Ghost in the Machine. Pasolini oltre il mito
di Andrea Cortellessa
Non è un caso, credo, che quasi tutte le
cose più interessanti lette su Pasolini, in questi anni, le abbiano
scritte studiosi italiani sì, ma che lavorano fuori. Penso ai libri di
Manuele Gragnolati, che ora è tra Berlino e Parigi (Amor che move, uscito dal Saggiatore nel 2013), o di Emanuela Patti, che lavora a Birmingham (Pasolini after Dante, Legenda 2016). Con numerate eccezioni, al suo nome più che un’opera si lega da noi – a partire dall’«atrocissimo fait divers»
dell’Idroscalo di Ostia, come lo definì Contini – un culto: un culto
funebre, come quelli demartiniani che suscitavano il suo contrastato
interesse. E che di lui ha fatto un «mito», come già nel 2005 doveva
constatare Walter Siti: una vera e propria macchina mitologica – per dirla con Furio Jesi – che, dal fait divers
in avanti (sintomatico che di PPP, nel paese degli anniversari, si
celebri sempre la morte e mai la nascita), si alimenta sempre più di
speculazioni, rivendicazioni, autoattribuzioni.
Non so se pensasse al cadavere ancora
caldo di Pasolini (col quale invano aveva tentato di mettersi in
relazione) Elvio Fachinelli, quando nel ’78 scriveva pagine sferzanti
dal titolo Cultura e necrofagia (le ha raccolte Dario Borso nella bella antologia di suoi scritti politici uscita l’anno scorso da DeriveApprodi, Al cuore delle cose): come nei «gruppi arcaici», nel nostro modo d’interpretare la cultura «un gruppo di morti-viventi» continua a «svolgere una funzione normativa». E in effetti, ancora oggi, non c’è morto vivente quanto Pasolini. Un vero zombi,
ha scritto non senza esasperazione qualche anno fa il giovane poeta e
studioso Gian Maria Annovi: «da più parti e spesso a sproposito, in una
specie di esercizio negromantico, una sorta di rito da santeria molto
postmoderna, si parla a Pasolini, o lo si vorrebbe far parlare da morto
come se fosse vivo: “Cosa direbbe oggi PPP?”». In altri termini, proprio
Pasolini – che questo bon mot di Giorgio Pasquali aveva fatto suo in Uccellacci e uccellini
– non riusciamo a mangiarlo «in salsa piccante», come invece si deve
fare coi maestri (e come invocava Marco Belpoliti, nel 2010, nel suo Pasolini in salsa piccante
appunto), al fine di metabolizzarne davvero l’insegnamento. Non
riusciamo ancora a nutrirci dell’opera di Pasolini, impegnati come siamo
a divorare il suo corpo insepolto.
La condizione del fuori,
ovviamente non solo geografica, Annovi (nato a Reggio Emilia nel 1978,
un dottorato a Bologna, da più d’un decennio negli Stati Uniti; insegna
ora a Los Angeles) l’ha trattata non solo come saggista ma soprattutto
come autore, in libri che della nostra giovane poesia sono già piccoli
classici, come Italics e La scolta
(entrambi del 2013). La sua formazione s’incentra su autori come
Zanzotto e Rosselli (della quale ha tradotto – sesto grado se ce n’è uno
– Impromptu, Guernica Editions 2014), ma anche sui poeti della neoavanguardia (importante l’antologia di Antonio Porta, Piercing the Page,
Otis Books-Seismicity 2012); sicché a qualcuno potrà apparire
sorprendente il suo interesse per Pasolini: ma solo da noi, appunto,
dove inerti perdurano steccati risalenti a più di mezzo secolo fa.
Laddove naturale dovrebbe essere, viceversa, considerare quest’autore
per quello che è e per il contesto in cui ha vissuto e operato.
Il libro innovativo che gli ha dedicato Annovi, Pier Paolo Pasolini. Performing Authorship
(Columbia University Press, pp. 272, $ 60), fa esattamente questo:
concentrandosi su una serie di gesti e movenze autoriali, fra anni
Sessanta e Settanta, nei quali colui che si era definito «una forza del
passato» (ma anche «più moderno di ogni moderno») davvero ci appare in
linea col suo tempo: non tanto con la letteratura contemporanea bensì
con le sperimentazioni delle arti visive, del teatro, ovviamente del
cinema. Proprio la sequenza della Ricotta in cui un regista
(interpretato da Orson Welles, ma con la voce di Giorgio Bassani…) legge
quei versi, mentre mette in scena la passione di Cristo in uno
squillante technicolor d’après Pontormo, è fra le più
ambivalenti di Pasolini: tanto che, del suo cinema, è stata in assoluto
la più imitata (per lo più equivocandola), dai postmodernisti delle
generazioni seguenti. A rendere così esemplare l’atteggiamento di
Pasolini per i postmoderni sono da un lato la pervasività della sua presenza fisica, della funzione-autore nella sua opera cioè, e dall’altro la sua passione per la componente originaria dell’esperienza e della cultura (al limite in una declinazione “barbarica”, fauve) commista alla più spregiudicata curiosità sperimentale
(anche in senso tecnico, formalistico). È la sintesi di questi due
estremi, sempre acrobatica e talora davvero forzata, a comporre il
vettore del manierismo di Pasolini (che per lui, nei versi della Guinea, «è realismo»): unica possibile cifra unificante, seppure per definizione instabile, della sua traiettoria.
E sono proprio questi gli aspetti che le
sempre acuminate analisi testuali di Annovi più mettono in luce,
all’interno dello sterminato opus pasoliniano. Nella produzione per la scena viene messa a fuoco la componente metateatrale di Calderón (e la sua “funzione Velázquez”, con la ripresa del gioco di specchi delle Meninas, in Che cosa sono le nuvole?);
nel cinema di Pasolini oggi più studiato (i corto- e mediometraggi) il
suo culto per le star usate in chiave “pop” (come Marilyn Monroe nella Rabbia
– in parallelo all’uso che ne faceva un artista a Pasolini legato da
mutuo, ambivalente interesse come Andy Warhol –, ma tale è pure Welles
nella Ricotta, e da un certo punto in avanti lo stesso Pasolini, certo…), ma anche la presenza della sua voice off, che evoca in absentia il corpo dell’autore altrove inserito nella rappresentazione (l’allievo di Giotto nel Decameron e non solo); l’ossessione per l’autoritratto nella sua produzione pittorica (non un violon d’Ingres,
bensì l’origine stessa di ogni sua pulsione figurativa, e figurale), ma
anche il suo sguardo ancora una volta ambivalente nei confronti
dell’astrazione (messa in scena in un cruciale episodio di Teorema) e della performance: la partecipazione, negli ultimi mesi di vita, all’installazione dell’amico Fabio Mauri, Intellettuale
(consistente nel proiettare sul corpo stesso di Pasolini, sullo
“schermo” della sua camicia bianca nell’oscurità, le immagini del Vangelo secondo Matteo), e al servizio fotografico di Dino Pedriali alla Torre di Chia (nel quale il suo diviene un doppio corpo,
spiato e insieme esposto, nella cornice di uno schermo di vetro come in
un quadro dell’amato Bacon), denotano la sempre più consapevole
intenzione, da parte di Pasolini, di usare se stesso, in forma più o
meno esplicitamente “spettrale”, come tela e insieme pennello. Così nel
meno incasellabile dei suoi libri, La Divina Mimesis, e nello stesso Petrolio:
opere entrambe presentate dall’autore – al di là dell’effettivo grado
di compiutezza – come fallimenti, o residui, di una progettualità
letteraria che a quell’altezza si dirigeva, ormai, oltre lo spazio
tradizionale della pagina.
Per questo, più degli scrittori
paralizzati dalla liturgia, sono stati gli artisti visivi a guardare
spregiudicatamente alla sua lezione. Ogni volta rischiando di
sconciarla, certo: ma solo così mettendosi nelle condizioni di metterla
davvero a frutto. Il libro di Annovi comincia e si conclude con due
delle tante opere a Pasolini dedicate, dal 2000 a oggi, da Elisabetta
Benassi: che in Timecode porta a spasso in moto un body-double di PPP, così rifacendo una scena di Mamma Roma, e in Alfa Romeo GT Veloce 1975-2007 lo evoca invece a sua volta in absentia
mettendo in scena l’automobile suo feticcio e, insieme, strumento del
suo eccidio. All’altezza del ’63 Warhol dichiarava, com’è noto, di voler
«essere una macchina»; Pasolini, troppo umano, non avrebbe mai detto
qualcosa del genere. Eppure in una macchina, dopo la sua morte, è stato
trasformato. Se «PPP» è il nome della Macchina mitologica che ha
usurpato la sua opera, per fare ad essa ritorno si dovrà ricominciare,
forse, proprio da chi – con giusta crudeltà “concettuale” – ha provato a
mangiarlo una buona volta in forma piccante. Rappresentandolo, appunto,
come una macchina.
15 ottobre 2017
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