Le pagine più belle
di Beppe Fenoglio sono diventate cinema. In attesa di vedere il film
dei fratelli Taviani proponiamo l'incipit, travolgente, di "Una
questione privata", il romanzo che ci ha fatto scoprire (e amare)
Fenoglio.
Beppe Fenoglio
Una questione privata
La bocca socchiusa, le
braccia abbandonate lungo i fianchi, Milton guardava la villa di
Fulvia, solitaria sulla collina che degradava sulla città di Alba.
Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo
corpo.
Ecco i quattro ciliegi
che fiancheggiavano il vialetto oltre il cancello appena accostato,
ecco i due faggi che svettavano di molto oltre il tetto scuro e
lucido. I muri erano sempre candidi, senza macchie né fumosità, non
stinti dalle violente piogge degli ultimi giorni. Tutte le finestre
erano chiuse, a catenella, visibilmente da lungo tempo.
«Quando la rivedrò?
Prima della fine della guerra è impossibile. Non è nemmeno
augurabile. Ma il giorno stesso che la guerra finisce correrò a
Torino a cercarla. È lontana da me esattamente quanto la nostra
vittoria».
Il suo compagno si
avvicinava, pattinando sul fango fresco.
– Perché hai deviato?
– domandò Ivan. – Perché ora ti sei fermato? Cosa guardi?
Quella casa? Perché ti interessi a quella casa?
– Non la vedevo dal
principio della guerra, e non la rivedrò più prima della fine. Abbi
pazienza cinque minuti, Ivan.
– Non è questione di
pazienza, ma di pelle. Quassù è pericoloso. Le pattuglie.
– Non si azzardano fin
quassù. Al massimo arrivano alla strada ferrata.
– Dà retta a me,
Milton, pompiamo. L’asfalto non mi piace.
– Qui non siamo
sull’asfalto, – rispose Milton che si era rifissato alla villa.
– Ci passa proprio
sotto, – e Ivan additò un tratto dello stradale subito a valle
della cresta, con l’asfalto qua e là sfondato, sdrucito
dappertutto.
– L’asfalto non mi
piace, – ripeté Ivan. – Su una stradina di campagna puoi farmi
fare qualunque follia, ma l’asfalto non mi piace.
– Aspettami cinque
minuti, – rispose cheto Milton e avanzò verso la villa, mentre
soffiando l’altro si accoccolava sui talloni e con lo sten posato
sulla coscia sorvegliava lo stradale e i viottoli del versante.
Lanciò pure un’ultima occhiata al compagno. – Ma come cammina?
In tanti mesi non l’ho
mai visto camminare così come se camminasse sulle uova.
Milton era un brutto:
alto, scarno, curvo di spalle. Aveva la pelle spessa e pallidissima,
ma capace di infoscarsi al minimo cambiamento di luce o di umore. A
ventidue anni, già aveva ai lati della bocca due forti pieghe amare,
e la fronte profondamente incisa per l’abitudine di stare quasi di
continuo aggrottato. I capelli erano castani, ma mesi di pioggia e di
polvere li avevano ridotti alla più vile gradazione di biondo.
All’attivo aveva solamente gli occhi, tristi e ironici, duri e
ansiosi, che la ragazza meno favorevole avrebbe giudicato più che
notevoli. Aveva gambe lunghe e magre, cavalline, che gli consentivano
un passo esteso, rapido e composto.
Passò il cancello che
non cigolò e percorse il vialetto fino all’altezza del terzo
ciliegio. Com’erano venute belle le ciliege nella primavera del
quarantadue. Fulvia ci si era arrampicata per coglierne per loro due.
Da mangiarsi dopo quella cioccolata svizzera autentica di cui Fulvia
pareva avere una scorta inesauribile. Ci si era arrampicata come un
maschiaccio, per cogliere quelle che diceva le più gloriosamente
mature, si era allargata su un ramo laterale di apparenza non troppo
solida. Il cestino era già pieno e ancora non scendeva, nemmeno
rientrava verso il tronco. Lui arrivò a pensare che Fulvia tardasse
apposta perché lui si decidesse a farlesi un po’ più sotto e
scoccarle un’occhiata da sotto in sù. Invece indietreggiò di
qualche passo, con le punte dei capelli gelate e le labbra che gli
tremavano.
«Scendi. Ora basta,
scendi. Se tardi a scendere non ne mangerò nemmeno una. Scendi o
rovescerò il cestino dietro la siepe. Scendi. Tu mi tieni in
agonia».
Fulvia rise, un po’
stridula, e un uccello scappò via dai rami alti dell’ultimo
ciliegio.
Proseguì con passo
leggerissimo verso la casa ma presto si fermò e retrocesse verso i
ciliegi. «Come potevo scordarmene?» pensò, molto turbato. Era
successo proprio all’altezza dell’ultimo ciliegio. Lei aveva
attraversato il vialetto ed era entrata nel prato oltre i ciliegi. Si
era sdraiata, sebbene vestisse di bianco e l’erba non fosse più
tiepida. Si era raccolta nelle mani a conca la nuca e le trecce e
fissava il sole. Ma come lui accennò ad entrare nel prato gridò di
no. «Resta dove sei. Appoggiati al tronco del ciliegio. Così».
Poi, guardando il sole,
disse: «Sei brutto». Milton assentì con gli occhi e lei riprese:
«Hai occhi stupendi, la bocca bella, una bellissima mano, ma
complessivamente sei brutto». Girò impercettibilmente la testa
verso lui e disse: «Ma non sei poi così brutto. Come fanno a dire
che sei brutto? Lo dicono senza… senza riflettere».
Da: Beppe Fenoglio, Una questione privata
Nessun commento:
Posta un commento