Nonostante le numerose
biografie pubblicate, la figura di Caravaggio continua a rimanere un
enigma, fatto di luci e di oscurità come è appunto la sua pittura,
e forse è questo uno dei motivi perché ne siamo così affascinati.
Massimo Ammaniti
L’infanzia del
pittore uccisa dalla peste
Chi è quel giovane uomo seduto a un tavolo di una taverna con aria cupa, occhi e capelli neri, sulle spalle un mantello scuro e una spada legata alla vita? Questa è la domanda che si poteva fare un avventore che entrava nella taverna che si trovava nelle vicinanze di via della Scrofa, in una zona di Roma fra piazza del Popolo e piazza Navona, a fine Cinquecento. Si trattava probabilmente di Caravaggio, non ancora artista famoso, come sarebbe stato successivamente ritratto dal pittore romano Ottavio Leoni che dipinse (le opere sono conservate a Firenze) una serie di artisti. Ma forse la testimonianza più appropriata è quella del suo barbiere Luca, che lo aveva osservato da vicino: «Un giovane tarchiato, barba nera non troppo folta, sopracciglia spesse… tutto vestito di nero» (Sandro Corradini, Maurizio Marini, The earliest account of Caravaggio in Rome , «Burlington Magazine», volume 140, pagine 25-28, 1998).
Su Caravaggio sono
state scritte innumerevoli biografie, negli anni successivi alla sua
morte, come ad esempio quella di Giulio Mancini, un medico senese che
incontrò e conobbe bene il pittore negli anni romani fra il 1595 e
il 1600. Una seconda biografia fu pubblicata nel 1642 da Giovanni
Baglione, un pittore rivale con cui c’era stato un rapporto
tempestoso e che addirittura accusò Caravaggio di aver pagato dei
sicari per ucciderlo (Sandro Corradini, Materiali per un processo,
documento 110,2-4. Novembre, 1606 , Roma 1993 op. cit. in Caravaggio
di Andrew Graham-Dixon, prima edizione Londra 2010). Forse nonostante
alcune informazioni rilevanti nella sua biografia, Baglione era
troppo coinvolto per fornire una storia attendibile del pittore
lombardo.
Dopo qualche decennio fu
pubblicata una nuova biografia di un antiquario e storico dell’arte,
Giovanni Pietro Bellori, che non aveva mai conosciuto Caravaggio, ma
che fu sedotto dalla novità tecniche della sua pittura, ma allo
stesso tempo atterrito dalle sue immagini crude che ritraevano la
povertà quotidiana e la violenza, come si coglie ad esempio nei
quadri dei martiri cristiani. A queste biografie se ne è aggiunta
una, scoperta recentemente, di Gaspare Celio, pubblicata pochi anni
dopo la morte del pittore, che spiegherebbe il motivo, sempre
sospettato, per il quale si era trasferito a Roma da Milano, ossia
l’uccisione di un suo compagno.
Nonostante tutte queste biografie, la figura di Caravaggio continua a rimanere un enigma, fatto di luci e di oscurità come è appunto la sua pittura, e forse è questo uno dei motivi perché ne siamo così affascinati.
Il suo genio è sicuramente intrecciato ai suoi comportamenti sregolati: ribaldo, suscettibile fino all’esasperazione, pronto sempre a sguainare la spada quando si sentiva oltraggiato, ma anche fondamentalmente legato a un forte senso religioso, come dimostra l’episodio avvenuto in Sicilia quando in una chiesa non accettò di prendere l’acqua santa perché — disse lui stesso — i suoi peccati erano mortali.
Cattura di Cristo
In tutte le biografie si fa sempre riferimento al suo carattere irascibile e incontrollabile e addirittura si è fatto ricorso a diagnosi psichiatriche come la psicopatia o la schizofrenia paranoide, ammesso che sia possibile etichettare i suoi comportamenti riferiti a un contesto sociale e culturale molto lontano da noi. Valga un esempio: Caravaggio si ostinava a portare con sé la spada e per questo motivo veniva fermato a Roma dai gendarmi e portato in carcere. In realtà Caravaggio non voleva rinunciare a questo privilegio riconosciuto ai nobili, ai gentiluomini e ai cavalieri, a cui lui riteneva di appartenere perché la famiglia della madre era imparentata con una piccola aristocrazia lombarda.
Ma per spiegare il suo carattere sarebbe meglio scavare nella sua infanzia, infatti Michelangelo, questo era il suo nome, perse il padre all’età di 6 anni e nel giro di poco tempo anche il nonno, la nonna e lo zio, tutti colpiti dalla peste che aveva piagato la città di Milano. È la peste di San Carlo, come la chiama Alessandro Manzoni nei Promessi sposi , che «aveva desolato una buona parte d’Italia, e in specie il milanese» cinquantatré anni prima di quella successiva raccontata nel romanzo, di cui serbiamo un ricordo indelebile che risale alla scuola media.
Si viveva in un clima da incubo in cui il
contagio si diffondeva nella popolazione e la peste mieteva ogni
giorno vittime e vittime, non una malattia ma una punizione divina,
che imponeva, secondo la severa volontà dell’arcivescovo di
Milano, Carlo Borromeo, pratiche di espiazione e di sacrificio. Con
la morte del padre la famiglia Merisi si trovò in ristrettezze
economiche con debiti e cause legali per cercare di difendere la
magra eredità e probabilmente il piccolo Michelangelo subì ripetuti
traumi che lasciarono segni profondi nel suo carattere. Questi
traumi, come la morte del padre e dei parenti durante l’epidemia
della peste, probabilmente rappresentarono momenti di cesura che
travolsero la continuità e il senso di sé della sua vita di
bambino.
Martirio di S. Orsola
Forse queste esperienze dell’infanzia riemergono trasfigurate nei suoi quadri; prendiamo ad esempio la drammatica Cattura di Cristo in cui si vede il volto attonito e atterrito di Cristo nel momento del suo arresto oppure Il martirio di Sant’Orsola , nel quale viene rappresentato e fissato il trauma violento che irrompe travolgendo la vita dei protagonisti. Forse la presenza in entrambi i quadri della figura dello stesso Caravaggio conferma ulteriormente il suo stretto legame emotivo con la scena a cui lui stesso assiste.
Vocazione di S. Matteo
Ma il trauma non è
solo disorientamento e terrore, può anche sollecitare un’esperienza
trasformativa che fa scoprire prospettive profondamente diverse, come
si può vedere nel quadro che si trova nella chiesa di San Luigi dei
Francesi La vocazione di San Matteo , nel quale la luce di Cristo,
ossia la grazia, irrompe nella taverna illuminando la figura di
Matteo che si converte. Forse la stessa pittura, a cui Michelangelo
si dedicò fin dai primi anni dell’adolescenza, rappresentò per
lui un’illuminazione con cui cercò di curare le proprie ferite
infantili.
Il Corriere della sera/La
Lettura – 8 settembre 2017
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