Kazuo Ishiguro ha vinto il Premio Nobel per la letteratura. Ripubblichiamo l’intervista di Francesca Borrelli già uscita su «Alias» e su LPLC nell’ottobre del 2015.
Il gigante sepolto. Intervista a Kazuo Ishiguro
di Francesca Borrelli
Se la lucidità dei ricordi sia un bene
da coltivare o se sia auspicabile, in realtà, la nebbia che a volte li
avvolge: è questo l’interrogativo sul quale Kazuo Ishiguro torna via via
più insistentemente nel suo nuovo romanzo Il gigante sepolto (prodigiosa
traduzione di Susanna Basso, Einaudi) tra le cui pagine, man mano che i
nodi si sciolgono, i personaggi rivelano gli scopi che li muovono così
che tutti o quasi i misteri si dissolvono. La predilezione di Ishiguro
per i contenuti metaforici ha eletto questa volta a suo teatro ideale
una terra contesa tra Sassoni e Britanni in un tempo indeterminato ma
non di molto posteriore alla morte del leggendario re Artù. Sebbene
precaria, la pace regna ora tra i due popoli, dimentichi delle ragioni
che li avevano portati a odiarsi, così come immemori del loro passato
appaiono tutti gli uomini e le donne della contrada, da che il fiato di
un drago-femmina ha steso veli impenetrabili sui loro ricordi.
La landa è poverissima, desolata
all’orizzonte di una vasta torbiera, le costruzioni sono sotterranee,
cuniculi bui dove vivono, in comunità con altri villici rancorosi, due
buoni vecchi uniti da un amore incrollabile. Un giorno, Axel e Beatrice,
questi i loro nomi, decidono di intraprendere – in quella terra
popolata di orchi, folletti e creature sinistre – un viaggio per
ricongiugersi al figlio, che forse li aspetta in un altro villaggio. Non
è certo, per la verità, cosa li attenda, né perché il figlio si sia a
suo tempo allontanato da loro. Nel viaggio resisteranno a traversìe di
ogni genere, incontreranno un valoroso cavaliere mandato dal suo sovrano
a uccidere Querig, il drago che cancella i ricordi, e faranno amicizia
con un improbabile nipote di re Artù, lo sgangherato ser Galvano, che si
vanta di avere combattuto i più temibili satanassi, ma benché sia stato
destinato anche lui alla eliminazione del drago ha lasciato passare
decenni senza battere un colpo. E, tra le figure più misteriose, Axl e
Beatrice incontreranno un barcaiolo, dal cui arbitrìo dipende la sorte
delle coppie che gli chiedono un passaggio all’altra sponda, perché solo
chi può esibire un solidissimo legame otterrà di ricongiungersi a colui
che, per primo, ha guadagnato l’altra riva.
Molte diverse figure si materializzano
sul fondale dove si muovono i due vecchi, finché Querig il drago verrà
raggiunto, stanato e ucciso, mettendo fine all’incantesimo che avvolgeva
la memoria di Sassoni e Britanni, ora dunque di nuovo nemici.
Axel e Beatrice sono finalmente di
fronte a ciò che il fiato del drago aveva pietosamente obnubilato, il
figlio non è stato raggiunto né potrà esserlo, il loro amore resiste
benché riveli smagliature a suo tempo sanate, ogni personaggio andrà a
incastrarsi nel tassello previsto dal suo destino prima che il fiato del
drago lo facesse smarrire.
Dieci anni dopo il suo precedente
romanzo, Ishiguro si avventura nei territori di un fantasy che può
irretire il lettore o respingerlo, ma di cui non si può fare a meno di
ammirare la scrittura sapientemente in equilibrio fra echi medievali e
moderna intellegibilità, mentre la strategia romanzesca rinuncia a
quelle digressioni che nei precedenti romanzi avevano reso a volte
esaltanti le pagine di Ishiguro e fila diritta a tirare tutte le somme
della trama senza tuttavia arrivare a sigillare il cerchio. E, certo,
meglio sarebbe sapere di potere leggere quanto esibito da questo testo
fiabesco senza cercarvi recondite allusioni sociali: ciò che ha fatto
infuriare uno storico detrattore di Ishiguro, il critico James Wood, che
nel marzo di quest’anno gli ha dedicato un saggio sul “New Yorker”,
dove attacca le pretese del romanzo di alludere a una amnesia storica;
ma lo fa invocando criteri di verosimiglianza e di coerenza – “insomma
di che si tratta, di una nebbia o di una pioggia intermittente?” scrive a
proposito della diseguale incidenza dell’oblio sui ricordi dei
personaggi – francamente trascurabili, a fronte del confusivo incanto
che investe chi vive nelle terre del drago. E noi con loro.
Kazuo Ishiguro è passato da Mantova il
mese scorso, da circa dieci anni non veniva in Italia, è stata una buona
occasione per chiedergli di farci da guida nei misteri sepolti tra le
pagine del suo Gigante.
Lei ha scelto di
affidare gran parte del romanzo a un narratore che comincia schernendosi
così: “Non ho alcun desiderio di lasciar intendere che allora il
territorio britannico fosse grossomodo questo e niente altro”, oppure: “
Mi dispiace offire questa immagine del nostro paese…”. A chi
corrisponde, nella sua immaginazione, questa voce e qual è ruolo che le
ha assegnato?
Per molto tempo è stata mia intenzione
consegnare a questo narratore un ruolo più significativo di quello che
si è poi ridotto a avere, ma ridimensionai la sua presenza perché mi
pareva che distraesse troppo il lettore. Tuttavia, avevo chiaro fin
dall’inizio che il pubblico al quale si sarebbe rivolto raccontando la
storia di Axel e Beatrice era composto da bambini innocenti, morti in
conflitti bellici: doveva essere una voce moderna che parla da un
ambiente sovrannaturale. E questo voi al quale si rivolge
corrisponde, appunto, alle vittime delle guerre scoppiate lungo tutto il
corso della nostra storia. Ora che questa voce ha subito tante
trasformazioni e il suo protagonismo è stato ridotto, capisco come il
suo ruolo non risulti più tanto chiaro. Resta il fatto che mi sono reso
conto, via via che avanzavo, di quanto questa voce narrante mi tornasse
utile: era una ottima guida per aiutare il lettore a muoversi nello
strano mondo che stavo inventando e dunque ho deciso, per motivi molto
pratici, che l’avrei mantenuta.
Tuttavia, a due personaggi,
quello del barcaiolo che traghetta le coppie di sposi verso una isola
misteriosa e quella di ser Galvano, il nipote di re Artù, lei ha
consegnato una voce propria, facendoli parlare in prima persona. Come
mai questa eccezione per loro due?
Perché volevo ottenere per questi
personaggi quell’effetto di intimità che il racconto in terza persona
non consente. In passato, i miei romanzi sono stati sempre narrati in
prima persona ma qui non volevo che ci fosse un solo protagonista,
desideravo mettere in campo tanti punti di vista capaci di restituire
tutti gli aspetti che entrano in gioco in una società. A un certo punto,
ho sentito l’esigenza di entrare nella testa di Galvano e, per quanto
riguarda il traghettatore, sebbene avessi cominciato a descriverne le
gesta in terza persona, mi resi conto poi che l’effetto sarebbe stato
molto più potente dandogli una voce sua. Dopo avere accompagnato Axel e
Beatrice lungo il loro viaggio viene il momento in cui, per apprezzare
ciò che sta succedendo, funziona meglio prendere le distanze dalla loro
prospettiva e vedere le cose dal punto di vista di altri personaggi. Mi è
sembrato che questa strategia narrativa permettesse di ottenere un
maggiore impatto emotivo.
Questa non è la prima volta che
lei mette i suoi personaggi nelle condizioni di perdere la memoria.
Accade a Ryder, il protagonista degli Inconsolabili, e anche al narratore di A village after the dark, il racconto che pubblicò nel 2001 sul New Yorker. Sembra essere un tema che le sta molto a cuore…
Si, è così. In realtà, fin dall’inizio
del mio lavoro di romanziere ho avuto uno speciale interesse per il modo
in cui la gente ricorda e per come dimentica: ho sempre concepito
questo motivo come una chiave attraverso cui arrivare a altro. Sia in Un artista del mondo effimero che in Quel che resta del giorno
analizzavo il modo in cui anche la persona più idealista, anche chi è
dotato delle migliori intenzioni può a volte contribuire, senza
rendersene conto, a azioni nefaste; e da qui sono passato a tentare di
capire quanto sia difficile distinguere una buona causa da una che non
lo è. Quando si è coinvolti in prima persona è difficile mantenere una
prospettiva corretta su quanto sta accadendo e questo si rifletterà poi
sulla memoria che di questi fatti si avrà, una memoria che io adopero
come una lente in grado di farci vedere quanto è accaduto in modo
deformato. In questo ultimo romanzo, evidentemente, l’atto del ricordare
ha un ruolo importante, innanzi tutto per quanto riguarda i rapporti
tra Axel e Beatrice, che non sanno se il loro matrimonio potrà resistere
quando “il riposo della smemoratezza” li abbandonerà. Perciò si
domandano se non sia meglio, a volte, dimenticare. Ma è davvero un
solido amore quello che si basa su un oblio deliberato? E’ questo il
dubbio. Nel romanzo c’è però anche una dimensione di più ampio respiro,
una prospettiva sociale: evocando la pace fittizia tra Bretoni e Sassoni
intendevo alludere alle pretese di tenere insieme popoli diversi,
trascurando il fatto di capire quali fossero i loro rapporti precedenti a
questa pace imposta e radicata nell’oblio, che come tale non sapremo
mai quanto e se potrà durare.
Quindi lei è d’accordo con Susan
Sontag quando diceva che la memoria è fatta di ciò che accettiamo di
ricordare, e talvolta – per rendere possibile una riconciliazione –
bisogna accordarsi sulla necessità di dimenticare?
Certo che sì. A volte dimenticare è la
scelta migliore perché mette fine ai desideri di vendetta e alla
violenza che ne consegue, e questo tanto nei rapporti personali che in
quelli collettivi: basterebbe pensare alla questione palestinese o, più
vicino a casa mia, alla situazione dell’Irlanda. È proprio vero che a
volte non può esserci alcun reale progresso finché non si decide di
abbandonare al passato qualcosa di doloroso; ma quanto si può andare
avanti facendo finta che questo qualcosa non sia mai accaduto? Se il
gigante è stato sepolto ma non ucciso, prima poi potrebbe risvegliarsi.
Sono stato recentemente in America per discutere di questo mio ultimo
romanzo e ho trovato una situazione molto critica per quanto riguarda i
rigurgiti di violenza legati alle questioni razziali. C’è chi ha
suggerito di estromettere dai testi scolastici molte delle parti che
trattano la storia dello schiavismo e delle segregazioni razziali,
perché generano troppa rabbia inutile nelle giovani generazioni,
soprattutto dell’America latina; ma altri sostengono che, in realtà,
tutti i problemi attuali derivano proprio dal fatto che non si sono mai
fatti i conti fino in fondo con le questioni relative alla schiavitù. Ci
vorrebbe qualcosa come la Commissione per la verità e la
riconciliazione del Sudafrica, fatto sta che torna sempre in ballo
l’equilibrio tra ciò che bisogna ricordare e cio che deliberatamente si
sceglie di dimenticare.
Riandiamo al romanzo: come mai
lei ha deciso di rappresentare il drago-femmina, che tiene in scacco la
memoria degli uomini, in una postura così antierorica? La dipinge come
una creatura vecchia e floscia, “così emaciata da assomigliare più a una
sorta di rettile vermiforme”. Eppure le sorti di Britanni e Sassoni
dipendono dal potere del suo fiato…
Beh, effettivamente Querig è un po’
patetica, però questo non vuol dire che in passato non sia stata una
figura eroica, forte, imponente. Il suo deperimento è un simbolo
dell’enorme sforzo necessario a tenere sepolto ciò che è accaduto di
doloroso; del resto, nascondere qualcosa logora profondamente, povero
drago, e cercare di sopprimere i ricordi diventa per lei sempre più
difficile con il passare del tempo. A un certo punto ser Galvano dice
che anche quel poco fiato che resta al drago potrebbe essere sufficiente
a non far ricordare più nulla per tutta la vita, e naturalmente c’è chi
non è affatto d’accordo sul fatto che questo accada.
Perché, nella sua immaginazione, i monaci dai quali Axel e Beatrice cercano asilo, in realtà proteggono il drago?
Nel romanzo molte figure combattono con
il dilemma rappresentato dal tenere o meno in vita il drago: alcuni
vorrebbero annientarlo perché sia fatta giustizia dei torti perpetrati
in passato, altri vorrebbero lasciare tutto com’è. I monaci sono una
rappresentazione dell’estabishment, proteggono gli interessi di chi è
arrivato al potere e nascondono i mezzi con cui lo hanno ottenuto.
Credono di potere espiare grazie alle penitenze che si infliggono, ma
c’è chi li disprezza per questa loro convinzione di potersela cavare
chiedendo al loro dio di perdonarli, perché questo coincide con una
mancata assunzione di responsabilità. Come accade in tutte le situazioni
in cui il potere è stato conquistato con la forza e la pace è stata
basata su un imperio, i monaci sono terrorizzati dall’idea di perdere
ciò che hanno acquisito, temono la vendetta. Mi piacerebbe, in futuro,
ragionare meglio su questa idea cristiana del dio che tutto perdona,
perché questo rende meno difficile compiere le azioni più atroci.
All’inizio del loro viaggio Axel
e Beatrice incontrano una donna vecchia e cupa, che somiglia a un
uccello nero, e ha tanti conigli in braccio, che ucciderà uno a uno. E’
una figura simbolica? A cosa allude?
E’ una donna lasciata indietro,
sull’altra sponda del guado, dal marito che l’ha ingannata. Lungo tutto
il romanzo ci sono anche altre figure di vedove che vagano in una
atmosfera straniata un po’ come fantasmi, sospese tra la vita e la
morte. Effettivamente, la scena in cui compare questa donna che lei
ricordava è molto importante, perché attraverso la figura di lei viene
introdotto un tema fondamentale della trama, quello che ha a che fare
con il timore, e al tempo stesso la speranza, che accompagneranno Axel e
Beatrice lungo tutto il romanzo: non è la morte quel che temono, ma il
fatto che qualche memoria sepolta ritorni a dividerli; e ciò che sperano
è di amarsi tanto che neanche la morte li separi quando verranno
traghettati dal barcaiolo di là dal guado, su un’isola che possiamo
pensare sia l’isola della morte.
Nel suo romanzo precedente, “Non
lasciarmi”, lei ha immaginato una fuga nel futuro, mettendo in scena
dei cloni allevati per donare i loro organi. Qui, invece, nel “Gigante
sepolto”, la fuga è nell’alto medioevo della Gran Bretagna. Si sente più
a suo agio evitando di ambientare le sue storie nel presente?
Nelle mie intenzioni, entrambi i libri riguardano il presente, anche se non in apparenza. Ho cominciato a scrivere Il gigante sepolto
pensando a quanto è successo in Bosnia e in Ruanda negli anni novanta:
proprio ricordando queste popolazioni che vivevano in una pace
evidentemente fittizia, e che quasi all’improvviso si sono ritrovate al
centro di tremendi conflitti, ho messo in scena la convivenza precaria
di Bretoni e Sassoni. Nel caso di Non lasciarmi è vero che la
trama sembra proiettata nel futuro ma in realtà siamo in quello che
chiamerei “un presente alternativo”, e anche in questo caso mi sono
valso della grande libertà del romanziere, della enorme scelta a
disposizione tra geografie e tempi storici, per regire a quanto accadeva
intorno a me. Il mio è un tentativo di defamiliarizzare cose familiari, per far vedere in modo efficace fatti ai quali ci siamo tanto abituati da non accorgecene più.
Articolo ripreso da http://www.leparoleelecose.it/?p=29299
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