Rembrandt, Sposa ebrea
Steven Nadler dopo i due grandi libri su Spinoza continua la sua
ricerca sulla comunità ebraica nell'Olanda del Seicento. Questa volta
ricostruisce il rapporto affascinante fra Rembrandt e gli ebrei di
Amsterdam. Centrale la figura di Menasseh Ben Israel, il “rabbino
infelice”.
Donatella Di Cesare
Invece il pennello di
Rembrandt emancipa gli ebrei
Quelle case basse, a due piani, lungo i canali dell’Amstel, non esistono più e l’intero quartiere ebraico, il Vlooienburg, costruito su un’isola, può ormai solo essere immaginato. Ben poco è sopravvissuto al tempo, all’occupazione nazista e alle ristrutturazioni urbanistiche del dopoguerra. Resta però la Jodenbreestraat, la Strada Larga degli Ebrei. Steven Nadler, lo storico e filosofo, famoso per i suoi studi su Baruch Spinoza, invita a ripercorrerla, con il libro Gli ebrei di Rembrandt (Einaudi), in un affascinante viaggio che ricostruisce la cultura e la vita di quella «nuova Gerusalemme», come Amsterdam fu chiamata all’inizio del Seicento.
La città aveva accolto
migliaia e migliaia di ebrei e conversos , nuovi cristiani in fuga
dall’Inquisizione; per quella generosa ospitalità, su una terra
strappata all’acqua, ricevette in cambio un’imprevista età
dell’oro e diventò una metropoli cosmopolita. Prosperarono i
commerci, si moltiplicarono gli scambi, fiorirono le arti.
Il viaggio di Nadler ha inizio dalla casa di Rembrandt al numero 4 della Breestraat, dove il pittore abitò a lungo, dal 1639 al 1658. I suoi vicini non avevano nomi olandesi. Si chiamavano Isaac de Pinto, Salvatore Rodriguez, Ephraim Bueno, Abraham Aboab. Erano mercanti, medici, rabbini, membri orgogliosi della Naçao , la nazione ebraica in esilio; parlavano portoghese, leggevano la letteratura spagnola, sapevano l’ebraico. «Benedetto tu, o Signore, che ci hai mostrato la tua meravigliosa misericordia nella città di Amsterdam, degna di lode», recitava una berachà , una benedizione dell’epoca. In Olanda gli ebrei sefarditi avevano trovato libertà di culto. E alla metà del secolo erano considerati l’élite ebraica d’Europa.
Sull’isola di Vlooienburg, però, i viali alberati, dove si affacciavano gli eleganti palazzi di mattoni scuri, erano attraversati da vicoli stretti nei quali piccole case di legno si accalcavano l’una sull’altra. Non si parlava portoghese, bensì yiddish. Gli ebrei ashkenaziti, poveri e trasandati, erano sfuggiti alle persecuzioni e ai massacri che si erano ripetuti soprattutto in Polonia e in Lituania. Tra le due comunità i rapporti erano tesi; prevalevano il sospetto e l’estraneità.
Gli ebrei ashkenaziti,
forti di una continuità che agli altri mancava, conoscevano bene la
halachà , la legge ebraica, erano maestri nel Talmud, vantavano
un’osservanza più rigorosa e una più fervente spiritualità.
Inconfondibili, con i loro caftani neri e la barba non rasata, si
distinguevano già a prima vista dai portoghesi che vestivano invece
alla moda, dai cappelli fino agli stivali. I raffinati hidalgos ,
lontani dalla tradizione, cresciuti ed educati come cristiani,
guardavano dall’alto in basso quei tudescos che vivevano in mezzo a
loro.
Nei suoi dipinti e nelle sue acqueforti Rembrandt raffigurò sia gli uni che gli altri. Con una predilezione, forse, per i sefarditi. Non è difficile scorgere nei personaggi che animano i suoi quadri, imperniati su temi tratti dall’Antico Testamento, volti, caratteri e fattezze degli ebrei che incontrava sull’uscio di casa. Rembrandt li immortalò nella sua pittura. E fu anche grazie a quell’assidua frequentazione che non si limitò, come altri, a illustrare la Bibbia; piuttosto dipinse le Scritture ebraiche. Non di rado fu accusato — come era accaduto a Caravaggio — di involgarire l’arte, a dispetto dei temi elevati, umiliandola al livello della strada.
Ma qual è stato davvero il rapporto di Rembrandt con gli ebrei e con l’ebraismo? Questa è la domanda intorno a cui ruota il libro di Nadler. Merito degli artisti operanti allora ad Amsterdam — da Romeyn de Hooghe a Jacob van Ruisdael — fu di aver documentato un mondo che altrimenti sarebbe rimasto inaccessibile. A parte le celebri incisioni degli esterni, de Hooghe rappresentò gli ebrei in preghiera e al lavoro, nella gioia e nel pianto; li ritrasse negli interni o in contesti di intimità, nelle scuole, dinnanzi al mikveh , il bagno rituale, in fila davanti alla sinagoga, o lungo il canale, mentre si avviavano verso il cimitero di Ouderkerk. Splendida è la Cerimonia di circoncisione in una famiglia sefardita , databile intorno al 1665. Ma se de Hooghe documentò quel mondo ebraico, Rembrandt lo ricreò con il suo tocco inconfondibile. E lo esaltò. Secondo celebri studiosi, quali Moses Gans e Franz Landsberger, un secolo prima dell’Illuminismo in quei quadri va riconosciuta la prima emancipazione degli ebrei.
Si deve presumere, tuttavia, che la questione sia più complicata. Rembrandt viveva tra gli ebrei, in un rapporto tale di quotidiana familiarità, che le liti erano frequenti. Ma non si deve trascurare il suo coinvolgimento diretto nell’ebraismo. Se comprese quel popolo come nessun altro artista europeo, fu perché collaborò con i rabbini della comunità. Non si spiegherebbero altrimenti quei dettagli, nelle sue opere, che può conoscere solo chi studia la tradizione ebraica. E c’è di più: il suo enorme interesse per il messianismo.
Rembrandt, Vecchio ebreo
Alla luce di questo interesse assume un’inedita centralità la figura di Menasseh Ben Israel, il «rabbino infelice», come lo chiama Nadler. Infelice perché proveniva da una famiglia di nuovi cristiani, originari di Madeira, che non senza sospetto erano stati accolti nella comunità di Amsterdam. Intellettuale cosmopolita, talento poliedrico, filosofo, traduttore, erudito, forse «l’ebreo più famoso d’Europa», fu a lungo osteggiato dagli altri rabbini, in particolare da Saul Levi Mortera. Se questo era un grande talmudista, Menasseh era versato invece nella Kabbalah , la mistica ebraica. Forse è proprio lui — ipotizza Nadler — a essere ritratto nell’acquaforte di Rembrandt intitolata Filosofo nello studio del 1652. Ma non manca anche un vero e proprio ritratto che risale al 1639.
Ecco allora la novità: l’amicizia intellettuale con il «rabbino infelice» ispirò Rembrandt. Questi «due spiriti affini», malgrado le differenti prospettive religiose, erano accomunati da una visione teologico-politica improntata al messianismo. Menasseh pubblicò nel 1650 la sua grande opera, in spagnolo e in latino, Speranza di Israele , che scosse profondamente ebrei messianisti e millenaristi cristiani. Notizie decisive arrivavano dal Nuovo Mondo.
Tornato nel 1642 dalle
Americhe, Antonio de Montezinos (alias Aaron Levi) sosteneva di
essersi imbattuto in indiani che recitavano lo shemà , la preghiera
ebraica. Dovevano essere discendenti della tribù di Ruben. Era la
prova tanto attesa: la diaspora ebraica aveva toccato ogni angolo del
mondo. Segno della venuta del Messia. Menasseh non poteva dire quando
quella redenzione, che sarebbe stata anche un rivolgimento politico,
si sarebbe compiuta; ma era certo che quell’evento fosse prossimo.
Prima venuta del Messia per gli ebrei, seconda per i cristiani.
Rembrandt fu attratto — come in seguito Spinoza — dal messianismo di Menasseh e anche in seguito, quando nel 1655 venne pubblicata la sua Piedra gloriosa , scritta con l’intento di delineare in chiave messianica la storia del popolo ebraico, collaborò con lui offrendo quattro acqueforti. Non dimenticò Menasseh alla sua morte, nel 1657. Così Nadler immagina che in quel freddo mattino di novembre, quando finalmente la comunità di Amsterdam accorse al cimitero di Ouderkerk per tributare l’ultimo omaggio a Menasseh, in vita così osteggiato, oltre all’arcigno Mortera, tra loro ci fosse anche il grande maestro.
Il Corriere della sera /
La Lettura – 8 ottobre 2017
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