Qualche giorno fa il Manifesto ha
dedicato il paginone centrale a
Palmiro Togliatti. Gli articoli, pur nella loro diversità, sono
accomunati dalla rimozione (in perfetto stile rossandiano-magriano)
di tutto ciò che anche alla lontana richiami lo stalinismo e i suoi
crimini (di cui Togliatti fu per decenni partecipe consapevole e attivo). Altrettanto
rimosso è il dato relativo al riformismo socialista (da Costa a
Turati) il cui obiettivo era l'integrazione delle classi subalterne
nello Stato e la loro trasformazione da plebi informi a cittadini. In
questa capacità di fondere mito rivoluzionario (l'URSS) e concreto
presente riformistico (socialismo municipale compreso) in una narrazione capace di coinvolgere le grandi masse sta la
grandezza politica di Togliatti e al tempo stesso le sue profonde
contraddizioni. “Il Migliore” ne era consapevole, i suoi eredi
(in particolare Berlinguer) no. Da qui la rapida rovina di un
patrimonio politico accumulato in decenni. E che larga parte della
sinistra guardi ancora a quel passato come possibile modello per
l'oggi mostra solo la profondità della crisi di un pensiero incapace
di ripensare criticamente (e dunque superare) la propria storia.
«Sono vent’anni
che si combatte, in Italia. Vent’anni che due
forze avverse, l’una di progresso e rivoluzione,
l’altra di conservazione e reazione,
si affrontano e misurano». Così iniziava
Palmiro Togliatti uno dei suoi più celebri
scritti, l’editoriale per la nuova serie di Rinascita,
inaugurata nel ’62. Dall’avvio della
Resistenza, su su fino all’alba del centro-sinistra,
era in corso di svolgimento un conflitto
dalle radici antiche. L’allora segretario
comunista, di cui oggi cade il cinquantesimo
anniversario della scomparsa,
individuava tuttavia un dato di
profonda cesura rispetto alla tradizione
della lotta politica italiana.
Se nel 1848, poi
sul finire del secolo XIX, e più ancora nel primo
dopoguerra con l’avvento del fascismo, le forze
«di conservazione» avevano potuto
distorcere il pieno dispiegarsi del conflitto
in base a soluzioni scopertamente
reazionarie, a partire dalla guerra
di Liberazione non era stato più possibile,
per le classi dirigenti tradizionali,
ricorrere a simili ricette. Cosa era accaduto?
Era intervenuto – proseguiva lo
scritto – «un fatto che non può più e non potrà
mai essere cancellato».
E cioè che
«le classi popolari sono diventate, in un momento
decisivo della storia nazionale e della
vita dello Stato italiano, protagoniste
di questa vita e di questa storia».
Con la Resistenza, insomma, i ceti subalterni avevano fatto irruzione per la prima volta nella storia del Paese da protagonisti. E i partiti di massa, in special modo quelli del movimento operaio, avevano poi fatto sì che questa irruzione avvenisse «dal basso», e costituisse la linfa per l’edificazione di un sistema democratico pluralista. L’esatto contrario di quanto era avvenuto col fascismo, che aveva piegato la «massificazione» alle esigenze di edificazione di un progetto passivo, verticistico e totalitario.
La potenza dell’affresco tratteggiato da Togliatti in quell’ormai lontano editoriale può ancor meglio esser compresa, per così dire, post res perditas. Il legame tra irruzione delle masse popolari nella vita e nella storia dello Stato e progresso dell’intera nazione ci appare del tutto evidente oggi: con quelle stesse masse popolari espulse dallo scenario politico, ridotto a gioco a somma zero tutto all’interno dei gruppi dirigenti, progetti di riduzione degli spazi democratici e di parallela riduzione delle conquiste dei ceti subalterni hanno proceduto di pari passo, più o meno indisturbati.
Rappresenta
dunque un esercizio ricostituente,
a distanza di più di cinquant’anni, rileggere
le parole di Togliatti. Viviamo una fase in cui si
è pensato di poter sopperire con
l’happening domenicale delle
primarie allo sfarinamento di un
intero «blocco storico»; di poter fare invertire
la rotta a coalizioni politiche
caratterizzate da un ben determinato
imprinting sociale con un po’ di «narrazione»;
di poter far «cambiare di segno» alle politiche
restrittive varate dalla trojka con
elucubrazioni vagamente keynesiane
– sarebbe come chiedere la Repubblica a Luigi
XVI, è la battuta che circola tra gli
economisti eterodossi più
avveduti.
Ma si è perso
completamente di vista il dato centrale
ben presente a Togliatti, quello dell’essenzialità
della pressione dal basso da parte delle classi
subalterne in vista della conquista e della
stabilizzazione di nuovi spazi di
democrazia e di avanzamento
sociale. Una pressione, giova sottolineare,
che veniva a dispiegarsi sulla scorta di
un’analisi concreta della struttura della
società, nelle sue diverse articolazioni
economico-ideali, e di un preciso disegno
politico progressivo. Il rigoroso esame
dei rapporti di forza politico-sociali, che traluceva
dalla dinamica storica della lotta di classe, ne
era quindi il necessario complemento.
Alla leggerezza del carattere nazionale, da cui conseguiva la faciloneria e il dilettantismo che riducevano la politica a «momento passionale» e «meschina mostra di abilità», Togliatti oppose un approccio scientifico e quindi pedagogico che davvero poco spazio lasciava al fideismo odierno per il leader. La conoscenza, nel suo essere strumento di consapevolezza e coscienza critica della realtà, era emancipazione. L’erudizione stessa di cui spesso dava sfoggio risuonava a rivendicazione della possibilità, per il movimento operaio, di impossessarsi della parte migliore del patrimonio culturale nazionale. Attraverso questa capillare opera di acculturazione, i ceti subalterni si preparavano a diventare «classe dirigente». La politica, intesa come studio, lavoro, lotta, ed anche sacrificio, andava quindi a collocarsi al vertice delle attività umane.
Uno dei peculiari contributi creativi di Togliatti risiede proprio nel principio — oggi disapplicato — della politica come scienza. Un principio che il marxismo aveva contribuito a fondare, e del quale oggi la sinistra, in preda agli irrazionalismi del primitivismo politico, sembra avere ancor più bisogno. Della feconda eredità politica ed intellettuale di Togliatti parrebbe oggi persa ogni traccia, benché sia stato uno degli statisti che più a fondo, con maggiore audacia, e maggiore lungimiranza, hanno interpretato le aspirazioni di emancipazione e progresso dei ceti subalterni italiani.
Il Manifesto – 21
agosto 2014
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