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SETTANT’ANNI DI MASSIMO TROISI
Proprio all’inizio di Laggiù qualcuno mi ama, Mario Martone dice una frase che è tutto: «Il cinema di Troisi per me era bello perché aveva la forma della vita». E avere la forma della vita significa avere la forma della realtà, delle cose che conosciamo, di quello che ci circonda e, allo stesso tempo, di quello che sogniamo. Avere la forma della vita è una grossa, grossissima responsabilità. Eppure, con un gioco di sfumature e non detti, di espressioni e occhi stretti, può diventare anche un’avventura.
Troisi aveva questa capacità: sapeva catturare l’essenza delle persone, dei rapporti e dei sentimenti con poco. Un gesto, una smorfia, una manciata di parole masticate e farfugliate confusamente. Non incarnava l’eroe romantico del cinema degli anni Sessanta; non era affascinante nel senso più classico del termine. Era sé stesso, e questa sì che era una rivoluzione. Quando andava in scena, fingeva il giusto e si tratteneva. Per lui, disse una volta Ettore Scola, gli attori napoletani sono terribili perché esagerano sempre.
Troisi rappresentava l’uomo medio, comune, schiacciato dall’insicurezza e costantemente spinto – dalle aspettative, dalla famiglia; da sé stesso, soprattutto – a essere altro. Il piccolo borghese, il figlio d’operai, quello che ha visto tutte e due le parti della strada: dove si vive discretamente, e dove ogni giorno è un tira e molla di conquiste, sofferenze e sconfitte.
Troisi era napoletano, nato a San Giorgio a Cremano il 19 febbraio 1953. Settant’anni fa, oramai. E in qualche modo, con i suoi film e le sue opere, era in grado di sintetizzare un altro modo di essere napoletani. Uno più libero, meno costretto. Uno erede della tradizione, per carità, ma pure dei tempi moderni e della rivoluzione culturale che, tra gli anni Settanta e Ottanta, aveva attraversato l’Italia. Il cinema e il teatro di Troisi erano politici: perché pensati all’interno di un contesto preciso, e mai adeguati alle esigenze degli altri. A Sanremo, dove era andato per promuovere Ricomincio da tre, preferì non esibirsi: non voleva depositare in anticipo il testo del suo monologo. Sempre in Ricomincio da tre, parlava di relazioni extraconiugali e ragazze madri; affrontava, e non ignorava, un certo femminismo. Vedeva l’amore per quello che era: solo amore.
Ammirava Pasolini, e quell’abilità pasoliniana di dire tutto e il contrario di tutto, di essere presente, partecipe, e di non limitarsi mai. Io, diceva, questa cosa non la so fare; non riesco a lasciarmi andare. Eppure nei suoi film infilava pensieri e considerazioni, e andava oltre. Faceva centro. Le persone lo vedevano, e dopo le risate, che sono la reazione più spontanea e viscerale, cominciavano a riflettere.
Pure quando faceva parte della Smorfia, con Enzo Decaro e Lello Arena, portò in scena la guerra e la religione, prendendo in giro chiunque. Sé stesso, certo. La sua Napoli, e una società che si diceva moderna, al passo con i tempi, e che in realtà era schiacciata dal conservatorismo della borghesia e della Chiesa.
Troisi era un Masaniello più pacato, più furbo, profondamente attento e consapevole. Quando iniziò a recitare e a esibirsi, lo fece prima nella chiesa di quartiere, e poi, costretto ad abbandonarla dal parroco contrariato, finì in un teatrino off, che altro non era che un garage. In un’intervista con Isabella Rossellini, diceva: per entrarci, devi metterti le scarpe da ginnastica, altrimenti rischi di scivolare e di ritrovarti direttamente sul palco. Isabella Rossellini rideva, lui accartocciava un sorriso; ma era serio, serissimo.
In un’intervista con Alessandro Ferrucci de Il Fatto Quotidiano Lello Arena, che con Massimo Troisi ha lavorato per anni e ha condiviso qualunque cosa, lo ricorda come intransigente. Perché, come Totò ed Eduardo, aveva una visione specifica, verticale, dell’arte e del fare arte. Se vuoi riuscire, devi impegnarti. E tutto il resto, così, passa in secondo piano. Viene in un altro istante. Non solo la casa, la famiglia e gli amici: pure la salute. («Quando c’è l’amore c’è tutto!» «No», diceva in Ricomincio da tre, «chella è ‘a salute!»)
In Laggiù qualcuno mi ama, Martone fa una cosa stupenda: incontra Anna Pavignano, sceneggiatrice e scrittrice, che lavorò con Troisi a tutti i suoi film da regista (tranne Non ci resta che piangere, che rientra in un altro discorso). E le fa raccontare un altro Massimo, uno che si prestava al gioco, che si fingeva paziente di due analiste, e che così, sulla scia del momento, si raccontava e ricordava. Il rapporto con il padre, le prime diapositive della memoria; cose che lo avevano segnato. Una ragazza, confessò, mi mandò una cartolina e mi scrisse: ciao, “uomo”. Con uomo tra virgolette. E questa cosa mi colpì. Come aveva fatto, si chiedeva Troisi, a trovarmi uomo?
E poi Martone accede, forse per la prima volta, a un tesoro di fogli e foglietti, di note e agende, e fa leggere cose bellissime e potentissime a una serie d’attori e attrici pazzeschi, come Silvio Orlando, Lino Musella, Toni Servillo, Pierfrancesco Favino, Massimiliano Gallo e Valerio Mastandrea, ma pure Teresa Saponangelo e Luisa Ranieri. Senti Troisi, e lo senti qui, all’altezza della pancia, dietro le orecchie: un fruscio di napoletano e italiano. Che brividi, che emozione.
Massimo Troisi era diventato, suo malgrado, un simbolo. Ora che ho fatto un film che è andato bene, scherzava, tutti mi chiedono di parlare di cose serie. Esiste Dio?, mi domandano. E rideva. Sono gli effetti collaterali del successo. Un successo che, nel suo caso, non lo cambiò mai. In rete, si trovano certi filmati, meravigliosi, dove si diverte a giocare a calcio con Giovanni Benincasa, dove ride, scherza, dov’è Massimo senza essere Troisi; e riconosci nella sua voce quell’accoratezza che lo rendeva sempre unico.
Nei suoi film, dicevamo, Troisi parlava di sé stesso e dell’uomo della strada. È partito da Napoli, ma poi da Napoli, contrariando la critica, s’era spostato. A Fellini, faceva notare, mica chiedono perché se ne è andato da Rimini; a me sì. Troisi era Napoli e Napoli era Troisi nell’immaginario comune, oltre i confini della Campania. E pertanto questo sodalizio, questo connubio maledetto, non si poteva spezzare. Una volta che c’hai conquistati con il napoletano timido, insicuro, che si finge leone e che in realtà è agnello, non puoi cambiare: devi ripeterlo; devi insistere. E ora muoviti, torna in scena. Op, op.
Con Le vie del signore sono finite, Troisi aveva affrontato, di petto, la questione politica. Parlava di fascismo e lo ridicolizzava. Da quando c’è lui, diceva riferendosi a Mussolini, i treni arrivano sempre in orario. Ma a questo punto, scusate, non potevano farlo capo delle ferrovie? Perché proprio capo del governo?
Troisi era ovunque, era tutto; e all’artificio della finzione, preferiva la possibilità della verità. In Non ci resta che piangere, lui e Benigni improvvisano. Si divertono. E lo vedi. Ridono davvero, e ridono come due amici che stanno condividendo qualcosa, un gioco, uno scherzo, e lo fanno con quella bravura che è tipica dei fuoriclasse: naturalmente, senza sforzo; regalando, e non sottraendo. A voi, non a noi. Insieme, mai da soli. La lettera a Savonarola rimane uno dei punti più alti della comicità italiana. Allo stesso livello, probabilmente, di un’altra lettera: quella di Totò e Peppino in Totò, Peppino e la malafemmina. Chi dice cos’è giusto, e chi, invece, cos’è sbagliato? Qui si crea, si fa arte. E bastano una camera, una penna e un foglio bianco. Provateci voi, ora.
I napoletani, con Troisi, hanno sempre avuto un rapporto diverso. Non di attesa, no. Ma di fratellanza. Troisi era uno che ce l’aveva fatta, uno che andava in tv e scherzava sui luoghi comuni: sì, diceva; a Napoli andiamo in giro sempre con chitarre e mandolini, e mangiamo solo pasta e pizza, guai a fare altrimenti. La gente in studio rideva, la gente a casa sorrideva: la prima divertita, presa alla pancia dei sensi; la seconda consapevole e d’accordo. Troisi era riccioluto come Maradona, e per qualcuno – per più di qualcuno, via – rappresentava la stessa cosa: il riscatto. E, volendo, la salvezza.
Questo cortocircuito che s’è creato, ed è inutile negarlo, tra Troisi e Napoli, tra Troisi e napoletanità, è un cortocircuito serioso, difficile da districare, ma di cui è importante parlare (e infatti, sì, lo fa anche Martone in Laggiù qualcuno mi ama). Troisi amava quello che faceva, e perciò lo faceva quando poteva, come poteva e seguendo un’idea precisa.
Dopo il successo dei primi film, Ricomincio da tre e Scusate il ritardo, si era costruito un suo spazio, e non aveva più fretta. La fame dell’esserci, all’improvviso, era stata sostituita dalla saggezza dell’esperienza. Ed è questa stessa saggezza che insegna: le cose vanno fatte per bene, con cognizione, oppure no, vanno evitate.
Prima di Scusate il ritardo, con Morto Troisi, viva Troisi!, c’era stata l’occasione per parlare di morte, per esorcizzarla, per stendersi su un tavolo, farsi salutare da tutti, e partecipare, così, al proprio funerale. Perché Troisi, a questo, ci pensava. E ci pensava seriamente: nei suoi appunti, in quei faldoni che Martone ha ripreso, ritornano spesso pensierini e idee, pizzicori e confusioni. Morte e ciorta, morte e fortuna. Fortuna a imprevisti. Oggi così, domani chissà. Oltre il Troisi regista, c’era il Troisi filosofo. Ma filosofo vero, riflessivo, mai spudorato e nemmeno ostentato (questi foglietti sono rimasti privati a lungo, custoditi da Anna Pavignano: grazie, grazie, grazie; mille volte grazie).
Non ci resta che piangere, che viene dopo Scusate il ritardo, è come un’enorme parentesi: due talenti dell’epoca, Troisi e Benigni, lavorano insieme e danno il meglio di sé, divertendosi. E questo divertimento sapevano portarlo anche all’esterno del set, nelle interviste; rispondendo a quelle domande serissime sulla comicità contadina e piccolo borghese. A lui non piace la comicità contadina, diceva Benigni, a me non piace quella piccolo borghese; e così ci siamo accordati sulla comicità piccolo contadina.
Nel 1987 è arrivato Le vie del signore sono finite, e poi, quattro anni dopo, nel 1991 Pensavo fosse amore… invece era un calesse. E che film è, questo. Non solo è l’ultimo diretto da Troisi, ma è un miscuglio di tante cose, di tante sfumature, del cinema che parla d’amore e dell’esperienza di un ragazzo che è diventato uomo e che di colpo, nel gioco che è l’arte, ha capito. Siamo diversi, diversissimi. Ed è questa diversità che ci rende quello che siamo. E non va soffocata, non va imbrigliata; va, come tutte le cose, rispettata. Troisi metteva alla berlina l’onestà degli amici, esaltava, giustamente, la sofferenza e la solitudine; riscopriva l’amore dopo essere stato geloso e arrabbiato.
Prima di Pensavo fosse amore… invece era un calesse, Troisi si era preso una pausa dalla regia e s’era affidato, con l’anima e con il pensiero, a Ettore Scola. Insieme, lavorarono a Splendor, Che ora è e Il viaggio di Capitan Fracassa: per il secondo, Troisi vinse la Coppa Volpi (ex aequo con Marcello Mastroianni); e per il terzo, interpretò il ruolo che più volte, nella vita, gli era stato assegnato dalla critica e dall’opinione pubblica: quello di Pulcinella. Ed era un Pulcinella vero, melodrammatico, sofferente, prigioniero dell’amarezza e dell’intelligenza: lui, contrariamente ad altri, vedeva tutto; sapeva tutto; e doveva tenere ogni cosa per sé. Perché chi ride è – parola orribile, ma assoluta – sensibile.
Il Postino è l’ultima cosa che Troisi ha fatto, e la chiamo così, cosa, per un motivo preciso. Perché più che un film è stato una lettera d’amore al cinema e all’impegno; e perché più che un’interpretazione, la sua è stata l’opera di uno scultore che incide il legno, si lascia accecare dalle schegge, e che comunque trova un grammo di verità.
Diede tutto per Il Postino, e non è un’esagerazione. L’ultimo giorno di riprese, un venerdì, lavorò con un’ambulanza pronta fuori dal set. Doveva partire per un trapianto di cuore, ma preferì, consapevolmente, di recitare intero: sia psicologicamente che fisicamente. Riguardare Il Postino, ancora oggi, significa partecipare a una grande lezione di cinema: perché Troisi recitava in napoletano e Philippe Noiret in francese. Eppure, vedendoli, non si direbbe. Vedendoli, si ha un’altra impressione. Questi si capiscono, e si vogliono veramente bene. Ne Il Postino il personaggio di Troisi viene ammazzato in un pestaggio dalla polizia. Troisi, proprio il giorno dopo aver chiuso la sua parte, morì.
Laggiù qualcuno mi ama, il documentario di Martone, mette insieme tutti questi elementi, e sa andare oltre. Sa andare, cioè, all’eredità di Troisi. Com’è Napoli oggi, grazie a lui; e che cosa resta della sua arte. Chi lo ha amato lo ha, anche involontariamente, seguito. Paolo Sorrentino gli scrisse una lettera quando era ancora un ragazzo, chiedendogli consigli. E nel suo ultimo film, È stata la mano di Dio, ha deciso di inserire riferimenti e omaggi. Sul finale, racconta, non ho avuto il coraggio di usare un fermoimmagine, come faceva Troisi; e tuttavia, dice, ci avevo pensato.
Nel finale di È stata la mano di Dio c’è pure Pino Daniele. Si sente la sua Napule è. E sull’amicizia che univa Daniele e Troisi qualcosa va detto. Non per inseguire quello che già tutti hanno scritto, ripetuto e faticosamente ribadito, no. Ma per parlare di persone. Di due amici. Di due esseri umani che, in modo così naturale, si sono trovati e riconosciuti. Due specchi messi l’uno di fronte all’altro. Ecco, Troisi vedeva l’altro; e lo vedeva nel profondo, nel cuore, nella sostanza delle cose. E questo, al di là di qualsiasi altra considerazione, è un potere vero, reale. Lo fece con Martone, prendendolo sotto braccio e parlando con lui alla pari. E lo fece con Arena e Decaro. Lo fece con chi lo amava, con chi lo conosceva; lo fece senza chiedere niente. Troisianamente.
Per un napoletano, Massimo Troisi è un confine oltre il quale si può essere migliori o peggiori. Troisi è un esempio, e come gli esempi più importanti scivola sotto pelle, anche quando non è evocato, e viene fuori in un tic, un gesto, in un’alzata di spalle. Troisi, poi, è un attore e regista, e dunque bisogna studiarlo e imitarlo per quello. Ma il Troisi vero, comunicatore, carnale, figlio del Vesuvio e del mare, maledetto come sono maledetti tutti i napoletani dalla tradizione, dalla risata e da ciò che il mondo pensa di loro, era un altro.
Pigro, perennemente seduto o steso; capace di grandi tocchi a pallone, ma riflessivo, in attesa, travolto dalla frenesia del divertimento, come ha raccontato un altro suo grande amico, Renzo Arbore, e allo stesso tempo costretto dal peso dei pensieri in un unico posto. Le parole hanno un potere, e Troisi lo sapeva. Le parole uniscono le persone e, a volte, le allontanano. Possono essere un ponte e un terremoto.
Raffaele La Capria, in Troisi, aveva trovato il simbolo dell’insicurezza dei napoletani che s’adattano all’italiano; e aveva scritto: «Tale insicurezza […] giunge quasi all’afasia, all’impossibilità di parlare, di Massimo Troisi. È un’afasia espressiva la sua, come a far capire che con questa lingua della “napoletanità” non ci sono più cose nuove da dire, e dunque niente più parole, ma solo gesti e allusioni a una lingua che c’è stata e forse non c’è più, e che tuttavia è sempre sottintesa, protettiva e operante, perché resta ancora l’unico punto di riferimento, l’unico appiglio di una sempre più incerta identità». Troisi lavorava con l’etere, con l’aria, con quello che solo un’occhiata, uno scatto o un silenzio possono suggerire; si muoveva nel campo antico della spontaneità, e faceva dei riflessi un prolungamento dei suoi pensieri. Il napoletano, signore e signori, non è un dialetto: è una lingua. E ha la stessa età del mondo, perché viene dalla parte ferale, più ingenua e verace, delle persone.
Troisi era ed è moderno. Più dei contemporanei, più dei cosiddetti rivoluzionari culturali; più di chi oggi impugna il cinema come un’arma e non come un’occasione. Più degli stronzi che lo scimmiottano, e che si nascondono dietro la sua maschera. Troisi conosceva la risata, e ne aveva studiato tutti i meccanismi; ma conosceva pure l’altra faccia della medaglia, e cioè la tristezza e la disperazione. E non solo era riuscito ad arrivare a un compromesso con esse; ne aveva fatto due colonne portanti della sua – altra parola terribile, perdonatemi – poetica. Troisiani, un po’, lo siamo tutti. Troisiani, sinceramente, è quello che vogliamo diventare. E se non ne siamo in grado, allora guardiamo; e se guardiamo, cominciamo a pensare. E appuntiamo, sospiriamo, viviamo una vita sotterranea che ha però lo stesso valore di quell’altra vita, quella terrena e superficiale.
Troisi era, ed è, questo. Un invito all’attenzione, all’intelligenza, alla veracità. Troisi era Troisi, così come Totò era Totò e De Filippo era De Filippo. E allora? Allora, a volte, basta l’ovvio; basta affermare quello che è sotto il naso di tutti e non andare avanti. Di Troisi non ce ne saranno altri. Ne abbiamo conosciuto uno, e siamo stati abbastanza fortunati da vederlo. Volendo, possiamo rimirarlo ancora e ancora e ancora nei suoi film. Consoliamoci. E ripetiamo insieme, come nel suo speciale: Morto Troisi, Viva Troisi!
Laggiù qualcuno mi ama, il documentario di Mario Martone presentato in anteprima al Festival di Berlino, prodotto da Indiana Production, Vision Distribution e Medusa Film in collaborazione con Sky, sarà al cinema dal 23 febbraio. Distribuzione di Medusa Film e Vision Distribution. Soggetto e sceneggiatura di Anna Pavignano e Mario Martone. Fotografia di Paolo Carnera. Montaggio di Jacopo Quadri. Musiche di Pino Daniele, Antonio Sinagra e Luis Bacalov.
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