto procuratore della Direzione
distrettuale antimafia di Palermo. Fino agli anni ’90 la peculiarità del
territorio era l’associazionismo produttivo nelle campagne. I
proprietari di terra, coltivata per lo più a orto, vigneto, agrumeto,
eleggevano i propri rappresentanti nel Consorzio che operava con un
consiglio di amministrazione. L’acqua costava un terzo di oggi, e veniva
assegnata con un programma scritto e firmato della stagione irrigua.
Oggi, orti e agrumeti sono stati abbandonati. Specialità rare di limoni
non esistono più (lunari, lumie, interdonati), perché la mafia delle
colture orticole e agrumicole ne impedisce l’esistenza, non attribuendo
alcun prezzo al prodotto. E il discorso vale per tutti i prodotti
agricoli.
Eppure, dei 13.000 ettari che dovrebbero
essere irrigati dal Consorzio di Palermo, 7.000 sono a Partinico. Gli
altri nell’entroterra agricolo o lungo la costa orientale di Palermo
(Termini Imerese, Campofelice Roccella, Altavilla Milicia, Polizzi, San
Giuseppe Jato, ecc.). Gli addetti a Partinico, tra tempo determinato e
stagionali, sono solo venti. Anche questo dato ci dice che Partinico,
che vanta il primato dei primi vigneti impiantati in Sicilia nel secolo
XV°, non esiste neppure nel pensiero politico di quelli che se ne stanno
a palazzo dei Normanni.
E i sindacati? Dio solo sa che fanno.
Aspettano l’approvazione della finanziaria. Intanto i produttori che
hanno visto aprirsi la stagione irrigua a giugno, rischiano di non avere
più acqua già dai prossimi giorni e di vedere le loro terre
disseccarsi, o che vadano in fumo le loro speranze. Come accadde al
tempo in cui la fillossera si mangiò i vigneti, e intere famiglie fecero
le valigie e se ne andarono all’estero.
Forse qualcuno ha pensato di scatenare la
guerra civile. Perché non è tollerabile che il piccolo produttore
chiuda la sua impresa mentre la potente lady alcool del paese pare che
abbia rapporti privilegiati con l’Assessore regionale all’Agricoltura, e
ha tutta l’acqua che le serve. Qualcuno ha mai controllato se e quanta
acqua della diga consuma o se il contatore per i suoi impianti
funziona?
In conclusione. Vince la Sicilia dei
capetti e dei generali senza esercito. Perde solo chi lavora
onestamente. La manovra finanziaria dell’Ars dovrebbe evitare le rivolte
sociali di forestali, produttori e operai dei Consorzi di bonifica. E’
una proposta di sudditanza e pacificazione tra Renzi e Crocetta. Sarà
sufficiente a risolvere i problemi con un semplice scambio di
concessioni? Pensiamo proprio di no, perché niente viene risolto alla
radice e in questa terra del gattopardo, ormai restano solo le iene.
Giuseppe Casarrubea
Consiglio anche la lettura di quest'altro pezzo pubblicato sullo stesso blog: http://casarrubea.wordpress.com/2013/06/29/crocetta-e-la-diga-sullo-jato/
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