Angelo d'Orsi con il suo ultimo libro su Gramsci
Il prossimo sabato, 7 ottobre 2017 alle ore 18, all' Istituto Gramsci Siciliano di Palermo verrà presentata la nuova biografia di Antonio Gramsci scritta da Angelo D' Orsi.
Per prepararci all'incontro con lo studioso torinese riproponiamo di seguito una sua recente intervista pubblicata su Micromega:
intervista ad Angelo d’Orsi di Francesca Chiarotto
È un libro traboccante di passione, come e più di ogni altro libro di Angelo d’Orsi, per il quale. Gramsci è l’autore di riferimento di tutta “la vita degli studi” e non solo. Pur essendosi occupato prevalentemente degli “anni torinesi”, qui D’Orsi copre l’intera biografia gramsciana, ricostruendone il “ritmo del pensiero in isviluppo” senza trascurare i contesti storici e i dibattiti politici e storiografici.
L’ultima biografia gramsciana risale al 1966 ed è firmata dal sardo Giuseppe Fiori. Non c’è dubbio quindi che le successive acquisizioni documentarie suggerissero la necessità di un “aggiornamento”. In che senso la sua si può considerare una “nuova” biografia, come dichiara il sottotitolo del libro?
Una volta premesso che il sottotitolo è stato fortemente voluto dall’Editore (io avevo semplicemente proposto “Una biografia”), bisogna precisare che non è solo il dato temporale (il mezzo secolo trascorso dal lavoro di Fiori) ad avermi indotto a riscrivere la biografia di Antonio Gramsci. Quella di Fiori era una biografia, un’ottima biografia, con dei limiti evidenti, dati dalla pervasiva e insistita “sardità” su cui si articola largamente il lavoro: il che implicava da una parte un’eccellente ricerca per gli anni trascorsi nell’Isola, da Gramsci (1891-1911), il primo ventennio di vita, favorita dalla presenza in vita di molti dei familiari, dei compagni di scuola, degli amici di Antonio, che Fiori poté intervistare; dall’altro una debolezza complessiva per i successivi periodi, dal 1911 alla morte, nel ’37. Ma la “sardità” in qualche modo ha fatto velo all’attitudine scientifica, facendo molto spesso prevalere l’empatia sulla critica, inficiando, in parte, il lavoro dell’autore. In secondo luogo il libro di Fiori è, appunto, una biografia, nel senso proprio: il racconto della vita, con i limiti che ho accennato, al di là della enorme massa di acquisizioni documentarie e di elaborazioni critiche che si sono accumulate nel corso degli anni. A me interessava fare un lavoro diverso: una biografia che fosse insieme una monografia, in certo senso. Ho raccontato la vita di Gramsci, naturalmente, ma nel contempo ho collocato le sue diverse fasi (ne ho individuato cinque, piuttosto distinte le une dalle altre) nei contesti territoriali, innanzi tutto, con i diversi aspetti: economia, società, politica, cultura. In secondo luogo ho ricostruito il progressivo delinearsi della fisionomia intellettuale del nostro personaggio, ma altresì, specialmente, l’emergere di un pensiero politico, via via più autonomo dai pur numerosissimi influssi ricevuti, da tante, differenti fonti, da Croce a Marx, da Machiavelli a Lenin...; e naturalmente, il definirsi dell’azione politica. E ho cercato di cogliere (non so in quale misura ci sia riuscito) le relazioni tra questi vari elementi; le vicende biografiche, i contesti ambientali, le influenze culturali, il pensiero e l’azione politica. In altri termini ho voluto far emergere l’uomo intero, nelle sue passioni, nelle sue debolezze, nella sua straordinaria, ciclopica forza morale, nella elaborazione teorico-ideologica, e nell’azione politica. In questo senso, se il lavoro è riuscito, non ho timore di affermare che si tratta di una “nuova biografia”, non soltanto nel senso che è una biografia che mira a sostituire quella di Fiori, ma una “biografia nuova”, che consente, per la prima volta, una riconsiderazione complessiva di Antonio Gramsci, alla luce di nuove acquisizioni documentarie, e di tante riletture del pensiero. Ma trattandosi, come dicevo, anche di una “monografia”, il mio libro contiene una interpretazione personale, credo piuttosto diversa da quelle correnti. Ma qui mi fermo, per non togliere all’eventuale lettore il gusto della scoperta…
Lei è lo studioso che prima e più di ogni altro ha evidenziato l’importanza decisiva del periodo torinese, nella delineazione della fisionomia intellettuale e, in fondo anche politica, di Antonio Gramsci, insistendo su una linea interpretativa che è quella di valorizzare il “giovane” Gramsci, e non considerare quel periodo (che va fino alla " “Quaderni”) semplicemente come una lunga “preparazione” del “vero” Gramsci. Lei è stato anche il primo a studiare, documenti alla mano, il “garzonato universitario”, definendo Gramsci “Lo studente che non divenne dottore” in un saggio di molti anni or sono. Vuole ricapitolare il significato della interrotta carriera accademica di Gramsci?
In effetti sono molti anni che mi batto contro la lettura teleologica del pensiero gramsciano, come se il vero Gramsci fosse quello del carcere. Un punto di vista sotteso anche al preziosissimo Dizionario Gramsciano curato da Guido Liguori e Pasquale Voza, che si riferisce agli anni successivi al 1926, ossia dopo l’arresto (Carocci 2008). E non c’è dubbio che prima del carcere il periodo torinese sia quello più importante: non avremmo Gramsci per quello che lo conosciamo, senza Torino, e non avremmo forse neppure Torino, per quanto la possiamo comprendere, senza Gramsci. L’Università di Torino era all’epoca una delle principali del Regno, sicuramente almeno per gli insegnamenti Medicina e di Giurisprudenza. Ho cercato di sottolineare i limiti e i pregi di quell’ateneo, dove peraltro il giovane Gramsci era iscritto alla Facoltà di Filosofia e Lettere, sostenendo, tra il 1911 e il 1915, ossia il quadriennio di corso, soltanto 8 esami, ma frequentando, irregolarmente, da studente curioso e appassionato, insegnamenti di altre Facoltà. Senza esagerare, credo di aver ragione a sostenere che pur senza concludere formalmente il percorso universitario, quello “studente che non divenne dottore”, seppe raccogliere il meglio (ciò che definisco “la cultura positiva”: la cultura del rigore, dello studio accurato dei fenomeni sociali e politici, della ricerca delle cause), e lasciar cadere il resto: l’erudizione, il filologismo esasperato, una concezione stantia dell’insegnamento, con le sue connessioni politiche. Fu implacabile critico, con una verve polemica eccezionale, dei cattivi maestri – sul piano scientifico, che quasi sempre coincideva col piano politico – e ammiratore (altrettanto critico) dei buoni maestri, sapendo tuttavia distinguere, comunque, tra i due piani. Il linguista Matteo Bartoli e l’italianista Umberto Cosmo furono probabilmente coloro dai quali ricevé di più, anche se altri docenti, della sua o di altre Facoltà, entrarono nel percorso formativo, da Annibale Pastore ad Arturo Farinelli, a Lettere, da Francesco Ruffini a Luigi Einaudi, a Giurisprudenza. Nel libro, come da molti anni a questa parte in una congerie di articoli, saggi, e volumi, ho cercato di fare, dedico notevole spazio a queste tematiche, ritenendole di fondamentale importanza.
Lei mette in evidenza anche gli altri elementi decisivi del decennio “sotto la Mole” (1911-1922), di cui sottolinea l’importanza determinante, anche e forse più dell’esperienza universitaria, costruendo un insieme in cui a ben vedere i vari elementi si toccano e si sostengono gli uni con gli altri.
Sì, a Torino, il ventenne giunto dalla Sardegna, una volta superato lo choc ambientale, si integrò perfettamente, facendo di quella città all’inizio apparsagli fredda e ostile, la “sua” città. Scopre, innanzi tutto, sotto la Mole, la realtà industriale, la “civiltà dei produttori” che comprende la complessa realtà della fabbrica, con la sua articolata organizzazione interna, e ne è affascinato. Una realtà concreta che però non è soltanto quella della struttura, ma è prima di tutto quella di chi nella fabbrica vive e lotta e soffre, lavoratori e anche, in certa misura, imprenditori. Ma Gramsci – ed è credo la prima volta che ciò accade nel mondo socialista – si avvicina alla vita della classe operaia, “uomini di carne e ossa”, in un processo empatico di integrazione ideale. Nelle celeberrime tre frasi che compaiono sulla testata dell’Ordine Nuovo, va fatto risaltare quell’aggettivo possessivo: “nostra intelligenza… nostro entusiasmo… nostra forza”: vuole sentirsi parte della classe. Infine, Torino rappresenta il socialismo inteso non soltanto come idealità, ma come organizzazione, e come comunità solidale di uomini e donne. Il Partito sarà la sua nuova famiglia, a partire dal 1913. E questo consentirà un miglioramento delle sue relazioni con la famiglia vera, in Sardegna. Ma, in fondo, Gramsci non sarà mai “un uomo di partito”: conserverà sempre, gelosamente, i suoi spazi di intimità, la sua volontà e capacità di guardare fuori del recinto, di trovare altrove fette di vita. L’empatia è un dato fondamentale in Gramsci. La sua umanità non è riducibile mai a ragioni di partito.
Restando a Torino. In un altro suo bel libro (1917. L’anno della Rivoluzione; Laterza 2016), lei definisce Torino la “Pietrogrado d’Italia”, facendo riferimento in particolare all’episodio dello sciopero del pane, dell’agosto 1917, ma anche agli avvenimenti successivi, del “Biennio Rosso”. Quell’episodio appare significativo per valutare la posizione del Partito Socialista in quella fase. Si può ritenere che il “peccato” di “torinocentrismo”, di cui Gramsci è stato da lei “accusato”, faccia riferimento anche a questi episodi? Qual era il suo rapporto con gli operai “in carne e ossa”?
Lo sciopero dell’agosto ’17 fu la più importante manifestazione di dissenso avvenuta nelle città delle nazioni coinvolte nel conflitto, a parte ovviamente la Russia, dove Pietrogrado divenne un nome simbolo dopo la prima rivoluzione, quella di marzo (ma era già diventata tale,, in parte, nel 1905 dopo la rivoluzione fallita), e tanto più lo fu dopo il novembre. “A Torino mancava un Lenin”, ho scritto nel libro, riferendomi a quell’agosto, e mancava anche un partito, in grado di indirizzare gli avvenimenti e guidare l’azione delle masse. Il PSI era un partito diviso, frammentato, anzi si può dire che fossero due partiti, se non tre, che coesistevano difficoltosamente sotto quella sigla. Quanto a Gramsci era lontano dall’essere un leader, e neppure con la fondazione del PCd’I lo divenne: fu solo il Comintern, in fondo, a partire dal ’22 che lo sponsorizzò come capo del Partito italiano. Certo dall’agosto ’17 in avanti Torino, capitale industriale e operaia, fu per Gramsci la possibile capitale della possibile rivoluzione: ma l’Italia non era Torino, e anche a Torino gli operai rivoluzionari erano soltanto una parte della cittadinanza, una parte minoritaria, benché combattiva e capace di trascinare al suo fianco altre forze. L’opzione rivoluzionaria, come si vide nell’aprile e nel settembre del ’20 rimase un’opzione che non trovava il sostegno del Partito e del Sindacato socialista (la CGdL). Il tal senso c’è, mi pare, un difetto di strabismo, in Gramsci, dove sembra almeno in questa fase che la volontà prevalga sull’analisi. Anche in questo va sottolineata l’empatia a cui accennavo prima. Credo sia stato il primo caso di un dirigente del movimento socialista che vada a incontrare gli operai, cercando la loro umanità, nel tentativo prima di conoscerli da vicino, di penetrare nelle loro vite, poi persino di apprendere da loro: “vado a scuola dalla classe operaia” era la frase con cui replicava ai compagni al giornale (Avanti! o L’Ordine Nuovo) che protestavano per il tempo che “perdeva” a ricevere gente durante il lavoro: era per Gramsci un modo di fare politica e di fare pedagogia, bilaterale.
In che senso quello gramsciano è “un giornalismo di tipo nuovo”?
Anche nel giornalismo Gramsci si distingue dalla tradizione socialista, e anarchica. Rifiuta come elementare e in fondo sbagliata la propaganda; alla propaganda avversaria, delle classi dominanti, è troppo facile, ma inefficace rispondere con una contropropaganda. Occorre uscire dalla chiacchiera e passare alla scienza, in sostanza; occorre studiare accuratamente le questioni, sostiene, prima di parlare. La “Scuola di Torino”, la “cultura positiva”, hanno trovato in lui un fervido interprete. Il suo giornalismo rifugge dalle semplificazioni, e mira a elevare il lettore, non ad appiattirsi su di esso: il giornalismo integrale, teorizzato nei Quaderni, in certo senso crea il proprio pubblico. Mi pare una frase chiara ed esaustiva.
Lo “scoop” delle relazioni con le tre sorelle Schucht (Giulia, Tatiana ed Eugenia) ha riempito per qualche giorno le pagine dei giornali. Può chiarire questi rapporti, che lei definisce “ambigui”?
In sintesi estrema, per l’idea che mi sono fatta, possiamo dire che Gramsci scopre l’amore in Russia, anche se ha avuto una piccola love story con una compagna ai tempi dell’Ordine Nuovo, ossia Pia Carena, che divenne poi la moglie di Alfonso Leonetti. Delle tre sorelle Schucht la prima che egli incontrò, Eugenia, fu un amore forse prima intellettuale e politico, anche se il versante fisico fu presente e non irrilevante. Mentre per Giulia fu mi pare amore a prima vista. Alla forza di Eugenia corrisponde la debolezza di Giulia, che più tardi avrebbe dato anche segni di psicolabilità, il che non toglie che anche Eugenia, nel tentativo, in parte riuscito non solo di condizionare le relazioni della sorella con Antonio, ma persino di sottrarre a Giulia i figli (vi riuscì, in modo piuttosto serio, con il primogenito Delio). Solo che per un certo tempo, non lungo peraltro, Antonio coltivò, molto probabilmente, una doppia relazione, poi finita, a vantaggio di Giulia. Eugenia non glielo perdonò mai. E si vendicò in ogni modo possibile, anche screditandolo agli occhi dei genitori. Infine, Tatiana; la “buona Tatiana”come la chiama egli stesso, che gli fu fedele compagna e amica, vero angelo custode già prima del carcere, dal ’25 in avanti, una donna che, credo l’amasse sinceramente, e alla fine avanzo l’ipotesi che Antonio stesso ricambiasse il sentimento, anche se che è impastato di gratitudine, di riconoscenza, di intimità psicologica, e mai fisica.
L’arresto, i tentativi di liberazione, la stesura dei Quaderni (e il loro numero), i “privilegi” di cui avrebbe goduto, e altre questioni che sono sempre nelle pagine dei giornali, più che nella discussione storiografica. Qual è la sua posizione su questo?
Ho affrontato tutte le questioni della polemica pubblica, storiografica giornalistica e politica, in un apposito volume “Inchiesta su Gramsci” (Accademia University Press, Torino 2014). La mia “biografia”, che detto in esordio, non è solo una biografia, ha evitato di entrare di nuovo nelle polemiche: le cose da dire erano tante, e ho dovuto già sacrificarne molte (l’editore mi ha costretto a tagliare oltre 50 pagine), e non intendevo sprecare neppure una riga del testo per polemiche quasi sempre sciocche o scopertamente pretestuose, con un fondo ideologico assai marcato. Le ho perciò relegata in nota, con cenni telegrafici. In sintesi estrema: Gramsci cadde nella rete della polizia fascista per una sottovalutazione da parte degli apparati del PCd’I dei pericoli della situazione, ma anche per una ingenua fiducia che persisteva nella dirigenza, Gramsci compreso, nelle garanzie dello Stato liberale. I tentativi di liberazione furono sempre sostenuti dal Partito e dal Comintern, e anche dal governo russo e fallirono sempre, inequivocabilmente, per il “niet” di Mussolini, che mirava a piegare il prigioniero. Il quale non godè affatto di condizioni di privilegio in carcere, e anche in clinica dove era comunque sottoposto a stretta sorveglianza, checché ne abbia scritto recentemente qualcuno. E se riuscì comunque a lavorare, fino a un certo momento (inizio ’35, quando smise di vergare le note dei Quaderni pur proseguendo nella corrispondenza, che ovviamente implica uno sforzo mentale assai più contenuto. Il che ci conferma che i Quaderni sono 33, poiché una delle spiegazioni che sono state fornite per sostenere la tesi bislacca del “Quaderno mancante” è appunto relativa al silenzio di Gramsci dopo la primavera del ‘35), lo si dovette alla sua tenacia, alla sua volontà, alla sua forza mentale e persino fisica, anche se seguendo l’epistolario si assiste alla lenta implacabile decadenza del corpo, di cui il recluso è dolorosamente consapevole, e di cui fornisce un esame quasi asettico nelle lettere alla cognata Tania. Infine, il rapporto con Togliatti: erano temperamenti assai diversi, e per certi aspetti contrapposti. Gramsci fu sempre un intellettuale prestato alla politica, che non smise di credere nel lavoro culturale (coerentemente con l’impostazione che emerge fin dal gennaio 1916, con un articolo oggi famoso, Socialismo e cultura) ed ebbe una concezione etica dell’agire politico, fortemente segnata dalla sua ossessione pedagogica da una parte, e dalla passione per la verità dall’altra. Togliatti fu totus politicus, anche se con una formazione da intellettuale di primissimo ordine. Lo scambio di lettere dell’ottobre ’26 mette in luce queste differenze, che non vanno sottovalutate, ma di qua a fare di Togliatti un nemico di Gramsci ce ne corre.
Credo, onestamente, di aver fornito una ricostruzione complessiva equilibrata, cercando di tenermi al di fuori e al di sopra delle polemiche.
Come sintetizzerebbe la sua interpretazione complessiva di Gramsci?
Ritengo che Gramsci abbia attraversato il marxismo, provvisto di un bagaglio assai vasto e composito, che rileva della sua onnivora curiosità, fin dai tempi giovanili: si è nutrito di letture le più diverse, dalla triviallitteratur alle riviste fiorentine d’inizio secolo, da Croce a Bergson, da Sorel ai pragmatisti americani, e così via. Tutto questo ritornerà nella elaborazione dei Quaderni, che peraltro vanno sempre letti avendo sotto mano le lettere, che possono quasi essere considerati un quaderno aggiuntivo: il famoso “quaderno scomparso”, o quanto meno un complemento e insieme uno strumento per meglio penetrare nello Zibaldone dei Quaderni. Il suo marxismo è originale fin dagli inizi, come dimostrano articoli quali La rivoluzione contro il Capitale del dicembre 1917 o Il nostro Marx del maggio 1918. Seguì poi la fase di bolscevizzazione, negli anni Venti, dove tuttavia l’adesione fu sempre materiata di spirito critico, lontano dalle tentazioni dogmatiche, e dal settarismo (di Bordiga, per esempio, con cui ebbe uno scontro fondamentale, che però egli cercò di scongiurare, data la sua mistica dell’unità, che animò sempre il suo pensiero). Già prima dell’arresto, con la vicenda dello scambio di lettere con Togliatti nell’ottobre ’26, egli era tuttavia attestato su una posizione di forte critica rispetto agli avvenimenti in seno al partito russo.
Nella riflessione successiva, in modo comunque cauto, egli prima si allontanò dal marxismo-leninismo, poi ne iniziò una critica profonda, anche se condizionata, oggettivamente dalle limitate informazioni da un canto, e dal timore della censura dall’altra. Infine, egli cominciò ad allargare il campo del marxismo, mettendo a punto una nuova teoria nell’ambito di quel movimento teorico e storico, aggiungendo e correggendo lo stesso Marx, alla luce non solo della sua capacità di cogliere la modernità nel secolo nuovo, ma altresì della sua tensione a superare ogni gabbia. Le categorie che Gramsci mette a punto, a partire dalla esperienza diretta di attore politico, ma anche dallo studio, della storia, in particolare (in tal senso nel libro stabilisco un forte nesso tra Gramsci e Machiavelli) oggi sono un patrimonio condiviso da gramsciani e non gramsciani. Egemonia, guerra di posizione e di movimento, rivoluzione passiva, blocco storico, gruppi subalterni, Stato allargato, cesarismo progressivo e regressivo, nazionale-popolare eccetera costituiscono un vero e proprio dizionario per intendere la modernità, nei suoi nessi col passato e nelle sue potenzialità future.
Tra qualche decennio, azzardo, si riconoscerà ad Antonio Gramsci non solo di aver dato vita a una nuova teoria generale del marxismo, ma a un nuovo filone di pensiero nella storia dell’umanità.
13 luglio 2017 Articolo ripreso da http://temi.repubblica.it/micromega-online/angelo-d-orsi-antonio-gramsci-una-nuova-biografia/
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