E' davvero superato il
femminismo? In altre parole: non esistono più le condizioni che ne
hanno determinato la nascita? A guardarsi intorno non sembrerebbe. Un
articolo apparso su La repubblica cerca di fare il punto sulla realtà
italiana.
Simonetta
Fiori
Post
femminismo. Quello che le donne chiedono ancora
Inutile andarlo
a cercare in rete: l’antifemminismo non è pratica diffusa
tra le giovani donne italiane. Come invece accade in
America, dove impazza l’hashtag women against feminism,
nuova parola d’ordine delle ragazze ostili
all’emancipazionismo delle madri, liquidato come
aggressivo, inutile e irritante per l’ingiustificato
vittimismo. Siamo già eguali, dicono le ribelli
statunitensi. Non sentiamo il bisogno di affermarci con la
prepotenza. E che male c’è se al lavoro preferiamo la
cucina o la cura dei figli? Basta insomma con il cipiglio
femminista e i suoi slogan lamentosi. Da noi, no, la
protesta non attecchisce. Insofferenza sì, tanta. Verso un
certo femminismo giudicante, un po’ bacchettone, oppure
chiuso in un estenuante linguaggio esoterico.
Anche ribellione verso la genitorialità frettolosa delle proprie madri, in nome di una nuova mistica della maternità che contrappone all’artificio della tecnica e del biberon la naturalità del parto in casa e dell’allattamento al seno. Ma sempre all’interno di un orizzonte che si definisce “femminista” o “postfemminista”. Perché non è una storia finita, e sono in tante a volerla ancora scrivere. Con modalità diverse da quelle delle generazioni precedenti, ma senza strappi violenti. E questo accade non solo perché il nostro è un paese per certi versi ancora feudale, dove può capitare che donne e portatori di handicap vengano catalogati dall’aspirante presidente della Lega Calcio in una sottospecie che evoca gli untenmenschen.
O dove si
gioisca per il dimezzamento delle donne assassinate da 72 a
36 nel primo semestre di quest’anno, come se si trattasse
del debito pubblico e non di sei femminicidi al mese — e
ne basterebbe uno solo per preoccuparsi. O dove certo la
risata non è vietata e il rossore obbligatorio — come
rischia di accadere nella vicina Turchia — ma la
discriminazione esiste ancora sul lavoro e a casa, e a lungo
è pesata — sta ancora pesando — sulle scelte di vita
fondamentali come maternità e non maternità.
Non essendo un paese per donne, l’Italia non può esserlo per le antifemministe. Lo è stato nella stagione dei nouveaux réactionnaires, mossi dall’urgenza di distruggere le bandiere della sinistra, anche in nome della devozione a Ruini. Oggi è difficile trovare tra le più giovani una protesta analoga a quella americana anche per una ragione culturale, che differenzia la nostra esperienza da quella più pragmatica delle donne statunitensi.
«Se le
femministe d’Oltreoceano molto insistono
sull’emancipazionismo e sulla parità », dice Lea
Melandri, protagonista del movimento italiano, «in Italia
negli anni Settanta il femminismo ha avuto un tratto di
radicalità e originalità che è difficile liquidare. Noi
abbiamo posto al centro della riflessione non l’immissione
delle donne nella sfera pubblica ma la relazione tra l’uomo
e la donna, e dunque i temi del corpo, della sessualità,
della maternità. Non ci interessavano le carriere ma la
vita».
La vita, la cura degli affetti. Primum vivere è stato lo slogan degli ultimi convegni femministi di Paestum, dove si sono ritrovate migliaia di donne diversissime per età ed esperienza. Donne che s’interrogano anche sulle nuove sfide della scienza, che cambia la nozione di maternità. La “cura” è diventata la parola chiave che unisce il composito arcipelago femminile, ora al centro di un saggio di Letizia Paolozzi ( Prenditi cura, edizioni et. al). Una “manutenzione delle relazioni” che impedisce al mondo di reggersi solo sui rapporti di potere, ricchezza e sfruttamento.
«La grandezza
delle donne », dice Luisa Muraro, fondatrice del pensiero
della differenza, «è proprio nella sua intimità con il
genere umano, un segreto che si manifesta nel vivere
quotidiano, nel rapporto con la casa, con le creature
piccole, con i cibi e con il proprio uomo. La donna e Dio
hanno un segreto di cui Adamo raffigurato dormiente non
verrà mai a capo ». E non importa dunque se questa
grandezza venga esercitata in cattedra o in cucina.
«Da noi è
esistito un femminismo più libertario », interviene la
storica Anna Bravo «che non si scandalizza se le donne si
rallegrano ai fornelli o nell’allevare un figlio piuttosto
che lavorare fuori casa. E non si indigna se a una bambina
piacciono le Barbie o i vestitini di pizzo. O se belle
fanciulle sgambettano in minigonna. È una tendenza meno
visibile rispetto al severo femminismo istituzionale, che
stigmatizza l’uso delle donne nella pubblicità delle
cucine. Ma è una sensibilità diffusa tra “femministe
morbide” di generazione diverse. E questo spiega anche la
mancanza di fenomeni virali come il recente hashtag
americano».
Il dialogo
tra madri e figlie, in Italia, appare ininterrotto. E non
potrebbe essere altrimenti. «La relazione materna», spiega
Muraro, «è uno dei grandi temi del femminismo. E anche
nella dissidenza il legame generazionale resta molto vivo».
Le più giovani riscoprono l’autocoscienza, amplificata
dalle infinite possibilità del web, «la sua straordinaria
fecondità emotiva e intellettuale» (così il collettivo
femminista Benazir, nato all’Università di Verona).
Proprio come
negli anni Settanta, seppure in condizioni radicalmente
mutate. Non sorprende dunque che sia tornata anche Carla
Lonzi, teorica dell’autocoscienza, a cui Maria Luisa
Boccia ha appena dedicato il saggio La mia opera è la mia
vita (Ediesse). «Non è un ritorno motivato da esigenze di
ricostruzione storica» sostiene Boccia. «Ha piuttosto il
segno di un ricominciare. Dove si conferma attuale la
ricerca di un proprio senso dell’esistenza». Anche la
giovane sociologa Giorgia Serughetti affida alla Lonzi il
senso più profondo della sua identità femminista:
«Conoscersi come esseri umani completi, non più bisognosi
di approvazione da parte dell’uomo».
Se nella
generazione nata negli Ottanta la battaglia dei diritti non
viene dimenticata — come potrebbe esserlo? — sembra
urgere di più quella per un nuovo ordine non più governato
da uno sguardo maschile. E in questa cucitura tra passato e
presente, perfino la pratica del selfie può essere vista
come una nuova forma di autocoscienza.
«Perché non
leggerla come la ricerca di un sé ancora da scoprire? »,
getta là Melandri. Con madri così, anche il più flebile
cinguettio dell’antifemminismo è destinato a spegnersi. O
a essere sostituito dal nuovo hashtag “perché non
possiamo non dirci femministe”. Con buona pace di
Benedetto Croce e delle teenagers americane.
la Repubblica - 1 Agosto
2014
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