Negli
anni di piombo agosto fu il mese delle stragi: Bologna (2 agosto
1980) con 85 morti e il treno Italicus a S. Benedetto Val di Sambro
(4 agosto 1974) con 12 morti. Lo scopo era creare il terrore colpendo
i treni nel periodo di massimo afflusso dei passeggeri. Una strategia
mirata a creare il caos e a porre le premesse di un golpe che
fermasse lo scivolamento a sinistra del Paese. Un progetto che aveva
radici antiche. Una storia che inizia dal 1945 come risulta da questo
articolo, ripreso dalla rivista dell'ANPI di Savona, di cui oggi
pubblichiamo la prima parte.
Giorgio Amico
“La guerra non era finita”. Il
dopoguerra e il movimento partigiano.
1. Da Giorgio Pisanò a
Giampaolo Pansa: “il sangue dei vinti”, storia di una menzogna.
In principio era stato
Giorgio Pisanò, ex-tenente delle brigate nere catturato (e graziato)
dai partigiani il 28 aprile 1945, a descrivere il primo dopoguerra
come un'orgia di sangue in cui i vincitori si erano accaniti sui
repubblichini vinti e ormai inermi. Agli inizi degli anni Sessanta
Pisanò pubblica una serie di libri (Il vero volto
della guerra civile, Sangue chiama sangue, La generazione che non si
è arresa, Storia della guerra civile in Italia) rivolgendosi a un
pubblico che va molto al di là dei limitati ambienti neofascisti ed
ex-repubblichini.
Sono
gli anni in cui il MSI cerca di uscire dall'isolamento e di
presentarsi come affidabile argine anticomunista a un'Italia moderata
spaventata dalle riforme del primo centrosinistra. Un' area di
“benpensanti” che votano DC, ma sono ancora tentati da nostalgie
monarchiche e populiste, di conservatori passati attraverso
l'esperienza de L'uomo qualunque, di “liberali” all'italiana
lettori dei libri di Guareschi e del settimanale Candido.
I libri di Pisanò si
rivolgono a loro e presentano un dopoguerra da incubo in cui il
Partito comunista imperverserebbe al Nord consumando una
lunghissima serie di omicidi politici
finalizzati, oltre che alla vendetta sui vinti, a seminare il terrore
fra i borghesi per facilitare l'instaurazione di un regime sovietico.
Una lettura allucinata della storia recente d'Italia che, oltre ad
assolvere i fascisti dai loro crimini, alimenta risentimenti, odi e
paure. Espressione di un anticomunismo delirante che dietro le lotte
operaie (che proprio dal 1962 riprendono a crescere) e l'avanzata
elettorale del PCI vede fare capolino l'ombra minacciosa dei carri
armati russi. Paure e fobie che ritroveremo, ancora più virulente,
dopo il '68 e l'autunno caldo, a sostanziare politicamente e
socialmente la stagione buia delle stragi e delle minacce di golpe.
Ma negli anni Sessanta
questo primo tentativo di revisione storica sostanzialmente fallisce,
proprio per l'impetuosa crescita democratica e civile del Paese che
non offre spazi di massa a nostalgie reazionarie. I libri di Pisanò
circolano solo in ambito missino e nell'indifferenza generale.
Nessuno studioso serio li riprende, nessun giornale importante li
pubblicizza. Difficile persino trovarli in libreria.
Tutto cambia negli anni
Novanta. Il crollo dei partiti della prima Repubblica e lo
sdoganamento dei fascisti ad opera di Berlusconi facilitato anche da
improvvide aperture di esponenti di sinistra (esemplari in questo
senso le dichiarazioni dell'allora Presidente della Camera Violante)
mutano radicalmente i termini della questione. Per la prima volta
nella storia dell'Italia repubblicana non ci si vergogna più a
dichiararsi di destra. La cosiddetta “maggioranza silenziosa”,
che fino ad allora si era manifestata solo nel segreto del seggio,
esce allo scoperto e riempie le piazze sotto le bandiere di Forza
Italia e della Lega.
Nel riflusso generale
delle lotte e nella crisi (identitaria prima che politica) della
sinistra l'auto-narrazione neofascista sul “sangue dei vinti”
trova finalmente modo di affermarsi presso il grande pubblico.
Ripresa e rilanciata da Giampaolo Pansa che, dopo aver fatto carriera
fiancheggiando la sinistra (e il PCI) si è riconvertito al nuovo
verbo berlusconiano, trova finalmente un auditorio di massa
acquistando autorevolezza e consenso.
Le tesi di Pansa (persino
più volgari di quelle di Pisanò al quale si deve perlomeno
riconoscere una indubbia coerenza personale e politica) conquistano
in poco tempo (grazie anche a un tam tam mediatico impressionante da
parte dei giornali e delle tv berlusconiane) le prime pagine dei
quotidiani, diventano argomento dei talk show televisivi, alimentano
una forsennata campagna anticomunista che ha come veri obiettivi la
svalutazione della Resistenza come atto fondante la Repubblica
democratica e la modifica in senso autoritario e verticistico della
stessa Carta costituzionale.
Un nuovo e più insidioso
tentativo di revisionare la storia secondo un'ideologia rozzamente
anticomunista che, al di là della sua assoluta inconsistenza
storiografica (Pansa non aggiunge nulla di nuovo in
termini di documenti e testimonianze a quanto già conosciuto),
rende impossibile una lettura realistica del dopoguerra
italiano e delle sue complessità, a partire proprio dai temi
scomodi (ma reali almeno fino al 1948) della militarizzazione
della politica e della violenza.
Lettura tentata invece
con esiti assolutamente interessanti da alcuni giovani studiosi le
cui opere, disponibili da qualche mese in libreria, offrono un quadro
preciso e non ideologico della estrema complessità della situazione
politica italiana (ed europea) nei primi anni del dopoguerra. Ci
riferiamo in particolare a “Il continente selvaggio” dello
storico inglese Keith Lowe, e ai libri di due giovani ricercatori
italiani: “Le altre Gladio” di Giacomo Pacini e “La guerra non
era finita” di Francesco Trento.
2. Il continente selvaggio. L'Europa
alla fine della seconda guerra mondiale.
Tesi centrale dei
neofascisti prima e dei revisionisti oggi è che in Italia per tutti
gli anni Quaranta ci sarebbe stata una violenza politica diffusa e
persistente, espressione lucidamente programmata della “doppiezza”
togliattiana di un PCI che, pur muovendosi nell'ambito delle
istituzioni democratiche, non ha realmente rinunciato al sogno della
presa violenta del potere e che a questo fine mantiene apparati e
strutture armate e segrete. Un partito che dirige organizzativamente
e gestisce politicamente la violenza di frange estremiste (il
“triangolo della morte” emiliano, gli omicidi della Volante rossa
milanese e della cosiddetta “pistola silenziosa” a Savona, ecc)
per regolare conti, intimidire gli avversari, acquisire potere e
fonti di finanziamento. Il tutto utilizzando strutture e metodi
affinati negli anni di una guerra partigiana ridotta, secondo questa
lettura criminalizzante, a un'unica lunga sequenza di omicidi, rapine
e stupri. Esemplare a questo proposito è l'ultimo libro di Pansa,
Bella ciao. Controstoria della Resistenza, da qualche mese in
libreria.
Inutile dire che le cose
stanno in maniera molto diversa. Non tanto a livello di fatti, che la
violenza fu come vedremo effettivamente diffusa e persistente in
Italia e nel resto d'Europa, quanto per le linee interpretative. Non
c'è dubbio che quelli del primo dopoguerra siano stati anni
incredibilmente feroci, inimmaginabili oggi. Come dimostra il libro
(uscito in Inghilterra nel 2012 e da poco tradotto) di un giovane
studioso inglese, Keith Lowe, che analizza minuziosamente per 500
pagine la situazione caotica e violentissima di un'Europa uscita a
pezzi dalla guerra. (Keith Lowe, Il continente selvaggio, Laterza
2014, 25 euro).
Scrive Lowe:
“Un conflitto di così
vaste proporzioni quale era stata la seconda guerra mondiale, con
tutti i focolai di contese civili minori che inglobava, non poteva
arrestarsi di colpo, e ci vollero mesi, se non anni, perchè
terminasse, e la fine arrivò a tappe, in momenti diversi nelle
diverse parti d'Europa. (…) in Francia, per la maggior parte dei
civili, finì (…) nell'autunno del 1944. In alcune parti
dell'Europa orientale, al contrario, la violenza proseguì a lungo
(…). Le guerre civili, inizialmente accese dalle mene naziste,
continuarono a imperversare in Grecia, in Iugoslavia e in Polonia per
parecchi anni dopo che la guerra principale era finita; e in Ucraina
e negli Stati baltici i partigiani nazionalisti continuarono a
combattere le truppe sovietiche fino ad anni Cinquanta inoltrati”.
Il problema è se dietro
questa violenza diffusa esistesse un progetto politico complessivo
finalizzato alla presa violenta del potere da parte di partiti
comunisti eterodiretti di Mosca. Lowe dedica un intero capitolo del
suo libro alla situazione in Italia e Francia, i paesi occidentali
con i più forti partiti comunisti, proprio per verificare questa
ipotesi. Per il nostro paese vengono presi in esame i fatti accaduti
nel cosiddetto “triangolo della morte” emiliano. Le conclusioni
dello storico inglese non lasciano margine a dubbi:
“Va sottolineato –
scrive – che tutte le storie sopra citate sono episodiche, e non
configurano una cospirazione comunista per impadronirsi del potere a
livello nazionale (…): in realtà (…) i vertici del Partito
comunista fecero del loro meglio per controllare le fazioni più
violente delle sue frange estreme. Essi capivano benissimo – cosa
che non facevano alcuni dei militanti – che (…) non esistevano le
condizioni oggettive per la rivoluzione”.
Sintetizzando possiamo
concludere che si riconosce l'esistenza in Italia almeno fino alle
elezioni del 1948 e all'attentato a Togliatti di una violenza
politica endemica, ma come conseguenza in larga parte inevitabile
dello stato di confusione e anarchia tipico della crisi del
dopoguerra e delle difficoltà ad uscire dalle tragedie vissute (la
dittatura fascista e la guerra prima, la guerra civile poi) dal
popolo italiano soprattutto al Nord.
Dunque nessuna strategia
rivoluzionaria programmata e guidata dall'alto (i vertici del PCI),
ma al contrario una situazione liquida abilmente sfruttata da chi nel
quadro di una guerra fredda ormai apertamente dispiegata intendeva
mantenere i lavoratori (e le loro organizzazioni politiche e
sindacali) in uno stato di minorità e di marginalità. Lowe lo
definisce “un clamoroso tentativo di intimidazione” del movimento
operaio e popolare.
“Il governo italiano –
scrive - lanciò un programma di misure anticomuniste per cui
sindacalisti, ex partigiani e membri del Partito comunista furono
arrestati in massa. (…) Dei 90-95.000 comunisti ed ex partigiani
arrestati fra l'autunno del 1948 e il 1951, solo 19.000 andarono
sotto processo, e solo 7000 furono trovati colpevoli di qualche
reato; gli altri furono trattenuti per periodi variabili in «custodia
preventiva». Furono i militanti più ostinati, e soprattutto gli ex
partigiani, a essere trattati con la massima durezza. Dei 1697 ex
partigiani arrestati fra il 1948 e il 1954, 884 furono condannati a
un totale di 5806 anni di galera. (…) Certo è che questo «processo
alla Resistenza» fu molto più severo di quanto non fosse mai stata
l'epurazione dei fascisti. Il messaggio era chiaro: gli «eroi» del
1945, che avevano liberato il Nord d'Italia dal governo fascista,
erano diventati alla fine il nuovo nemico”.
Continua
vergogna, assassini!
RispondiEliminapaolo marin