Ignazio, il plurinquisito
Massimo Firpo
Nell’opinione
corrente, anche tra persone di alta cultura, i gesuiti sono un
potente ordine religioso nato nel Cinquecento, quando la Chiesa di
Roma stentava a trovare una via d’uscita dalla drammatica crisi
politica e religiosa di cui la Riforma protestante era stata un
sintomo più che una causa. Un ordine destinato a diventare il
baluardo più solido della Controriforma, dell’autorità papale,
dell’obbedienza «perinde ac cadaver»,
del rigore teologico, dell’impegno missionario nei continenti
extraeuropei così come nelle «Indie di casa nostra», del
rinnovamento culturale alla base di modelli educativi di grande
successo nell’istruzione delle classi dominanti.
In
realtà così non fu, anche se già negli ultimi decenni del secolo
la Compagnia si avviò per la strada che l’avrebbe portata a
conquistare i suoi grandi successi e raggiungere quel potere che
avrebbe infine indotto le monarchie borboniche a chiederne e
ottenerne l’abolizione da parte di papa Clemente XIV nel 1773.
Le
cose appaiono alquanto diverse, infatti, se si volge lo sguardo ai
primi decenni della storia gesuitica, dopo la formale approvazione
dell’ordine nel 1540, anche se è impresa tutt’altro che facile,
poiché la Compagnia quale sarebbe infine diventata non avrebbe
mancato di proiettare i propri esiti anche sulle proprie origini,
selezionando le fonti e cancellando quelle che avrebbero potuto
offrire un’immagine dissonante. Ovviamente votata all’apologia
del proprio ordine quale strumento privilegiato di cui la divina
provvidenza si era servita per salvare la Chiesa dal baratro in cui
stava precipitando, la storiografia gesuitica si sforzò di far
perdere le tracce più autentiche del passato che intendeva
celebrare. È dunque sui frammenti residui, sugli scampoli di
documentazione sfuggiti a questo processo di rivisitazione storica,
che Guido Mongini ha potuto basarsi per ricomporre il puzzle di
un’identità rimossa, decostruirne le «maschere» e gettare luce
sul «mito identitario» costruito dai primi gesuiti, e quindi su ciò
che realmente essi furono o intesero essere, a cominciare dal loro
carismatico fondatore, Ignazio di Loyola (Maschere
dell’identità. Alle origini della Compagnia di Gesù ,
Edizioni di storia e letteratura, Roma, 2017)
Non
tutti sanno che nel suo viaggio dalla Spagna a Roma il futuro santo
subì ben otto processi inquisitoriali, motivati dal sospetto che
nella sua dottrina e in quegli Esercizi spirituali così emotivamente
coinvolgenti che egli promuoveva tra i suoi discepoli, chierici e
laici, uomini e donne, si celasse il germe dell’eresia spagnola per
eccellenza, l’alumbradismo,
che insegnava a scrutare nella propria coscienza e ascoltarne la voce
come voce di Dio, ad attendere la sua rivelazione interiore, a
percepirne la luce che illumina il cuore degli uomini ben più della
parola biblica o del magistero ecclesiastico. Non è necessario
insistere sui rischi di spiritualismo e soggettivismo religioso
impliciti in una tale concezione, che tuttavia insegnava anche a
obbedire alle norme esteriori e alle autorità costituite,
salvaguardando però dentro di sé l’autentica conoscenza dei
«secretos de Dios» per servirsene ad maiorem Dei gloriam
con le arti della flessibilità, della prudenza, della discretio
spirituum, della discreta
charidad, dell’adeguamento a
tempi e circostanze, della doppia verità se si vuole. In fondo, per
strano che possa sembrare, quel probabilismo gesuitico in cui un
secolo dopo i giansenisti scorgeranno l’esito di uno scandaloso
relativismo etico aveva una delle sue radici profonde (anche se ormai
inconsapevoli) in un’eresia radicale cinquecentesca. Tutto ciò
contribuisce anche a spiegare lo straordinario successo conseguito in
pochi anni da quello sparuto gruppo di chierici spagnoli e francesi
diventato ben presto un ordine religioso dotato di potenti fautori,
in grado di assumere un ruolo di primo piano al concilio di Trento
grazie al sapere teologico dei suoi membri, di inviarne altri alla
riconquista della Germania protestante, di fondare collegi e anche –
merita sottolinearlo – di ottenere l’appoggio di alcuni pontefici
per mettere un argine all’invadenza del Sant’Ufficio romano e
agire con metodi diversi rispetto all’intransigenza repressiva per
ricondurre gli eretici all’ovile cattolico.
Pur
con qualche ridondanza analitica e narrativa, Mongini si inoltra con
sagacia nella foresta bruciata delle prime fonti della Compagnia,
raccogliendone i frammenti superstiti per ricostruire la formazione
dell’identità collettiva dei primi gesuiti, il loro vivere se
stessi come i nuovi apostoli, come una «obra de Dios» che aveva
replicato la comunità dei primi discepoli di Cristo, la primitiva
Ecclesia; come una gerarchia elitaria, un’aristocrazia di perfetti,
addirittura un «cuerpo místico», che aveva trovato il proprio
carisma nei sospetti e nelle persecuzioni di cui era stato fatto
oggetto da parte di papi, frati e inquisitori e che, sotto la guida
di sant’Ignazio, presentato come alter Paulus,
aveva avuto il compito messianico di dar vita a una Chiesa rinnovata.
Ma a legittimare tutto ciò era proprio quel germe alumbrado,
spiritualista e intrinsecamente anomico che covava nei loro cuori e
nella loro storia, che donava loro «luz y claridad en el
entendimiento», ma doveva restare segreto, celato nelle pieghe degli
stessi documenti istituzionali ed esotericamente custodito dai
vertici dell’ordine cui solo una minoranza dei confratelli avrebbe
potuto avere accesso: di qui, forse, l’origine della professione
maggiore e del quarto voto di obbedienza assoluta al pontefice, che
ne sanciva il dovere supremo proprio mentre affidava l’ultima
scelta alla voce della coscienza.
Ne
scaturiva quindi una sorta di struttura iniziatica, come rivela anche
il costante uso di espressioni come «el nuestro modo de hablar» e
«el nuestro modo de proceder», che facevano appello a specifiche
forme e modalità di comunicazione, di comportamento, di azione mai
definite con chiarezza ma comprensibili nei loro contenuti impliciti
da parte dei confratelli cui ci si rivolgeva. Era, a ben vedere, una
sorta di nicodemismo o – se si vuole – di luterana libertà del
cristiano (entrambi insiti nell’eresia alumbrada), una libertas
spiritus, come insegnavano i
primi gesuiti, che si insediava nel mondo cattolico, dove gli stessi
vincoli di cautela che essa imponeva non avrebbe tardato a spegnerne
la consapevolezza e a renderne sempre più indecifrabili le
implicazioni radicali sullo sfondo del progressivo irrigidirsi delle
strutture di sorveglianza e repressione della Chiesa controriformista
e della sua ferrea ideologia autoritaria. Ma risalire a quelle radici
lontane, mai del tutto dimenticate, aiuta a capire la tenace durata e
forza della Compagnia anche dopo la sua soppressione e le nuove
energie capaci di produrre la sua rifondazione e poi di animarla dopo
l’esaurirsi della lunga fase dell’intransigentismo cattolico con
il concilio Vaticano II, fino allo scontro durissimo con Paolo VI e
poi Giovanni Paolo II, che indusse nel 1980 il preposito generale
Pedro Arrupe, per la prima volta nella storia, a presentare le sue
dimissioni. Una storia che ancora dura, dunque, una storia
sorprendente che questo libro dotto e intelligente aiuta a capire,
facendo tabula rasa di molti e consolidati luoghi comuni.
“Il
Sole 24 ore – Domenica”, 6 Agosto 2017
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