07 febbraio 2023

INTERVISTA A SALMAN RUSHDIE SUL NEW YORKER

 


Salman Rushdie, il profilo                                    (e l’intervista) sul New Yorker

Nel saggio di David Remnick sul settimanale c’è molto di più di quel che riferiscono i giornali

Oggi scrivono e parlano quasi tutti di Salman Rushdie e del nuovo romanzo,  Victory City (La città della vittoria nella traduzione italiana di Stefano Mogni e Sara Puggioni per Mondadori), nelle librerie proprio in queste ore.
Se ne dice parecchio anche perché il New Yorker ha pubblicato un lungo articolo/saggio/profilo/intervista del direttore David Remnick su e con lo scrittore. È la prima uscita pubblica di Rushdie dopo l’attentato che ha subito in agosto. Oltre all’articolo del settimanale, che trovate qui: “The Defiance of Salman Rushdie. After a near-fatal stabbing—and decades of threats—the novelist speaks about writing as a death-defying act”, il New Yorker pubblica anche il podcast con il colloquio fra Remnick e Rushdie. 

Sul nuovo romanzo di Rushdie si trovano ovunque sinossi, io mi limito a riportare quella di Remnick: 

“Una delle scintille che ha ispirato la scrittura  del romanzo è scaturita da un viaggio compiuto molti anni fa nella città di Hampi, nel sud dell’India, il sito delle rovine dell’impero medievale Vijayanagara. Victory City, è una specie di epopea medievale sanscrita trovata in un documento originale, è la storia di una giovane ragazza di nome Pampa Kampana, che, dopo aver assistito alla morte di sua madre, acquisisce poteri divini e fonda una gloriosa metropoli chiamata Bisnaga, nella quale le donne resistono al dominio patriarcale e dove vince la tolleranza religiosa, almeno per un po’. Il romanzo, ancorato saldamente nella tradizione del racconto del meraviglioso, attinge alle letture di Rushdie nella mitologia indù e nella storia dell’Asia meridionale”.

Aggiungo solo due altri fatti ricavati dal saggio di Remnick (che mi sembra meriti davvero una lettura completa).

Il  primo è che quando venne ferito lo scorso agosto da un uomo che voleva ucciderlo per eseguire la fatwa di Khomeini, Rushdie stava già lavorando a un’idea di un nuovo romanzo che parte dalla rilettura della Montagna magica di Thomas Mann e del Castello di Franz Kafka, “romanzi che usano un linguaggio naturalistico per evocare mondi ermetici e strani”. L’idea è creare un college immaginario come luogo, spazio di questa narrazione, ancora solo racchiusa in una serie di annotazione e appunti.

Il secondo è che al momento dell’attentato – che ha privato Rushdie della vista a un occhio e gli impedisce quasi totalmente l’uso di una mano – lo scrittore era sul palco del Chautauqua Institution a Chautauqua, nello Stato di New York, con un amico, Henry Reese. Reese, tra l’altro, venne aiutato da Rushdie diciotto anni fa a raccogliere i fondi necessari alla creazione della City of Asylum, un’istituzione fondata a Pittsburgh per sostenere la libertà di espressione, in particolare degli autori costretti all’esilio.

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