In questo blog ci siamo più volte soffermati a parlare di FESTE POPOLARI. Oggi riprendiamo, da un sito sardo che seguiamo con simpatia, un discorso su cui torneremo: la falsa tolleranza della Chiesa Cattolica nei confronti delle più genuine espressioni popolari utilizzata, machiavellicamente, al fine di catechizzare le masse incolte.
Sandra Mereu
Chiesa e feste popolari in Sardegna
Nei mesi scorsi, su questo blog, si è parlato approfonditamente di una gara poetica svoltasi a Sestu nel 1930¹: una cantada che si è tramandata nella memoria popolare dei sestesi, oltre che per il suo valore artistico, anche per motivi di natura politica. Si dice infatti che i cantadoris, conclusa la disputa, vennero fermati e portati in caserma.
Ci si domanda oggi: per quale motivo ciò avvenne? Il testo non contiene infatti elementi tali da poter essere interpretati come una critica esplicita al potere politico. Sarebbe stato, questo, un motivo più che plausibile per un’azione di quel genere da parte dell’autorità di pubblica sicurezza. Come è noto, sotto il regime fascista, non era tollerata alcuna forma di contestazione e dissenso. Bastava una battuta irriverente o che potesse suonare come ingiuria verso il Duce e si veniva prontamente arrestati. Accadeva continuamente in quegli anni e accadde anche a Sestu. Nel maggio del 1940 il bracciante Giuseppe Spiga, classe 1910, fu arrestato per “frase oltraggiosa all’indirizzo del Duce” e assegnato al confino per 3 anni. Gli fu poi commutata la pena in ammonizione nel febbraio 1941 (L’antifascismo in Sardegna, a cura di M. Brigaglia, 2. ed. 2008).
Tornando alla gara poetica del 1930,
è possibile che un testo che a noi oggi appare innocuo, ai fruitori
dell’epoca, che possedevano le chiavi interpretative dei codici propri
di quel genere poetico, potesse comunicare sotto metafora messaggi
inequivocabili. Nel caso specifico il riferimento all’imperatore
Diocleziano sarebbe servito al poeta improvvisatore Loddo per creare
un’identificazione con il Duce e quindi per rivolgere a quest’ultimo
indirettamente l’accusa di viltà. Una simile interpretazione del verso
è verosimile ma allo stesso tempo opinabile. I classici, la Bibbia,
personaggi storici del passato, costituivano il repertorio tipico delle
cantate sarde. E’ facile immaginare che, su queste basi, qualunque
immagine evocata dai poeti improvvisatori avrebbe potuto offrire,
all’occorrenza, un pretesto per contestazioni e censure da parte delle
autorità. L’interpretazione in un senso o in un altro dipendeva dunque
dal contesto politico e sociale.
A prescindere da cosa accadde veramente a Sestu, in quel lontano 23 aprile del 1930 ai tre cantadoris, è
certo che in quegli anni il clima nei confronti delle gare poetiche
fosse tutt’altro che favorevole. Lo dimostra un recente libro di Antonio Addis, Chiesa e feste popolari in Sardegna – 1924-1945 (Edes 2014),
che contiene un’indagine basata quasi esclusivamente su documenti
inediti conservati in archivi ecclesiastici e su articoli pubblicati in
giornali cattolici dell’epoca. Il libro offre dunque una ricostruzione
di parte, come di parte è lo stesso autore, un sacerdote di Nulvi. Ma
proprio per questo rappresenta sul tema una testimonianza inedita di
estremo interesse.
Nel 1926 entrarono in vigore in tutta l’isola le leggi del Concilio Plenario Sardo.
Tra gli obiettivi vi era quello di favorire il rinnovamento e
l’aggiornamento dello stile di vita cristiano. L’assemblea dei vescovi
sardi vedeva infatti nella religiosità popolare sarda il persistere di
elementi paganeggianti, grumi di superstizione e forme di culto
esteriore che nelle feste religiose avevano la loro più diretta
manifestazione. Vennero pertanto adottate una serie di misure tese a
riportare le feste religiose sotto il diretto e stretto controllo della
Chiesa. Si trattava infatti di norme che limitavano fortemente
l’autonomia dei comitati e individuavano nelle gare poetiche (art. 9)
una delle forme della cultura popolare da colpire più duramente. Queste
leggi rappresentavano il punto di approdo di un atteggiamento ostile
verso le feste popolari che già negli anni precedenti aveva avuto modo
di palesarsi attraverso i giornali cattolici. In ultima istanza i
vescovi puntavano alla riduzione delle feste religiose e parallelamente
all’imposizione di un programma esclusivamente religioso.
Per far accettare ai sardi il nuovo corso,
improntato al rigorismo e all’autoritarismo, i vescovi ricorrevano al
sempre attuale argomento della “sobrietà”, giustificato dalla necessità
di porre un freno alle spese superflue e di “concorrere al risanamento
della patria economia” stremata dalla guerra. Gli argomenti erano quelli
tipici dei pauperisti di tutti i tempi: “Il fatto che mentre da un
lato migliaia e migliaia di disoccupati (basta consultare le statistiche
ufficiali) attendono ansiosamente che il lavoro ritorni, apportatore di
benessere e di letizia – scriveva L’Ortobene nel novembre del 1931 -, dall’altro
migliaia e migliaia di cittadini sembrano invasati dalla mania
godereccia (siamo ancora nell’epoca delle feste, delle sagre, delle gite
e dei balli)“. Si chiedeva cioè alla maggioranza dei sardi, che
già conduceva una vita grama, di fatica e privazioni, di rinunciare
anche a un po’ di evasione e svago, “alla possibilità – scrive Antonio Addis – di
godere di qualche giornata ricreativa e spensierata, di trovare momenti
di sollievo e di distrazione, di socializzare in allegria per
interrompere di tanto in tanto la penosa situazione di solitudine e di
sofferenza che accompagnava l’esistenza quotidiana“. Secondo questa
logica, gli strati sociali più poveri devono farsi carico, con
ulteriori sacrifici e rinunce, di crisi economiche non hanno certo
provocato loro, mentre più in alto pochi privilegiati danzano,
banchettano, bevono e ballano al riparo da contraccolpi e fiduciosi per
il futuro.
“Le feste dei santi - riconosce Antonio Addis – rappresentavano,
a quei tempi, per le popolazioni sarde, soprattutto dei paesi, le rare e
quasi uniche occasioni comunitarie di un diversivo. L’associazione del
divertimento alle festività religiose non era in Sardegna una
coincidenza casuale, e tantomeno un abbinamento forzato. Era, se
vogliamo, da tempi assai remoti, il frutto di una connessione naturale,
di un legame intoccabile, quasi sacro perché proveniente, anche se
alterato, dall’originaria concezione cristiana di festa.”
Nondimeno
le gare poetiche, che costituivano l’attrattiva principale della festa,
erano una tradizione molto radicata nel popolo. La gara era – scrive
Addis – una “vera e, per molti del volgo illetterato, unica scuola popolare” e nel contempo
“un intrattenimento completo, ricco anche di colpi di scena… Le masse
si entusiasmavano, gustando l’erudizione dei cantori e la melodia del
canto, la musicalità dei vocalizzi corali del contra, del mesu oghe e
del basciu, che in sottofondo dettavano il ritmo e gli intervalli nella
composizione dei versi, l’arte e al bellezza, il gioco e l’abilità
dialettica“.
A quei tempi la Chiesa sarda la pensava però in modo
diametralmente opposto. In vari passaggi delle lettere dei vescovi sardi
riportate nel libro, i poeti improvvisatori venivano considerati
ignoranti e rozzi e le gare poetiche giudicate blasfeme, immorali e
licenziose. Per questa ragione, dopo aver inutilmente tentato di
disciplinarle, nel 1932 adottano l’estrema decisione di proibirle.
Non sempre e non dappertutto
questo grave provvedimento – inviso all’opinione pubblica e avversato
in vario modo – venne applicato. Ma le testimonianze contenute nel libro
dimostrano con quanta determinazione la Chiesa sarda, prima e più
fermamente del potere politico fascista, cercò di estirpare, per motivi
legati alla morale religiosa, antiche e radicate forme della cultura
popolare quali erano appunto le gare poetiche.
Sandra Mereu
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1. Vedi sull’argomento i contributi di Vittoriano Pili: “IL LIBRETTO RITROVATO”; “GARA POETICA SVOLTASI A SESTU IL 23.4.1930 – ANALISI DEL TESTO (1° GIRO)”; “GARA POETICA SVOLTASI A SESTU IL 23.4.1930 – ANALISI DEL TESTO (2° E 3°GIRO)”; “GARA POETICA SVOLTASI A SESTU IL 23.4.1930 – “COMMENTO AL 3° GIRO E DIALOGO SULLA “COBERTANTZA”.
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