Cuba, 1959
A cinquant'anni dalla
morte del Che. Le sue parole d’ordine si stamparono sui muri di
Parigi, Londra, Bologna e penetrarono le coscienze di quei giovani
che erano convinti di poter cambiare un mondo ingiusto. Al di là del
mito, la figura del Che resta complessa come la valutazione storica di un decennio che segnò nei fatti l'annientamento dei
fuochi guerriglieri e un durissimo arretramento in tutto il
continente dei movimenti operai e democratici. Pensiamo che le
responsabilità politiche della Direzione cubana (Castro e Guevara soprattutto) per questa sconfitta, che segnò
l'eliminazione fisica di un'intera generazione di giovani, siano
grandi. Ma ne parleremo in altra occasione, oggi ricordiamo il Che
con uno scritto (del 1987) dello scrittore argentino Osvaldo Soriano.
Osvaldo Soriano
Le rivoluzioni hanno
avuto il suo volto
Le sue parole d’ordine
si andarono a stampare sui muri di Parigi, Londra, di Bologna, ma
soprattutto penetrarono le coscienze di quei giovani che erano
convinti di poter cambiare un mondo ingiusto e noioso, logorato dalla
crescita economica del dopoguerra.
La rivoluzione aveva il
volto del Che, leggeva Sartre e Fanón, ascoltava i Beatles. In
America latina preferiva i racconti di Julio Cortázar e Gabriel
Garcia Márquez e la musica di Alfredo Zitarrosa e Daniel Viglietti,
di Chico Buarque e Silvio Rodríguez. Il soffocamento della rivolta
in Francia non impedì che il suo spirito libertario arrivasse fino
ai colonnelli portoghesi e ai sergenti africani.
In America erano in armi
i «montoneros» argentini, i «tupamaros» uruguayani, i trotzkisti
peruviani, i marxisti colombiani e salvadoregni, i sandinisti
nicaraguensi, e in ogni parte sorgeva un «foco» di nuova
insurrezione. La Dottrina della sicurezza nazionale, insegnata dai
nordamericani nella Scuola di guerra del canale di Panama, preparava
i militari di tutto il continente alla repressione.
In Bolivia, dove era
caduto il Che, il generale Juan José Torres instaurò un governo
socializzante che ebbe i suoi fugaci soviet di soldati e minatori
prima di cadere abbattuto dalla borghesia e dai contadini. In
Brasile, la dittatura militare avviata nel ’64 smembrò la
guerriglia urbana e impose un ordine di crescita economica ferrea e
rapida. In Perù ci fu un serio tentativo nazionalista guidato dal
generale Velazco Alvarado, che poi fu tradito e deposto. In Cile,
dove c’era una tradizione democratica, il socialista Salvator
Allende giunse al governo con l’appoggio di comunisti e cattolici
di sinistra. In Uruguay crebbe la guerriglia «tupamara» e si formò
il «Fronte amplio», una coalizione di sinistra legale che arrivò a
minacciare l’egemonia dei partiti tradizionali. In Argentina, dove
la confusione era maggiore, il generale Juan Perón tornò al potere
nel 73 dopo diciotto anni di esilio, grazie all’offensiva
guerrigliera dei «montoneros» nazionalisti e dei marxisti
dell’«Ejercito revolucionario del pueblo». La stabilità delle
presunte democrazie vacillò in Venezuela e Colombia e l’Ecuador
divenne ingovernabile. A Panama prese il potere un colonnello
nazionalista e avventuriero che affascinò Graham Green: Omar
Torrijos.
Cuba 1959
Fu uno dei decenni più
turbolenti del continente. Bruscamente apparirono dal fondo dei tempi
i fantasmi dei padri fondatori: Bolívar, San Martí, Artigas, José
Marti, questa volta inalberati dai giovani che li avevano patiti nei
libri di scuola del sistema educativo dominante. Gli eroi
dell’indipendenza avevano altre voci, ora: erano divenuti più
umani e parlavano dei poveri e degli indios; erano loro i precursori
della «Gran Patria Americana».
D’improvviso i ragazzi
di questa parte del mondo si sentivano orgogliosi di essere di qui e
erano pronti a morire per essere liberi. Tutto il mondo progressista
li guardava con ammirazione e perfino con invidia, e se perdevano
qualche battaglia le porte dell’Europa erano aperte per accoglierli
e per starli a sentire.
A metà degli anni
Settanta si cominciarono a avvertire gli echi in Germania federale,
Italia, Spagna e un’altra volta in Francia. Questi echi suonavano
come scoppi. Cadde il regime di Salazar e la borghesia portoghese
tremò con la «Rivoluzione dei garofani». L’Europa, così sicura
di sé, si lasciò tentare fino a che arrivò la gran depressione
economica del 73.
Allora si ebbe il crollo
delle illusioni, la fine di un’epoca in cui tutti i sogni erano
stati possibili. Il Che andava a morire di nuovo e quella morte
sarebbe stata più duratura. (…) Lui alzò le bandiere
dell’utopia e nei suoi testi, come nel suo diario, appare una
visione forse ingenua del mondo.
Però lui ci credeva, e
fece sì che anche molti altri ci credessero. C’era qualcosa di
religioso in questo, qualcosa di molto discutibile, ma tutte le
grandi rivoluzioni hanno avuto i loro uomini pragmatici e quelli
disposti a dare la vita per i loro principi. Probabilmente è vero
che l’esempio del Che ha trascinato molti giovani a una morte
inevitabile, ma altri, come i sandinisti, sono arrivati alla rivolta
quando ormai nessuno più credeva nella lotta armata.
È per questo che nelle
società più disperate il Che conserverà sempre tutto il suo
valore. A tanti anni dalla sua morte in molti lo hanno abbandonato
altri seguono i suoi passi, là dove libertà è una parola senza
significato. Molta gente racconta che, in fondo, il Che era di un
grande candore.
Quest’uomo credeva ciecamente nell’onestà, nella giustizia e nella capacità dei popoli latinoamericani di capire qual è il loro destino.
Quest’uomo credeva ciecamente nell’onestà, nella giustizia e nella capacità dei popoli latinoamericani di capire qual è il loro destino.
Col tempo questo
sentimento quasi cristiano dell’uguaglianza può far sorridere.
Pare di favola quel personaggio che divideva una caramella fra
quattro compagni perché nessuno ne avesse più dell’altro. E
tuttavia non era un angelo: quelli che erano presenti ai processi
successivi alla rivoluzione cubana, nel ’59, lo ricordano seduto a
un tavolo mentre giudicava torturatori e spie che finivano al muro
con la sua parola.
A Cuba il Che era uno dei
tre comandanti di maggior prestigio insieme con Castro e Camilo
Cienfuegos. Fino a che nel ’65, bruscamente, uscì dalla scena
politica. Molti credettero che si trattasse di un regolamento di
conti fra i capi della rivoluzione. Quando il suo nome cominciò a
passare di bocca in bocca in Bolivia, ci fu chi pensò a un emulo
demente. Solo nell’ultimo anno della sua vita si ebbero
testimonianze indubitabili che il Che era a capo di una nuova
rivoluzione.
Bolivia 1967
Si sono scritte migliaia di pagine sugli errori commessi dai guerriglieri in Bolivia e nel diario dello stesso Guevara ci sono prove dell’infinita solitudine in cui lo lasciarono i contadini dell’altipiano, una delle regioni più desolate del continente.
Quando le truppe regolari
lo presero, quasi per caso, morte di paura, è possibile che il Che,
indebolito dalla fame e dall’asma, abbia intuito che la sua epopea
era giunta alla fine.
Non immaginava quel che sarebbe cominciato con la sua morte, ma è certo che oggi non rinnegherebbe nulla della sua vita rivoluzionaria.
Non immaginava quel che sarebbe cominciato con la sua morte, ma è certo che oggi non rinnegherebbe nulla della sua vita rivoluzionaria.
Non aveva ancora
quarant’anni e aveva già scosso il continente come nessuno dai
tempi dell’indipendenza. Forse per questo lo si assimila oggi ai
grandi eroi americani e perfino i suoi peggiori nemici hanno per lui
un diffidente rispetto. Molti teorici degli anni ’60 hanno scritto
e dibattuto sulle tattiche e le strategie per sollevare le masse dei
popoli oppressi. Alcuni, come Règis Debray, che accompagnò Guevara
in Bolivia, hanno abiurato poi i loro anni ribelli.
Qualunque sia il giudizio
che meriti oggi l’uomo assassinato a bruciapelo l’8 ottobre 1967,
nessuno può negare che, a torto o a ragione, ciò che più colpisce
di lui è la fedeltà a una causa che rivendicava la giustizia e la
libertà.
Il Manifesto – 8
ottobre 2017
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