Il
profilo di un’autrice di culto, tesa tra poesia e contemplazione:
La perfezione di Cristina Campo
Andrea Zanni
“Cristina Campo, o della perfezione”
è il titolo della postfazione di Guido Ceronetti a Gli imperdonabili,
uno dei libri più densi e belli del Novecento italiano. Si potrebbe dire un
libro di saggi (“ma l’atroce parola saggistica non si avvicini con il suo
laccio accalappiacani”), ma, ancora meglio, un libro di prose poetiche, di cose
scritte. Cristina Campo non scrisse mai nè racconti nè romanzi; si spese,
invece, sempre ai margini del testo. Un modo di essere scrittrice profondamente
coerente con il suo essere donna.
Come “lavoratrice culturale” (descrizione
che avrebbe sicuramente odiato), Cristina ha scritto, tradotto, introdotto,
prefatto, spiegato: ha suggerito la pubblicazione di vari autori a varie case
editrici, lavorato per far conoscere idee, promuovere autori e tradizioni.
Esemplare, non a caso, il suo enorme sforzo per portare l’opera di Simone Weil
in Italia. In vita, ha pubblicato solo due libretti, più svariati articoli e
traduzioni, per diverse case editrici (Scheiwiller, Rusconi, Garzanti, Einaudi,
varie riviste) ma spesso con diversi pseudonimi o eteronimi: Puccio Quaratesi,
Bernardo Trevisano, Benedetto P. D’Angelo, Giusto Cabianca. Ovviamente, anche
Cristina Campo, il suo preferito. “Ha scritto poco, e le piacerebbe aver
scritto meno”, diceva di sé. Rimase nell’ombra, ma era sempre lì.
La vita
Cristina Campo nasce Vittoria Guerrini, nel 1923, a Bologna. Il padre è il Maestro Guido Guerrini, lo zio materno Vittorio Putti è ortopedico di fama internazionale, direttore al Rizzoli di Bologna. Vittoria nasce con un grave problema al cuore, all’epoca inoperabile, e che condizionerà pesantemente tutta la sua vita: non può giocare con gli altri bambini, non le permette di frequentare la scuola. È una bambina insieme delicatissima e impetuosa, piena di entusiasmi, intelligente, ma che si rompe in fretta. A volte deve semplicemente stare a letto per giorni, senza fare niente, con i genitori che ascoltano il ritmo del suo respiro per tutta la notte, in attesa di un’apnea minacciosa, di un respiro più incerto degli altri.
Cristina Campo nasce Vittoria Guerrini, nel 1923, a Bologna. Il padre è il Maestro Guido Guerrini, lo zio materno Vittorio Putti è ortopedico di fama internazionale, direttore al Rizzoli di Bologna. Vittoria nasce con un grave problema al cuore, all’epoca inoperabile, e che condizionerà pesantemente tutta la sua vita: non può giocare con gli altri bambini, non le permette di frequentare la scuola. È una bambina insieme delicatissima e impetuosa, piena di entusiasmi, intelligente, ma che si rompe in fretta. A volte deve semplicemente stare a letto per giorni, senza fare niente, con i genitori che ascoltano il ritmo del suo respiro per tutta la notte, in attesa di un’apnea minacciosa, di un respiro più incerto degli altri.
Seguendo gli incarichi del padre
(durante l’epoca fascista, compositore molto in vista) cambierà spesso casa:
prima Parma, poi gli anni giovanili a Firenze, mentre l’estate torna a Bologna
dallo zio Vittorio, nel grande parco dell’ospedale in cui ha trascorso la
propria infanzia. A causa della sua malattia, evita la scuola: viene educata
“da insegnanti geniali”, ma soprattutto si educa da sè. In pratica, Vittoria
legge moltissimo. Quasi tutto quello che vale la pena leggere, e in lingua
originale, perchè, come è noto, “i classici vanno letti nella loro lingua”:
inglese, francese, tedesco, spagnolo, latino. A nove o dieci anni, ha finito
tutte le fiabe e la storia sacra. Chiede al padre di lasciarle leggere qualche
libro della sua enorme biblioteca: “Di tutto questo, [non puoi leggere] nulla”
dice lui. “Questi sì, sono i russi. Troverai molto da soffrire, ma niente che
possa farti molto male”. Cristina diligentemente ubbidisce: legge, soffre,
impara.
A causa della sua malattia, Cristina Campo evita la scuola:
viene educata “da insegnanti geniali”, ma soprattutto si educa da sè.
Giovanissima, conosce perfettamente
tutti i classici: Shakespeare, Omero, Leopardi, Dante, Le mille e una notte, la
Bibbia. Ma il suo grande amore sono le fiabe, a cui dedicherà i suoi primi
scritti. Nelle fiabe (“questi evangeli che così leggermente ci dicono
moralità”) vede narrazioni sapienziali, piccoli riti d’iniziazione che per la
prima volta dischiudono l’universo dei simboli al lettore bambino. Facile
immaginare che per la bambina Vittoria, le fiabe fossero anche anche compagne e
antidoti alla solitudine e alla malattia.
Durante l’adolescenza, negli anni
della guerra, a Firenze, Vittoria conosce Anna Cavallotti. Anna è più piccola,
ma precocissima, di una serietà rara in una ragazza così giovane: come Vittoria
ama le lingue, anche lei è di salute cagionevole (soffriva di emicranie). Anna
è la sorella che Vittoria non ha mai avuto: rompe la teca di cristallo della
sua solitudine forzata, è un doppio vivo con cui parlare, con cui condividere
amori e passioni. Insieme, sognano un futuro da scrittrici, progettano riviste,
si confrontano come amiche e già come colleghe. Il 25 settembre del 1943, gli
americani bombardano senza preavviso la ferrovia di Campo di Marte. Anna e la
madre, che erano uscite per andare dal medico, alla sirena corrono pazzamente,
si rifugiano sotto un portone poco sicuro… Anna muore a soli diciott’anni.
Vittoria ne ha venti, e la piangerà tutta la vita. Scriveva Anna, qualche mese
prima di morire: “Un’esistenza, l’esatta divisione dell’aria. con la morte,
l’aria si unisce e si chiude di nuovo. Nessuno si dovrebbe accorgere della
differenza… io vorrei occupare poco posto”.
La perfezione
C’è un unico tema e un’unica ossessione, nella vita e negli scritti di Cristina Campo: la perfezione.
C’è un unico tema e un’unica ossessione, nella vita e negli scritti di Cristina Campo: la perfezione.
Posso immaginare un luminoso
trattato sulla vita dei funghi o sui nodi del tappeto persiano, la descrizione
accurata di un grande schermitore, una raccolta di lettere dal bel numero di
parole in bel rapporto tra di loro. […]
Meticolosa, speciosa, inflessibile
come tutti i veri visionari la poetessa Marianne Moore scrive un saggio sui
coltelli. […] Uno solo, comunque, è l’affar suo, la sua lode e il suo
salmo: l’ardua e meravigliosa perfezione, questa divina ingiuria da venerare
nella natura, da toccare nell’arte, da inventare gloriosamente nel quotidiano
contegno.
Secondo Cristina, la perfezione è
dappertutto, una bellezza celata nel reale che va dissotterrata, pulita e
osservata attentamente. La perfezione ha un’innata leggerezza, una naturalezza
(magari acquisita e soffertissima, ma sempre tale: facilement, facilement,
diceva Chopin) che lei defisce “sprezzatura”:
Sprezzatura è un ritmo morale, è la musica di una grazia
interiore; è il tempo, vorrei dire, nel quale si manifesta la compiuta libertà
di un destino, inflessibilmente misurata, tuttavia, su un’ascesi coperta. Due
versi la racchiudono, come un’astuccio l’anello: ‘Con lieve cuore, con lievi
mani, la vita prendere, la vita lasciare’.
Di fatto, tutti i pochi scritti di
Cristina Campo trattano, in un modo o nell’altro, del tema della perfezione,
che per lei aveva un senso estetico, etico e infine teologico. Valga come
prova l’incipit dell’introduzione a Detti e fatti dei padri del deserto (Rusconi,
1975):
I maestri cristiani del deserto fiorirono, esplosero in un
attimo che durò tre secoli, dal III al VI dopo Cristo. Da poco Costantino aveva
restituito ai cristiani il diritto di esistere, spezzando il dogma di Commodo –
Christianoùs me èinai, i cristiani non siano – e sottratto con dolcezza la
giovane religione al terreno meravigliosamente umido del martirio, alla
stagionatura incomparabile delle catacombe. Questo significava, evidentemente,
consegnarla a quel mortale pericolo che rimase tale per diciotto secoli:
l’accordo con il mondo.
Brano esemplare, perchè quasi tutti
i temi campiani sono presenti: il peso perfetto di ogni parola, la completa
dedizione al tema trattato, il disprezzo per tutto ciò che è mondano. Ogni sua
parola è tesa verso la perfezione, ma anche ogni sua amicizia, o amore, o
pensiero. È tesa: il lavoro e la vita di Cristina sono una continua
ascesi, un continuo travaglio per raggiungere una forma ideale. Verso i
trent’anni, smette di chiamarsi Vittoria e si battezza Cristina, perchè è lei
stessa fatta di parole, si trasfigura in ciò che vuole essere. Il suo amore per
la parola irrora (o avvelena) ogni fibra del suo essere: i suoi amori sono
tutti letterari (il grecista e germanista Leone Traverso, il poeta Mario Luzi,
l’intellettuale Elémire Zolla), ogni ora del giorno e della notte è dedicato,
in un qualche modo alla lotta con il testo, come Giacobbe con l’angelo.
Traduce Rilke, Morike, Emily Dickinson, Williams Carlos Williams (con Vittorio
Sereni), John Donne.
Si alza a mezzogiorno, lavora fino
all’alba (soffre d’insonnia). A suo modo – me la immagino sempre in penombra,
in appartamenti piccoli e pieni di carte, a Roma come a Firenze – compie solo lavoro
culturale, legge e fa leggere, traduce, scrive. Il suo corpo spesso non
regge la sua volontà di ferro, quasi tirannica, e nella lotta col testo lei
perde, il cuore le cede. È al tempo stesso fragile e ferrea. È dura con gli
altri (le sue relazioni, d’amore e d’amicizia, saranno sempre tempestose) e
soprattutto con sè stessa.
Nella sua passione (in senso
evangelico) per la perfezione, Cristina passa dalla fiaba alla poesia, per
approdare a quella che per lei era forma suprema (ergo, sostanza suprema), cioè
la forma liturgica del rito cristiano. Nella liturgia il tempo dell’uomo
è scandito dai salmi, cioè poesie in forma di preghiera (o il contrario, che è
lo stesso). Verso questo parola tre volte densa (poetica, musicale, teologica)
Cristina Campo ha travagliato tutta la vita. Le sue prose sono forme di letteratura
assoluta, cioè presuppongono un lettore perfetto, che sappia scandagliare il
testo in tutta la sua profondità, a tutti i livelli, intenda tutti i
riferimenti. Questo rende i suoi scritti (tutti) quasi verticali,
profondissimi, senza però, (e questo credo sia un miracolo) essere troppo
oscuri, incomprensibili.
Cristina non si legge facilmente, e
certamente non si possono si riconoscere tutti i rimandi di cui le sue prose
sono costellate: ma il suono della parola è lì, non si può non sentire. La
lingua è chiara, le parole sono scritte perchè gettino luce e non offuschino.
Cristina De Stefano, nella sua biografia intitolata Belinda e
il mostro (cioè La bella e la bestia), propone una teoria più
seducente, e forse più vera: l’indifferenza della Campo verso il lettore, il
suo chiedergli uno sforzo enorme per capire, deriva dal fatto che Cristina sa
che scrive per nessuno, perchè il suo lettore privilegiato non c’è più: la sua
amica Anna è morta. Due mesi dopo quella tragedia, Vittoria scriveva a suo
padre:
Papà non dubitare: scriverò,
scriverò bene.
Certo finora la giovinezza (starei
per dire l’infanzia, perchè fino a questo settembre io sono stata
assolutamente, integralmente nella piena infanzia, bambina dalla testa ai
piedi) lavorava per me, spingeva la mia mano sulla carta come il sangue nelle
vene. […] Forse la mia abitudine al soliloquio, quel modo di scrivere “a
chiave” che avevamo Anna ed io, scrivendo quasi sempre l’una per l’altra,
disorienta il lettore, anche il più fine ed attento…
Nella stessa lettera, aggiunge in
maniera profetica:
Ho tante cose da dire! Quasi direi da salvare: tutta la
tragica bellezza di ciò che è passato in noi e vicino a noi, cose che io sola
sento di aver visto e sentito fino alla sofferenza e che assolutamente non
devono morire. ‘Rapisci la luce dalle fauci del serpente’…
I libri
Editorialmente, Cristina Campo vivrà come autrice solo postuma, grazie alla riscoperta di Adelphi, che nell’87 pubblica Gli imperdonabili. Il libro è un’antologia degli scritti di Cristina, quasi un’opera omnia: riprende i soli libri da lei effettivamente pubblicati (Fiaba e mistero e Il flauto e il tappeto) ampliandoli con altri scritti ritrovati: saggi, introduzioni, articoli. A guardare in trasparenza la Biblioteca Adelphi, collana fra le più oscure e affascinanti dell’editoria italiana (o, ancora: la più bella in assoluto) si notano in filigrana autori e temi che si ricorrono: uno è Cristina Campo, al centro di una ragnatela di scrittori imperdonabili: Hugo von Hoffmansthal, Marianne Moore, Gottfried Benn, Simone Weil, Djuna Barnes, Jorge Luis Borges (“così sdegnoso di oggettiva realtà da rasentare la frigidezza del prisma”).
Editorialmente, Cristina Campo vivrà come autrice solo postuma, grazie alla riscoperta di Adelphi, che nell’87 pubblica Gli imperdonabili. Il libro è un’antologia degli scritti di Cristina, quasi un’opera omnia: riprende i soli libri da lei effettivamente pubblicati (Fiaba e mistero e Il flauto e il tappeto) ampliandoli con altri scritti ritrovati: saggi, introduzioni, articoli. A guardare in trasparenza la Biblioteca Adelphi, collana fra le più oscure e affascinanti dell’editoria italiana (o, ancora: la più bella in assoluto) si notano in filigrana autori e temi che si ricorrono: uno è Cristina Campo, al centro di una ragnatela di scrittori imperdonabili: Hugo von Hoffmansthal, Marianne Moore, Gottfried Benn, Simone Weil, Djuna Barnes, Jorge Luis Borges (“così sdegnoso di oggettiva realtà da rasentare la frigidezza del prisma”).
Sappiamo che Cristina ha frequentato
pochissimi salotti letterari, mentre era solitamente lei a creare cenacoli
selezionatissimi. A Roma, con Elémire Zolla, frequenta Guido Ceronetti, Pietro
Citati, Elena Croce, Mario Bortolotto, Rodolfo Wilcock, Giovanni Macchia,
Sergio Quinzio, Mario Praz. All’epoca, fra i più giovani, era presente anche un
ventenne Roberto Calasso. Discute e lavora occasionalmente con Bobi Bazlen e
Luciano Foà, allora segretario all’Einaudi. Bazlen era il leggendario
consulente editoriale che praticamente da solo definì le letture di mezzo
secolo di cultura italiana: insieme a Foà, nel ’63, fonderanno Adelphi (si dice
che siano loro due gli adelphoi del logo). Sono loro a chiamare il giovane
Calasso a lavorare in casa editrice.
Con Bazlen Cristina condivide
l’analisi da Ernst Bernhard (“uno psichiatra silenzioso, usava consigliare
ai suoi depressi la lettura del libro di Giobbe“), psicanalista tedesco che
introdusse Jung in Italia, e del quale Adelphi ha pubblicato il libro Mitobiografia.
Quando nel ’63 Elémire Zolla pubblica per Garzanti I mistici,
monumentale antologia sui mistici cristiani di ogni epoca, fra i traduttori ci
sono Giusto Cabianca (cioè Cristina) e Calasso: gli autori sono l’anonimo de La
nube della non conoscenza, Maria Maddalena de’ Pazzi, Jean Pierre de
Caussade, Angela da Foligno, Caterina da Siena, Ignazio di Loyola.
Diventeranno, prima o poi, nel corso di cinquant’anni, tutti autori Adelphi. La
stessa antologia, ormai introvabile in prima edizione, verrà poi ripubblicata
in due volumi per Adelphi, sotto il titolo I mistici dell’occidente (sì,
proprio l’album dei Baustelle).
Corrispondenze e sguardi simili a
parte, Adelphi è sicuramente l’artefice della riscoperta di Cristina Campo come
autrice: dopo la fortunata pubblicazione de “Gli imperdonabili” nel ’87,
continua da trent’anni a pubblicare tutto ciò che Cristina abbia mai vergato di
suo pugno: Sotto falso nome raccoglie altri testi ritrovati, che non
erano rientrati nel primo libro; La tigre assenza sono le sue poesie (e
anche quelle tradotte): poi l’intero epistolario in Lettere a Mita, Caro
Bul, Il mio pensiero non vi lascia. Belinda e il mostro è la
biografia a cura di Cristina De Stefano.
La fine
Alla fine della sua vita (certamente influenzata da Elémire, e con il quale, ironicamente, romperà proprio a causa del suo fervore religioso), Cristina Campo si converte alla religione cattolica. Non che prima fosse atea: ma, come sempre con lei, diventa ora una scelta consapevole, totale, incandescente. Sono gli anni appena posteriori al Concilio Vaticano II, in cui lentamente la chiesa assumerà le posizioni che nel concilio erano ritenute più moderniste, come una profondissima modifica della liturgia, a partire dall’abolizione della messa in latino.
Alla fine della sua vita (certamente influenzata da Elémire, e con il quale, ironicamente, romperà proprio a causa del suo fervore religioso), Cristina Campo si converte alla religione cattolica. Non che prima fosse atea: ma, come sempre con lei, diventa ora una scelta consapevole, totale, incandescente. Sono gli anni appena posteriori al Concilio Vaticano II, in cui lentamente la chiesa assumerà le posizioni che nel concilio erano ritenute più moderniste, come una profondissima modifica della liturgia, a partire dall’abolizione della messa in latino.
Per Cristina, che si era avvicinata
al cristianesimo proprio a partire dalla poesia del rito liturgico e dal canto
gregoriano, tutto ciò è semplicemente inaccettabile. Per lei tradurre il rito latino
è tradire la Chiesa, quindi Cristo. Ritiene fermamente che il Concilio
Vaticano II (coi suoi orribili microfoni, con le schitarrate dei giovani in
chiesa) sia una concreta opera del Demonio. Inizia, come sempre fa, scrivendo
lettere e petizioni, facendole firmare a centinaia di persone, fra cui
moltissimi scrittori: fondando Una Voce, associazione ancora esistente a
favore della messa in latino, mette a presidente Eugenio Montale (lei, come
sempre, rimane nelle retrovie, anche se ne è l’animatrice principale).
Diventa una devota di monsignor
Lefevbré, tradizionalista, vescovo che andrà apertamente contro la chiesa
organizzando una sua “chiesa personale” (i lefreviani) e sarà così sospeso a
divinis. Alfredo Cattabiani, direttore editoriale di Rusconi, ricorda:
Aveva fondato Una Voce, aveva attaccato il pontefice.
Dal punto di vista religioso aveva una sensibilità molto tradizionale. Era
un’estremista. È stata lei a curare un libro di Lefevbré […] e a spingerlo a
posizioni di rottura. Direi quasi che fu Lefèbvre ad essere un discepolo di
Cristina.
Come si spiega che una scrittrice
del rango di Cristina Campo sia stata quasi dimenticata? Le ragioni sono varie.
Non capace di compromessi, Cristina non si inserirà mai nella società
letteraria italiana: scrive di altro, in altro modo, andando da un’altra parte.
È aristocraticamente isolata, intransigente fino all’antipatia: “non mi
interessa la gente che non capisce subito”.
Nell’Italia del dopoguerra, inoltre,
Cristina è politicamente scorretta. Nei quasi vent’anni di relazione con
Elémire Zolla, approfondisce e sceglie temi assolutamente inattuali, e spesso
inaccettabili. È antimoderna e antiprogressista. Ha simpatie apertamente di
destra: il padre, Guido Guerrini, era fascista convinto; alla fine della guerra,
fece sette mesi di campo di prigonia inglese. Eppure, allo stesso tempo,
Cristina è insieme reazionaria e rivoluzionaria: ama uomini sposati – Luzi,
Zolla – e con quest’ultimo rimarrà insieme per vent’anni, contro il volere dei
genitori; si spende per Danilo Dolci, per il massacro dei Watussi. Ha simpatie
apertamente di destra, eppure frequenta moltissimi amici di sinistra, anche
ex-partigiani.
È aristocratica, ma aiuta
concretamente moltissime persone: diseredati, barboni, profughi. Li porta a
casa, dona vestiti e soldi, si priva dei suoi guadagni di un anno per pagare il
viaggio in patria di una giovana profuga slava. È capace di celebrare (magari
in una lettera all’amica Mita) il più misero degli straccioni incontrato in
chiesa, come i bei soldati tedeschi a cui aveva dovuto fare da interprete nei
campi di prigionia inglese. Odia più di tutto la mediocrità, la società
borghese “uccisore di cigni”, il consumismo, la massa. Amerà sempre i perdenti;
che fossero dalla parte del torto o della ragione, per lei non importa.
Gli ultimi anni di Cristina sono
tremendi, fatti di silenzio e dolore. Stava male, e senza i suoi genitori che
la obbligavano a farsi curare lei si trascura, anche a causa del sospetto
antimoderno di Elémire, che disapprovava i medici e la medicina. Non esce quasi
più di casa e la sua salute è estremamente cagionevole, interrotta. Vorrebbe
scrivere, ma non riesce. Viene portata via da una crisi un po’ più forte delle
innumerevoli che ha affrontato durante la sua vita. L’artiglio sinistro (come
chiamava il suo cuore ferito) vince un’ultima volta.
Nelle fiabe, come si sa, non ci sono strade. Si cammina
davanti a sè, la linea è retta all’apparenza. Alla fine quella linea si svelerà
un labirinto, un cerchio perfetto, una spirale, una stella – o addirittura un
punto immobile dal quale l’anima non partì mai, mentre il corpo e la mente
faticavano nel loro viaggio apparente. Di rado si sa verso dove si vada, o
anche solo verso che cosa si vada… La meta cammina dunque al fianco del
viaggiatore come l’Arcangelo Raffaele, custode di Tobiolo. O lo attende alle
spalle, come il vecchio Tobia. In realtà egli l’ha in sè da sempre e viaggia
verso il centro immobile della sua vita: lo speco vicino alla sorgente, la
grotta – là dove infanzia e morte, allacciate, si confidano il loro reciproco
segreto.
Andrea Zanni
Articolo ripreso da http://www.iltascabile.com/letterature/cristina-campo-della-perfezione/
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