E’ uscito da poco per Il Mulino Sapere, di Alessandro Carrera. Ne proponiamo un estratto
«Sono un DJ, sono quello che suono»
di Alessandro Carrera
[…] La scrittura come strumento comunicativo e politico, in opposizione al suo uso sacro, ritualistico o gnomico, era ancora relativamente nuova quando Platone scrisse il Fedro e ne fece protagonista un Socrate preoccupato del fatto che scrivere per denaro, come stavano facendo gli autori di discorsi politici, avrebbe distrutto la conoscenza acquisita per mezzo di conversazione e memoria. Personalmente, preferiva non scrivere. In effetti, fu l’ultimo uomo colto che poté scegliere di non
scrivere. Ma non sottovalutava il potere del nuovo mezzo e preferiva che Fedro gli leggesse il discorso di Lisia sull’amore invece di cercare Lisia e ascoltarlo di persona perché, come disse, «c’è qui anche Lisia», presente nel suo scritto. E se Lisia è presente vuol dire che è riuscito a disincarnarsi, che la scrittura ha già trionfato e non ha avuto bisogno di aspettare il computer, le è bastato un papiro.
I doni della tecnologia (e la scrittura alfabetica è la tecnologia più potente mai inventata) non possono essere restituiti facilmente al mittente. Si creano da sé il proprio destino nel momento stesso in cui appaiono sulla pubblica piazza. Prima di Facebook, nessuno era disperato perché non c’era Facebook. E nessuno che abbia la mia età considera una tragedia che non ci fosse Facebook quando eravamo al liceo (oh, le meravigliose interazioni sociali che ci sono mancate!). Le anticipazioni sono tanto rischiose quanto i rimpianti. Nei fumetti (Dick Tracy) e nella fantascienza fino agli anni Ottanta (Star Wars incluso), i telefoni portatili sono incorporati in orologi da polso. Quegli stessi autori che avevano visioni di astronavi più veloci della luce sfreccianti attraverso galassie lontane non erano riusciti a concepire un telefono senza fili da premere contro le orecchie. (La ben nota eccezione è Star Trek, in cui il Capitano Kirk usa un communicator in viva voce che anni dopo sarebbe diventato il primo Motorola apribile.)
Sarebbe auspicabile che gli insegnanti fossero «designer della situazione di apprendimento», ma abbiamo già visto che il design non è arte per l’arte, deve seguire una funzione. E qual è dunque la funzione dell’insegnante? Deve impartire conoscenza, come alcuni si ostinano a credere? Deve raddrizzare il legno storto dell’umanità, come si pratica nelle scuole americane e non, piene di insegnanti virtuosissimi e correttissimi? O deve far finta di essere il compagno di giochi degli studenti, lasciar correre più che si può e non prendere mai troppo sul serio quello che insegna?
Nell’album Lodger (1979), David Bowie canta: «Sono un dj, sono quello che suono» («I am a dj, I am what I play»). Ora che le radio sono state sostituite dalle piattaforme di streaming e parecchie tra quelle rimaste sono sequenziate al computer, il ruolo del deejay è passato ai professori di materie umanistiche, che ogni giorno fanno girare sul piatto tutti i riferimenti culturali su cui possono mettere le mani, sperando che i loro rumorosi o serafici studenti li troveranno passabilmente interessanti. Il fatto è che nell’era dei social media nessuno pensa di aver bisogno di un insegnante, così come chi ha il GPS non si ferma a chiedere indicazioni stradali. Se capiti all’inferno senza GPS forse avrai bisogno di Virgilio, ma se vivi nel paradiso della comunicazione non hai bisogno di Beatrice, a meno che non abbia un profilo accattivante sugli ultimi social media.
Personalmente, ho iniziato a insegnare come supplente subito dopo il liceo, nel 1972, quando la scuola media unificata era a corto di insegnanti, Pasolini non aveva ancora proposto di abolirla e il ministero della Pubblica Istruzione bandiva un concorso ad ogni ritorno della cometa di Halley. Ho svolto molti altri lavori, ma sempre insieme a qualche incarico di insegnamento. Sono cinquant’anni che ad ogni inizio di settembre mi ritrovo dietro una cattedra. Ho progettato più corsi di quanti ne possa ricordare, ma non so se sono un «designer della situazione di apprendimento». Di fatto, da una dozzina d’anni in qua non insegno veramente, faccio il dj. Quando il mio corso è su Dante, metto sul piatto Dante. Quando insegno Fellini, Nietzsche, Abbas Kiarostami o l’ultima tendenza della critical theory faccio girare qualunque remix riesco a trovare. Ho imparato a tagliare, mischiare, graffiare, campionare e sequenziare (per chi è del mestiere: cutting-up, mashing-up, scratching, sampling, sequencing). Imposto le frequenze, passo da una playlist all’altra in dissolvenza incrociata e ci faccio sopra qualche rap. Ma sia chiaro che non sto insegnando nulla, e lo so benissimo. Certamente nulla di come è stato insegnato a me. Sto facendo il dj della cultura. I miei studenti, peraltro, non sono consumatori estatici. Come utilizzatori di applicazioni (lo stadio successivo al consumo), mi considerano una app che è supposta sapere qualcosa in più di quanto loro siano tenuti a imparare.
Ma dicendo questo non li critico affatto. Non è colpa loro. In realtà non c’è alcuna colpa. È «il discorso dell’università», come lo chiamava Lacan – nella forma moralistico/ludica che hanno assunto le materie umanistiche per sopravvivere – a trasformare la lezione in un tranquillo club pomeridiano. Io sono quello che gli mette su la musica. Loro sono lì per ballare. Riesco a scorgere la piccola danza che si agita nelle loro menti ogni volta che infilo una sequenza particolarmente riuscita. L’effetto potrebbe scomparire nel momento in cui finisce la lezione o potrebbe tornare a perseguitarli tra vent’anni. Questo, nessun insegnante lo può mai sapere. Dopo anni di deejaying, l’unica cosa che so è che non so più niente, sono quello che suono e di me non resta altro, tranne la speranza che i miei «fantastici mix» («My awesome mix», per citare una scena di Pulp Fiction), resteranno «belli» come una pila di vecchi 78 giri di Delta blues, ritrovati in soffitta e subito elevati da artefatti ad archetipi.
Ma non posso negare che mi sto divertendo moltissimo. Mi piace fare il dj della cultura. So che è un tradimento del sapere, e che il mio è un piacere perverso, ma mi piace più di quanto mi sia mai piaciuto insegnare. Perlomeno mi sento in sintonia con un tempo in cui la post-produzione ha più peso della produzione stessa. Il segreto, che non è affatto un segreto, sta tutto nel mettersi dalla parte degli studenti. Cosa ci chiedono, dopotutto? Di non fare gli insegnanti. Di insegnare e basta. E un vero dj, anche quando sembra che non insegni nulla, trasmette un gusto, una capacità di discernimento, uno stile. Nelle parole di Nicolas Bourriaud, ex direttore dell’École nationale supérieure des Beaux-arts di Parigi, la cui scoperta mi ha confortato non poco,
«La cultura del dj nega quell’opposizione binaria tra la proposta del trasmettitore e la partecipazione del ricevitore che è al centro di molti dibattiti sull’arte moderna. Il lavoro del dj consiste nel concepire dei collegamenti attraverso i quali le opere fluiscono l’una nell’altra, rappresentando allo stesso tempo un prodotto, uno strumento e un medium. Il produttore è solo un trasmettitore per il produttore successivo, e ogni artista d’ora in poi si evolve in una rete di forme contigue che si incastrano all’infinito. Il prodotto può servire a fare opera, l’opera può tornare ad essere oggetto: si stabilisce una rotazione, determinata dall’uso che si fa delle forme.»
Pezzo ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=46023
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