09 ottobre 2017

Il CHE: un uomo come pochi.


Cuba, 1959

A cinquant'anni dalla morte del Che. Le sue parole d’ordine si stamparono sui muri di Parigi, Londra, Bologna e penetrarono le coscienze di quei giovani che erano convinti di poter cambiare un mondo ingiusto. Al di là del mito, la figura del Che resta complessa come la valutazione storica di un decennio che segnò nei fatti l'annientamento dei fuochi guerriglieri e un durissimo arretramento in tutto il continente dei movimenti operai e democratici. Pensiamo che le responsabilità politiche della Direzione cubana (Castro e Guevara soprattutto) per questa sconfitta, che segnò l'eliminazione fisica di un'intera generazione di giovani, siano grandi. Ma ne parleremo in altra occasione, oggi ricordiamo il Che con uno scritto (del 1987) dello scrittore argentino Osvaldo Soriano.
Osvaldo Soriano
Le rivoluzioni hanno avuto il suo volto
Le sue parole d’ordine si andarono a stampare sui muri di Parigi, Londra, di Bologna, ma soprattutto penetrarono le coscienze di quei giovani che erano convinti di poter cambiare un mondo ingiusto e noioso, logorato dalla crescita economica del dopoguerra.
La rivoluzione aveva il volto del Che, leggeva Sartre e Fanón, ascoltava i Beatles. In America latina preferiva i racconti di Julio Cortázar e Gabriel Garcia Márquez e la musica di Alfredo Zitarrosa e Daniel Viglietti, di Chico Buarque e Silvio Rodríguez. Il soffocamento della rivolta in Francia non impedì che il suo spirito libertario arrivasse fino ai colonnelli portoghesi e ai sergenti africani.
In America erano in armi i «montoneros» argentini, i «tupamaros» uruguayani, i trotzkisti peruviani, i marxisti colombiani e salvadoregni, i sandinisti nicaraguensi, e in ogni parte sorgeva un «foco» di nuova insurrezione. La Dottrina della sicurezza nazionale, insegnata dai nordamericani nella Scuola di guerra del canale di Panama, preparava i militari di tutto il continente alla repressione.
In Bolivia, dove era caduto il Che, il generale Juan José Torres instaurò un governo socializzante che ebbe i suoi fugaci soviet di soldati e minatori prima di cadere abbattuto dalla borghesia e dai contadini. In Brasile, la dittatura militare avviata nel ’64 smembrò la guerriglia urbana e impose un ordine di crescita economica ferrea e rapida. In Perù ci fu un serio tentativo nazionalista guidato dal generale Velazco Alvarado, che poi fu tradito e deposto. In Cile, dove c’era una tradizione democratica, il socialista Salvator Allende giunse al governo con l’appoggio di comunisti e cattolici di sinistra. In Uruguay crebbe la guerriglia «tupamara» e si formò il «Fronte amplio», una coalizione di sinistra legale che arrivò a minacciare l’egemonia dei partiti tradizionali. In Argentina, dove la confusione era maggiore, il generale Juan Perón tornò al potere nel 73 dopo diciotto anni di esilio, grazie all’offensiva guerrigliera dei «montoneros» nazionalisti e dei marxisti dell’«Ejercito revolucionario del pueblo». La stabilità delle presunte democrazie vacillò in Venezuela e Colombia e l’Ecuador divenne ingovernabile. A Panama prese il potere un colonnello nazionalista e avventuriero che affascinò Graham Green: Omar Torrijos.
    Cuba 1959
Fu uno dei decenni più turbolenti del continente. Bruscamente apparirono dal fondo dei tempi i fantasmi dei padri fondatori: Bolívar, San Martí, Artigas, José Marti, questa volta inalberati dai giovani che li avevano patiti nei libri di scuola del sistema educativo dominante. Gli eroi dell’indipendenza avevano altre voci, ora: erano divenuti più umani e parlavano dei poveri e degli indios; erano loro i precursori della «Gran Patria Americana».
D’improvviso i ragazzi di questa parte del mondo si sentivano orgogliosi di essere di qui e erano pronti a morire per essere liberi. Tutto il mondo progressista li guardava con ammirazione e perfino con invidia, e se perdevano qualche battaglia le porte dell’Europa erano aperte per accoglierli e per starli a sentire.
A metà degli anni Settanta si cominciarono a avvertire gli echi in Germania federale, Italia, Spagna e un’altra volta in Francia. Questi echi suonavano come scoppi. Cadde il regime di Salazar e la borghesia portoghese tremò con la «Rivoluzione dei garofani». L’Europa, così sicura di sé, si lasciò tentare fino a che arrivò la gran depressione economica del 73.
Allora si ebbe il crollo delle illusioni, la fine di un’epoca in cui tutti i sogni erano stati possibili. Il Che andava a morire di nuovo e quella morte sarebbe stata più duratura. (…) Lui alzò le bandiere dell’utopia e nei suoi testi, come nel suo diario, appare una visione forse ingenua del mondo.
Però lui ci credeva, e fece sì che anche molti altri ci credessero. C’era qualcosa di religioso in questo, qualcosa di molto discutibile, ma tutte le grandi rivoluzioni hanno avuto i loro uomini pragmatici e quelli disposti a dare la vita per i loro principi. Probabilmente è vero che l’esempio del Che ha trascinato molti giovani a una morte inevitabile, ma altri, come i sandinisti, sono arrivati alla rivolta quando ormai nessuno più credeva nella lotta armata.
È per questo che nelle società più disperate il Che conserverà sempre tutto il suo valore. A tanti anni dalla sua morte in molti lo hanno abbandonato altri seguono i suoi passi, là dove libertà è una parola senza significato. Molta gente racconta che, in fondo, il Che era di un grande candore.
Quest’uomo credeva ciecamente nell’onestà, nella giustizia e nella capacità dei popoli latinoamericani di capire qual è il loro destino.
Col tempo questo sentimento quasi cristiano dell’uguaglianza può far sorridere. Pare di favola quel personaggio che divideva una caramella fra quattro compagni perché nessuno ne avesse più dell’altro. E tuttavia non era un angelo: quelli che erano presenti ai processi successivi alla rivoluzione cubana, nel ’59, lo ricordano seduto a un tavolo mentre giudicava torturatori e spie che finivano al muro con la sua parola.
A Cuba il Che era uno dei tre comandanti di maggior prestigio insieme con Castro e Camilo Cienfuegos. Fino a che nel ’65, bruscamente, uscì dalla scena politica. Molti credettero che si trattasse di un regolamento di conti fra i capi della rivoluzione. Quando il suo nome cominciò a passare di bocca in bocca in Bolivia, ci fu chi pensò a un emulo demente. Solo nell’ultimo anno della sua vita si ebbero testimonianze indubitabili che il Che era a capo di una nuova rivoluzione.
    Bolivia  1967

Si sono scritte migliaia di pagine sugli errori commessi dai guerriglieri in Bolivia e nel diario dello stesso Guevara ci sono prove dell’infinita solitudine in cui lo lasciarono i contadini dell’altipiano, una delle regioni più desolate del continente.
Quando le truppe regolari lo presero, quasi per caso, morte di paura, è possibile che il Che, indebolito dalla fame e dall’asma, abbia intuito che la sua epopea era giunta alla fine.
Non immaginava quel che sarebbe cominciato con la sua morte, ma è certo che oggi non rinnegherebbe nulla della sua vita rivoluzionaria.
Non aveva ancora quarant’anni e aveva già scosso il continente come nessuno dai tempi dell’indipendenza. Forse per questo lo si assimila oggi ai grandi eroi americani e perfino i suoi peggiori nemici hanno per lui un diffidente rispetto. Molti teorici degli anni ’60 hanno scritto e dibattuto sulle tattiche e le strategie per sollevare le masse dei popoli oppressi. Alcuni, come Règis Debray, che accompagnò Guevara in Bolivia, hanno abiurato poi i loro anni ribelli.
Qualunque sia il giudizio che meriti oggi l’uomo assassinato a bruciapelo l’8 ottobre 1967, nessuno può negare che, a torto o a ragione, ciò che più colpisce di lui è la fedeltà a una causa che rivendicava la giustizia e la libertà.
Il Manifesto – 8 ottobre 2017





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