Sui precedenti lavori di Franco Lo Piparo abbiamo già avuto modo di esprimere il nostro punto di vista. Oggi ci occupiamo dell'ultimo libro che lo studioso di Bagheria ha dedicato al grande sardo pubblicando di seguito una diretta anticipazione dell'autore e una recensione che coglie pregi e limiti dell'originale saggio di Lo Piparo.
f.v.
Gramsci e Wittgenstein la stessa lingua L'anticipazione L'incontro a
distanza di due intellettuali Un libro racconta e documenta la
sorprendente storia dello scambio culturale avvenuto tra il filosofo
austriaco e il leader del Pci tramite l'economista Piero Sraffa, sul
tema del linguaggio e i suoi usi
di Franco Lo Piparo
In
una nota scritta negli anni 1939-40 Wittgenstein tracciò un sintetico e
penetrante ritratto del proprio stile filosofico usando un'immagine
botanica. Si considerava, più che un seme da cui si forma una nuova
pianta, un terreno particolarmente fecondo, capace di far crescere e
sviluppare in maniera inedita semi provenienti da altri terreni. «La mia
originalità (ammesso che questa sia la parola giusta) è, credo, una
originalità del terreno, non del seme. (Io forse non ho un seme
proprio). Getta un seme nel mio terreno e crescerà in modo diverso che
in qualsiasi altro terreno». Non è dato sapere a chi pensasse. I semi
gramsciani che Sraffa gettò nel terreno di Wittgenstein negli anni che
vanno dal 1930 agli anni quaranta del secolo scorso si adattano bene a
questa immagine. Fu, del resto, lo stesso Wittgenstein che, ricorrendo a
un'altra immagine botanica, paragonò il proprio stato mentale, dopo le
chiacchierate filosofiche con Sraffa, a «un albero al quale fossero
stati tagliati tutti i rami». Il libro racconta la storia della
inseminazione gramsciana della mente di Wittgenstein tramite
l'economista italiano Piero Sraffa. Non vuole fare di Wittgenstein un
filosofo gramsciano né di Gramsci un filosofo wittgensteiniano. Gramsci e
Wittgenstein sono due grandi e autonome personalità teoriche, due
giganti direi, e ciascuno insegue i propri problemi teorici. A noi
interessa qui portare alla luce un imprevisto canale di interazione
intellettuale tra il carcere e le cliniche italiane da una parte, la
grande Università di Cambridge dall'altra. È un nuovo capitolo, finora
non studiato, della storia culturale europea. Siamo all'inizio di un
percorso. Riletture di documenti noti e nuove ricerche d'archivio
potrebbero in futuro riservare sorprese. Perché proprio Gramsci, da
tutti conosciuto come il politico fatto arrestare da Mussolini in quanto
esponente di spicco del Partito comunista? Il segretario del Partito
comunista italiano come fonte robusta di un'opera unanimemente
considerata un classico della filosofia, le Ricerche filosofiche? Stiamo
per proporre, nostro malgrado, la riedizione del triste modello «Lenin o
Stalin e l'arte, Lenin o Stalin e la biologia, Lenin o Stalin e la
meccanica quantistica, Lenin o Stalin e la linguistica, eccetera»? Il
libro dà una risposta che risulterà scandalosa ad alcuni studiosi:
Gramsci fu anzitutto un grande intellettuale, votato alla filosofia
della politica e del linguaggio, che solo per otto anni (1919-26) fu
totus politicus, probabilmente anche con pochi poteri reali. Perfino
Mussolini, nel discorso parlamentare del 1° dicembre 1921 ne parla come
«professore di ec onomia e filosofia, un cervello indubbiamente
potente». Il professor Gramsci non è incompatibile col compagno Gramsci.
È però il tratto prevalente grazie al quale leggiamo i Quaderni per
ricevere indicazioni su come orientarci nel grande e complicato mondo
contemporaneo. In carcere, e poi nelle cliniche, lo studioso Gramsci
riprese für ewig il progetto, interrotto per otto anni, di una ricerca
scientifica ruotante su due poli complementari: il potere nelle sue
varie articolazioni e il linguaggio. Prima di iniziare le nostre analisi
e ricostruzioni un dato va posto in primo piano. Gramsci e Wittgenstein
condividevano la stessa passione filosofica per il linguaggio, i suoi
usi, il suo funzionamento, la sua non accessoria presenza in tutte le
attività che rendono specifico l'animale umano. Entrambi sono guidati
dall'idea che col concorso ineliminabile del linguaggio si formino le
pratiche e i problemi di cui l'esistere umano, individuale e/o
collettivo, è intessuto. Interrogare il linguaggio non è quindi, per
entrambi, affare di una categoria di specialisti. Il teologo,
l'epistemologo, il matematico, lo storico, il teorico del potere
politico e delle società maneggiano manufatti linguistici e in essi e
con essi vanno alla ricerca dei segreti che si propongono di esplorare.
Il linguaggio, con i suoi poteri ma anche i suoi limiti, è per entrambi i
pensatori la pratica da cui è impossibile prescindere. Il linguaggio è
il luogo della specificità umana sia per il primo che per il secondo
Wittgenstein, per l'autore del Tractatus e per l'autore delle Ricerche.
Lo è anche per il Gramsci «giovane compagno, filosofo e glottologo», per
il Gramsci che ricopre cariche politiche, per il Gramsci dei Quaderni.
10 June 2014
pubblicato nell'edizione Nazionale
(pagina 17)
nella sezione "Speciali"
In principio era la praxis
di Francesco Raparelli
Virtù e limiti de Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere di Franco Lo Piparo
Raramente
capita di leggere un testo di filosofia con la passione instancabile
con cui si legge un giallo: è il caso dell’ultimo saggio di Franco Lo
Piparo, Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere (Donzelli 2014, 18 euro). Lo stile investigativo aveva già fatto la sua comparsa ne I due carceri di Gramsci (2012) e L’enigma del quaderno
(2013), ma solo in quest’ultimo lavoro all’originale e a volte
discutibile ricostruzione biografica si accompagna una parte filosofica
tanto densa quanto potente.
Lo Piparo riprende e sviluppa una tesi di Amartya Sen: Gramsci fu l’ispiratore inconsapevole delle Ricerche filosofiche,
l’opera a cui Wittgenstein dedica tanta parte della sua vita e che
definisce una vera e propria svolta nel suo pensiero – oltre a essere
opera che segna in modo dirompente il secolo appena trascorso e ancora
il nostro presente. Il «traghettatore»? Piero Sraffa, l’economista
italiano che, nello stesso tempo, insegna a Cambridge – e lì discute
assiduamente con Wittgenstein – e intrattiene con Gramsci un rapporto
continuativo durante gli anni del carcere, poi durante la sua (di
Gramsci) permanenza nella clinica Cusumano di Formia e Quisisana di
Roma.
Attraverso una puntigliosa ricognizione
tra le lettere, Lo Piparo svela il ruolo decisivo di Sraffa: conosce
bene, e in tempo reale, le ricerche che Gramsci sta conducendo nella sua
cella di Turi, anzi, ne sollecita lo svolgimento. Altrettanto, la
frequentazione intellettuale tra Sraffa e Wittgenstein è tutt’altro che
marginale; a ricordarlo, in modo inconfondibile, le parole che
Wittgenstein dedica all’amico nella Prefazione delle Ricerche.
La tesi di Lo Piparo dunque è più radicale di quella di Sen: non è il
Gramsci di Torino e de «L’Ordine nuovo» quello che Sraffa consegna a
Wittgenstein nei seminari e nelle ripetute conversazioni di Cambridge,
ma quello intento nella scrittura dei Quaderni. Di più: nel
confronto serrato che Sraffa intraprende con Gramsci ormai fuori dal
carcere, l’economista gli sottopone problemi teorici che assillano
Wittgenstein e i seminari della svolta, quelli degli anni 1933-1934 e
1935-1936 (seminari stenografati e poi raccolti nel Blue Book e nel Brown Book). Un indizio tra i più convincenti? Nella primavera del 1935 Gramsci scrive d’un fiato il Quaderno 29, quello dedicato alla grammatica; nel 1936 Wittgenstein porta a compimento la prima stesura delle Ricerche filosofiche. Forse più di una semplice coincidenza.
Quali sono i temi che testimoniano
l’indiretta frequentazione intellettuale tra Gramsci e Wittgenstein e,
nel farlo, sostengono l’originale tesi di Lo Piparo? Un «grappolo di
concetti»: uso, regola, istituzione, praxis, gioco linguistico,
forma di vita. Per entrambi, infatti, il senso di una proposizione o di
una parola dipende dall’impiego che se ne fa. Così è per Gramsci critico
di Croce («Questa tavola rotonda è quadrata»), così per Wittgenstein polemico con i logici e il suo Tractatus («Ma l’eguale senso delle proposizioni non consiste nel loro eguale impiego?»).
E la nozione di ‘uso’ – o impiego o funzione – viene subito declinata
al plurale: gli usi sono «molteplici», «eterogenei», «innumerevoli». Non
c’è uso, però, senza regola, senza tecnica. In questo senso parlare una
lingua (fare uso di una lingua e, attraverso di essa, della propria
facoltà di linguaggio) equivale a «seguire una regola» o a padroneggiare
una tecnica. Altrettanto, vale la pena prestare attenzione alla
preziosa precisazione di Lo Piparo: «è l’uso a stabilire la regola e non
la regola a determinare l’uso». L’uso si presenta come «fenomeno
originario», ma se uso allora regola e, passaggio fondamentale, se
regola allora istituzioni («non si può seguire una regola ‘privatim‘»).
A partire dal linguaggio si afferra l’umano come animale istituzionale,
di conseguenza animale naturalmente artificiale, storico.
Giunti a questo punto, il lavoro di Lo
Piparo si fa tanto potente quanto problematico. Come fece già con
Aristotele, in un testo importante di qualche anno fa (Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua,
Laterza 2005), Lo Piparo torna all’originale, in questo caso il testo
tedesco di Wittgenstein, per scovare elementi decisivi occultati dalle
traduzioni più in voga. Non pare cosa marginale a Lo Piparo, e come
dargli torto, che Wittgenstein utilizzi il termine praxis, quello stesso assai caro a Gramsci. Concetto imparentato con altre due decisive nozioni delle Ricerche:
«gioco linguistico» e «forma di vita». La svolta di Wittgenstein è
ormai piena: «chiamerò ‘gioco linguistico’ anche tutto l’insieme
costituito dal linguaggio e dalle attività di cui è intessuto»; «la
parola ‘gioco linguistico’ è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare
un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita». Svolta –
e qui il mio accordo con l’autore è massimo – che Lo Piparo non si
limita a definire «antropologica», ma che qualifica anche come
«storicistica». D’altronde il testo di Wittgenstein è fin troppo chiaro:
«questa molteplicità [tipi di impiego di segni, parole, proposizioni]
non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di
linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e
altri invecchiano e vengono dimenticati»; in Della certezza, «il
gioco linguistico cambia col tempo». Storicità degli usi e delle regole,
storicità dei giochi linguistici, storicità delle forme di vita.
Con la nozione di praxis,
dunque, il linguaggio perde la sua autonomia e si disloca, secondo la
metafora tessile dell’intreccio, nell’attività. Scrive Lo Piparo:
«pratiche verbali e non verbali formano un tessuto co-articolato e
unitario, ossia una forma di vita». Questa la svolta di Wittgenstein, fin qui i meriti del libro di Lo Piparo.
Più problematico il riferimento a Gramsci. Non solo perché non convince l’affondo biografico: Gramsci professore mancato, totus politicus
per un numero assai ridotto di anni, marginale nel partito anche prima
del carcere. Di più: “libero” (dalla politica) in carcere perché
finalmente dedito alla ricerca «disinteressata» e «für ewig». Una
ricostruzione con qualche forzatura di troppo che dimentica il Gramsci
radicalmente operaista, quello che prende appunti ai cancelli delle
fabbriche, quello del «biennio rosso» e de «L’Ordine nuovo», il Gramsci
convintamente leninista e soviettista.
Il problema più significativo, però, è a mio avviso un altro: Lo Piparo omette il rapporto, decisivo nei Quaderni,
tra Gramsci e Marx. Un «ritorno a Marx» che intende liberare il
rivoluzionario di Treviri e lo stesso Gramsci dall’idealismo italico,
come dal materialismo volgare di Bucharin, dall’involuzione sovietica e
staliniana, dal Pci di Togliatti. Non è casuale che, per qualificare la
nozione di ‘filosofia della praxis‘ (locuzione che risale a Labriola, 1897), Gramsci si dedichi a tradurre le Tesi su Feuerbach ‒ tradotte prima di lui da Gentile nel 1899 ‒ e alcuni brani della Prefazione a Per la critica dell’economia politica. Filosofia della praxis
è un nuovo modo di qualificare il materialismo storico, tentando di
riempire quel vuoto teorico da Marx mai del tutto colmato: la
connessione costitutiva, senza alcuna gerarchia possibile, tra
produzione e linguaggio, rapporti di produzione e istituzioni politiche,
lavoro e apparati ideologici. Questo Gramsci che con Marx pensa oltre
Marx e che usa Marx per farla finita con lo stalinismo, dunque non il
Gramsci professore e liberale, è stato vittima, anche dopo la sua morte,
di un «secondo carcere»: il togliattismo e il socialismo all’italiana
(il nazional-popolare, l’interesse generale e molto altro).
Proprio oggi che massima è la coincidenza tra produzione e linguaggio (e semiotiche a-significanti), tra moneta e speech act,
e oggi che con Renzi e la svolta thatcheriana del Pd anche solo il
ricordo di quel secondo carcere è stato completamente sommerso, è
possibile tornare al materialismo storico gramsciano e, con Lo Piparo,
conquistare il materialismo storico di Wittgenstein. Una grande
occasione.
Recensione tratta da: http://www.lumproject.org/?p=1406
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