22 febbraio 2023

LA BORGHESIA MAFIOSA SECONDO UMBERTO SANTINO

 


Messina Denaro, borghesia mafiosa e 41 bis


Salvatore Palidda
21 Febbraio 2023

Un’ampia conversazione con Umberto Santino, fondatore e direttore dello straordinario Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”. Santino – tra i primi, già negli anni Settanta, ad approfondire il concetto di borghesia mafiosa, oggi al centro delle attenzioni con l’arresto di Matteo Messina Denaro – ragiona delle trasformazioni della lotta a Cosa nostra, riprende il significato dell’espressione “mafia finanziaria” e spiega il suo punto di vista sul 41 bis e sul caso di Alfredo Cospito

Cosa pensi di tutte le polemiche e delle tante interpretazioni a proposito dell’arresto di Messina Denaro?

Il procuratore Maurizio De Lucia ha voluto sottolineare che l’arresto di Messina Denaro è una vittoria dello Stato e il frutto di un impegno investigativo condotto con il massimo rispetto delle regole e ha manifestato la sua irritazione per quanti hanno minimizzato l’evento, con affermazioni del tipo “È malato e si è consegnato”, e hanno rispolverato dietrologie con allusioni a trattative, in continuità con pratiche che sono state oggetto di processi celebrati recentemente e che attendono il responso della Cassazione. Non ci sarebbe stato niente di tutto questo e se il procuratore non ha fatto nomi e cognomi, i riferimenti a quelli che ha definito “esperti” o a colleghi che “non fanno indagini da dieci anni”, erano facilmente decodificabili.

La mia lettura dell’arresto non può non riconoscere l’importanza dell’evento, se non altro per un’attesa durata trent’anni. Ciò non toglie che si possano fare delle precisazioni e delle riflessioni. Intanto c’è da dire che Messina Denaro non era il capo di Cosa nostra, come vorrebbe la vulgata corrente; era il capo della mafia trapanese e negli ultimi tempi si è soprattutto dedicato ad affari lucrosi, in varie attività, dagli impianti eolici agli alberghi e ai resort, ai supermercati e al contrabbando di carburanti. Affari per 5 miliardi di euro. E ha mantenuto l’immagine che circolava su di lui: personaggio anfibio, che coniugava tradizione e trasgressione. Figlio del capomafia Francesco, campiere e fattore della famiglia D’Alì (il rampollo Antonio, di Forza Italia, già senatore e sottosegretario, è in carcere per concorso esterno) ne aveva raccolto l’eredità, ma si atteggiava a homo novus: un playboy che ha avuto rapporti con molte donne, ha fatto una figlia che non ha mai incontrato, e in un libretto, Lettere a Svetonio, che contiene lo scambio epistolare tra il giovane capomafia (Alessio) e un ex sindaco di Castelvetrano, con precedenti penali, legato ai servizi segreti, Antonino Vaccarino (Svetonio) fa citazioni letterarie, si definisce un “uomo vero”, che ha la “coscienza a posto”. Evidentemente non gli pesano tutti gli omicidi che ha commesso e di cui si vanta: “Con i morti ammazzati potrei riempire un cimitero”.

Quanto alle sue attività imprenditoriali, dalle intercettazioni risulta che Toto Rina ne abbia dato un giudizio sprezzante: si occupa di “pali della luce”, alludendo all’eolico, invece di fare quello che il capo dei corleonesi, che lo considerava un suo allievo prediletto, si sarebbe aspettato: cioè che continuasse la strategia stragista, per piegare lo Stato ai voleri di Cosa nostra. Per Riina essere mafiosi significa avere l’arsenale delle armi sempre a disposizione.

L’arresto è stato interpretato come la conclusione della parentesi corleonese: è stato catturato l’ultimo stragista, che ha dovuto abbassare la guardia, a causa della sua malattia. C’è poi chi sostiene che una trattativa ci sarebbe stata, ma non tra il capomafia e lo Stato, ma all’interno di Cosa nostra. Cioè Messina Denaro sarebbe stato consigliato, o costretto, a farsi arrestare in cambio di qualche concessione, come la sospensione del 41 bis ai fratelli Graviano. Ma qui entriamo in un capo minato, in cui domina il detto e il non detto di un personaggio come Salvatore Baiardo, di professione gelataio, diventato star televisiva, che sarebbe un portavoce dei Graviano e avrebbe incontrato il fratello di Berlusconi, presumibilmente per recapitargli un messaggio, non certo affettuoso, dei fratelli di Brancaccio. Siamo al centro del problema più grosso: i mandanti esterni delle stragi.

Tra le interpretazioni dell’arresto un tema dominante è stato quello della borghesia mafiosa, con riferimento ai medici che l’hanno assistito, agli amministratori che gli hanno rilasciato le carte d’identità, ai prestanomi che si sono intestate le sue attività imprenditoriali, alle logge massoniche: Campobello di Mazara è un paese con 11 mila abitanti e due logge massoniche. E poi ci sono tutti coloro che lo hanno visto circolare come un libero cittadino e dicono di non averlo riconosciuto. A parlare di borghesia mafiosa per primi sono stati i magistrati, poi sulla loro scia i giornalisti e pochissimi hanno ricordato che questa espressione, e l’analisi che ne consegue, sono al centro della mia attività di ricerca, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso.

Vogliamo parlarne?

Il mio concetto di borghesia mafiosa1 ha un avo e un padre. L’avo è Leopoldo Franchetti, che in un’inchiesta privata svolta nel 1876 assieme a Sidney Sonnino – molti, compreso un giornalista che mi ha intervistato, scrivono che erano parlamentari; lo saranno dopo: Sonnino dal 1880, Franchetti dal 1882 – parlava di “facinorosi della classe media” che, attraverso “l’industria della violenza”, acquisivano un ruolo dominante e godevano di buoni rapporti con lo Stato e le istituzioni. Il padre del concetto di borghesia mafiosa è Mario Mineo, economista e politico, prima con il Psi e il Pci, poi con i gruppi extraparlamentari, che parlava di una “nuova borghesia capitalistico-mafiosa” formatasi negli anni Cinquanta e che aveva assunto un ruolo egemonico nella società siciliana.

Nella mia analisi l’organizzazione mafiosa che, in seguito alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta viene denominata Cosa nostra, è al centro di un blocco sociale transclassista, che va dagli strati più bassi della popolazione a quelli più alti. Per gli strati più bassi che, in un contesto con un’economia legale debole o inesistente, vivono di illegalità, Cosa nostra è una dispensatrice di risorse che assicurano la sopravvivenza e un mondo a cui guardare con l’aspirazione a farne parte o ad aggirarsi nei dintorni, raccogliendone le briciole; per gli strati più alti: professionisti, imprenditori, amministratori pubblici, politici, rappresentanti delle istituzioni, Cosa nostra vuol dire un’accumulazione illegale continua e a grandi cifre, che assicura soldi facili, un insieme di relazioni indispensabili per avere un ruolo sul piano economico, sociale e politico. Il sistema relazionale è un capitale sociale che apre molte porte.

Il mio “paradigma della complessità”, che coniuga crimine, accumulazione, potere, codice culturale, consenso sociale, e che sul piano storico intreccia continuità e trasformazione, rimanda al ruolo storico della mafia nel sistema di potere, nella “costituzione materiale”, cioè nello Stato com’è e non come dovrebbe essere. Quello che scriveva il questore Sangiorgi2 sui mafiosi che proteggono e sono protetti da senatori e altri personaggi al vertice delle istituzioni, valeva ai suoi tempi, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento; valeva già ai tempi di Franchetti, poco dopo la formazione dello Stato unitario, è valso successivamente e vale anche oggi, in forme che si adeguano al mutare degli eventi.

In fin dei conti come va valutato questo arresto nella storia recente della lotta alla mafia? Pensi che questa lotta sia ancora sulla giusta strada, sia efficace, segua modalità opportune?

L’arresto di Messina Denaro segna certo la fine di un’epoca ma è anche un colpo alla mafia contemporanea: Messina Denaro era insieme lo stragista sanguinario e l’imprenditore che gestiva le attività di cui ho parlato.

Negli ultimi decenni la lotta alla mafia sul piano istituzionale si è configurata come reazione al lievitare della violenza, in un’ottica emergenziale. La legge antimafia e il maxiprocesso vengono dopo i grandi delitti dei primi anni Ottanta e in particolare il delitto Dalla Chiesa; gli altri provvedimenti sono una risposta alle stragi dei primi anni Novanta. Si è istituzionalizzato un doppio binario, che implica una distinzione tra gli affiliati all’organizzazione mafiosa e il resto della popolazione. E si è posto il problema della costituzionalità di queste norme, che allora si cercò di risolvere con il confronto tra beni giuridici a valenza costituzionale: da una parte l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, dall’altra la salvaguardia della vita e della libertà d’azione calpestate o minacciate dalle organizzazioni di tipo mafioso. Tra i due beni prevalse quest’ultimo.

Il problema si è ripresentato con il 41 bis e il 4 bis, cioè con il carcere duro e l’ergastolo ostativo per i mafiosi che non collaborano, che sarebbero incostituzionali e non rispetterebbero i diritti umani. È un dibattito ancora in corso.

Approfondiamo questo tema e in particolare l’applicazione del carcere super duro e dell’ergastolo ostativo anche a un anarchico additato come una sorta di capo terrorista. Cosa ne pensi?

L’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, che istituisce il cosiddetto carcere duro, fu introdotto nel 1986 “in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza” per i reati di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico e solo nel 1992 fu esteso ai reati di mafia e criminalità organizzata e l’ergastolo ostativo, introdotto dall’art 4 bis, che impedisce al condannato l’accesso ad alcuni benefici, si applica ai detenuti per “delitti commessi con finalità di terrorismo” e per associazione di tipo mafioso, se non collaborano con la giustizia. Queste disposizioni nascono dall’esigenza di impedire la comunicazione tra i detenuti e l’organizzazione di cui fanno parte, ma l’associazione di tipo mafioso non è comparabile dal punto di vista organizzativo con il terrorismo. Si può dire: la mafia è un fenomeno strutturale, il terrorismo congiunturale. Cosa nostra, e con essa le altre associazioni di tipo mafioso, è considerata un’organizzazione permanente, anche quando non ci sono atti di violenza visibili e eclatanti; una sorta di chiesa, in cui si entra con un giuramento e un rito di sangue, equivalente a una forma battesimale, e da cui non si esce, se non con la collaborazione con la giustizia, o con l’espulsione dell’affiliato, che sarebbe “posato”. Questa ritualità richiama la visione della mafia come ordinamento giuridico, distinto e contrapposto a quello statale, che rimonta al giurista Santi Romano. Quindi la funzione sia del carcere duro che dell’ergastolo ostativo è questa, e solo questa: impedire la comunicazione. Qualsiasi altro gravame fuoriesce da questa finalità e deve giudicarsi una forma di accanimento in contraddizione con i principi di uno Stato democratico.

Nel caso di Cospito siamo in presenza di un’applicazione ingiustificata: non c’è un’organizzazione anarchica che somigli in qualche modo alla mafia, per continuità, struttura organizzativa, obbligo di fedeltà. Alfredo Cospito non pare che abbia qualcuno con cui comunicare per dare un ordine per la commissione di un attentato o di un altro delitto. Non è lui che organizza e dirige le manifestazioni che danno luogo anche ad atti di violenza. Quando il ministro Carlo Nordio, alla dichiarazione di Cospito sull’uso del digiuno come un’arma, prende alla lettera questa espressione, giustamente gli si è fatta una lezione sull’uso e il significato di una metafora. Cospito si dice in lotta contro il 41 bis in qualsiasi caso, e qualche mafioso lo ha incoraggiato a continuare il digiuno per sostenere la loro richiesta della sua abolizione, ma questo non può intendersi come una sorta di aggravante che giustificherebbe la protrazione del 41 bis per lui.

Credi che l’attuale governo neofascista favorirà la lotta alla mafia? Le misure adottate dal passato governo con la riforma Cartabia e quelle che pare si approntino sono utili alla continuazione della lotta alla mafia?

La presidente del Consiglio alla notizia dell’arresto di Messina Denaro si è precipitata in Sicilia, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, quello della decimazione dei migranti di tipo nazista, che ricorda I sommersi e i salvati di Primo Levi, si è gloriato del fatto che è accaduto con il suo ministero. E si potrebbe pensare che i neofascisti al potere vogliano rappresentare una reincarnazione dello Stato forte, monopolista della violenza, che non tollera la presenza di un’organizzazione come la mafia, che non riconosce quel monopolio. Ma il neofascismo italico più che statalista è iperliberista: non intende “disturbare coloro che fanno”, cioè gli imprenditori che non vogliono vincoli alla loro attività; ha tentato di elevare la soglia dell’uso del contante, favorendo il riciclaggio; vuole limitare l’uso delle intercettazioni, indispensabili in indagini sulle mafie, anche quando non riguardano direttamente la mafia, e regimentare la libertà di stampa; vuole attenuare o eliminare i controlli sull’uso dei fondi europei per la pandemia, e tutto questo favorirà il ruolo delle mafie.

Su un terreno su cui si muovono le mafie, come quello dei migranti, il governo Meloni vuole continuare e aggravare la politica che fu di Minniti, con regole demenziali: le Ong possono fare un solo salvataggio, o imperdonabilmente crudeli: i porti sicuri sono i più lontani possibile. Vuole ridurre ed eliminare il reddito di cittadinanza che, nonostante brogli e abusi, ha dato da vivere a persone sotto la soglia della povertà, riducendo l’accettazione del lavoro nero e schiavistico e la dipendenza dalle mafie, escludendo per il tempo in cui sarà ancora in vigore la popolazione “occupabile”, un concetto astratto che non significa che c’è un lavoro, sicuro e con un pagamento dignitoso, ma che potrebbe esserci un’imprecisata offerta di lavoro. E ha ereditato la riforma Cartabia decisamente mafiogena su punti fondamentali, come la perseguibilità su querela di parte di reati come il sequestro di persona, eliminando un principio costituzionale fondamentale come l’obbligatorietà dell’azione penale e introducendo una privatizzazione del diritto, che esporrebbe la vittima di un’azione delittuosa, per l’atto stesso di ricorrere alla giustizia, alle reazioni, probabili o immancabili, degli autori del delitto. Un quadro che, al di là di dichiarazioni di circostanza, non può che favorire le mafie, tollerare la soggezione e indurre omertà. Si può obbiettare che l’obbligatorietà dell’azione penale nei fatti non è rispettata per la mole dei reati da perseguire, ma questo problema dovrebbe risolversi con una depenalizzazione dei delitti cosiddetti bagatellari, la cui individuazione andrebbe affidata a un’apposita commissione che dovrebbe essere super partes. Ma ci sono commissioni o altri organi super partes?

Lo scopo, perseguito da tempo e ora prossimo ad essere realizzato, è separare le carriere tra inquirenti e giudicanti, che si potrebbe anche fare senza mettere sotto controllo i PM. Si sta varando una politica giudiziaria che mette al guinzaglio la giustizia. E la condanna di Mimmo Lucano a 13 anni e 2 mesi, una pena più grave di quella prevista per i mafiosi: da 3 a 6 anni per chi fa parte dell’associazione mafiosa, da 4 a 9 anni per chi la dirige; l’assoluzione di Berlusconi che comprava con marchette milionarie il silenzio delle olgettine, dimostrano che ci sono magistrati che il guinzaglio ce l’hanno già.

C’è da chiedersi come si è arrivati a regalare il potere ai neofascisti, perché di questo si tratta: le divisioni del cosiddetto centrosinistra hanno spalancato la porta a un partito che non nasconde le sue origini, con la fiamma tricolore che sprizza dalla tomba di Mussolini, e risuscita la “nazione”. E qui si apre un tema di fondo: in Italia, nonostante le retoriche sull’antifascismo, sulla Resistenza, sulla Costituzione “più bella del mondo”, non abbiamo fatto i conti con il fascismo. Si è cominciato con Togliatti ministro della Giustizia e la sua amnistia che comportò la continuità delle strutture dello Stato: la pubblica amministrazione, la magistratura, la scuola, i servizi segreti; si è continuato con la formazione di un partito che raccoglieva i reduci di Salò e la tolleranza per i gruppi che si richiamavano apertamente al fascismo, hanno progettato ed eseguito le stragi e sono rimasti impuniti. Un lungo percorso che ha portato alla situazione attuale.

Cosa pensi di quanto hanno detto in parlamento i noti ex magistrati antimafia Roberto Scarpinato e Federico Cafiero de Raho, eletti nelle liste del M5S? La loro attività parlamentare può essere utile alla lotta alla mafia?

In una parodia di parlamento con semianalfabeti, senza arte né parte, alcuni con carichi penali pendenti, Scarpinato e De Raho sono gli unici, o tra i pochissimi, che hanno competenze maturate sul campo e capacità di analisi. Il problema è cos’è e cosa vuole essere un movimento come i 5 stelle. Dopo il governo Conte uno, con un presidente inesistente e Salvini come plenipotenziario, dopo una scenata inedita nella storia parlamentare, come il pubblico sculacciamento del fanfarone leghista, l’esperienza del Conte due ha avuto aspetti positivi, come la difficile gestione della pandemia, e la decisione di Conte di far eleggere i due ex magistrati ha l’aria di una formalizzazione di una scelta antimafia. Ma i 5 stelle, anche dopo la scissione pilotata dalla lobby Draghi, rimangono una creatura ibrida, multanime, con posture che, di fronte a un Pd che ha perduto ogni contatto con gli strati popolari ed è diventato un partito d’opinione che raccoglie voti soprattutto nei quartieri bene, sarebbero “di sinistra”, come la richiesta del salario minimo e l’attenzione per l’ambiente. Il quadro politico è segnato da una crisi della democrazia rappresentativa, con tassi di astensione del 60 per cento, che mostrano un’estraneità alla partecipazione che, in mancanza di alternative (una relativa crescita del volontariato e del terzo settore non incide sul piano elettorale) favorisce la destra estrema. Personaggi come Scarpinato e De Raho, con una loro storia e una loro cultura, in questo contesto, sembrano degli alieni.

Cosa è diventata Cosa Nostra?

Si parla di una Cosa nuova, una mafia manageriale, mercatista, che manda i figli a Oxford, ha rinunciato alla violenza e predilige la corruzione, insomma una sorta di maxilobby o un insieme di lobby, ma la realtà parla una lingua diversa. La rinuncia alla violenza nasce dagli effetti boomerang dei grandi delitti e delle stragi e non è detto che sia definitiva e non è necessario che sia agita, può avere un suo peso e una sua capacità di intimidazione e di condizionamento anche se è potenziale ed eventuale. La storia della mafia, ma direi di tutti i fenomeni di durata, persistenti nel tempo, è un intreccio di continuità e trasformazione-innovazione. L’estorsione continua ad esserci ed è la matrice identitaria, lo zoccolo duro che non viene archiviato per non diventare un mutante alla deriva. L’innovazione, l’uso di forme nuove e lo sfruttamento di nuove occasioni di profitto e di speculazione, che caratterizzano quella che già in un saggio del 1986 definivo “mafia finanziaria”, con un ruolo decisivo della borghesia mafiosa, sono indispensabili se non si vuole diventare un fossile, un carretto siciliano sperduto su una trazzera di campagna. La globalizzazione non cancella la dimensione locale e le prassi originarie, anche se possono apparire arcaiche e invece sono perfettamente funzionali alle scelte innovative. Gaetano Badalamenti, che siamo riusciti a far condannare per l’assassinio di Peppino Impastato, è stato condannato a 45 anni di carcere come regista della Pizza Connection, e lo era, perché la signoria territoriale esercitata sul territorio di Cinisi e sull’aeroporto gli consentiva l’installazione delle raffinerie di eroina e la spedizione dei carichi di droga negli Stati Uniti e la commercializzazione attraverso la rete delle pizzerie. Questo è stato il ruolo, originale e specifico, della mafia in quello che Gallino definiva “finanzcapitalismo”, che vede convivere la mafia dei quartieri urbani e dei centri provinciali con il crimine transnazionale e il cybercrime. E pare che si continui su questa strada.


Umberto Santino, fondatore e direttore del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo. L’ultimo suo libro è Mafie: a che punto siamo? Le ricerche e le politiche antimafia (Di Girolamo).

Note

1 Vedi capitolo di Santino e anche altri che fanno riferimento al concetto di borghesia mafiosa e al “paradigma della complessità” in Mafie: a che punto siamo? Le ricerche e le politiche antimafia (a cura di Umberto Santino), di Girolamo editore, 2022 (atti del convegno per il quarantennale dell’attività del Giuseppe Impastato)

2 Vedi U. Santino, La mafia dimenticata, Melampo 2017, recensito qui: “La mafia un power-broker


NO mafia memorial Il progetto di creare a Palermo un Memoriale-laboratorio della lotta alla mafia nasce come naturale prosecuzione dell’attività del Centro siciliano di documentazione, avviata nel 1977 (con il convegno “Portella della Ginestra: una strage per il centrismo”) e formalizzata nel 1980 con la costituzione dell’associazione culturale intitolata a Giuseppe Impastato. Nel 2017, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando e il presidente del Centro Impastato Umberto Santino hanno firmato il protocollo d’intesa per la realizzazione di quel progetto. Oggi il “NO Mafia Memorial” si snoda nella sede di Via Vittorio Emanuele 353, a Palermo, e include l’archivio fotografico (al piano terra), la nuova mostra multimediale (al secondo piano), il percorso museale, la biblioteca/mediateca e l’area didattica (con i laboratori per le scuole). Per informazioni e prenotazioni: www.nomafiamemorial.org



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