IL CASO VALDITARA
La lezione attuale di Eco
M. AINIS
Il j’accuse del ministro Valditara contro Annalisa Savino, preside d’un liceo fiorentino, sta destando polemiche e proteste. Ma interroga altresì la Costituzione, i suoi valori, la loro capacità di resistere all’ingiuria del tempo. In questa vicenda ne vengono chiamati in causa molti, e non d’infimo grado. La libertà di manifestazione del pensiero, protetta dal Primo emendamento alla Costituzione americana, e giù giù, fino all’articolo 21 della nostra Carta. La libertà d’insegnamento. Il potere d’esternazione del ministro (che è un potere, non una libertà, dunque incontra limiti stringenti). Infine il valore dell’antifascismo, iscritto nella XII disposizione finale. Partiamo dal “cosa”, dall’oggetto del contendere. Una lettera rivolta agli studenti, dopo il pestaggio fascista avvenuto dinanzi al liceo Michelangiolo di Firenze. Dice: non chiudete gli occhi, non girate il vostro sguardo altrove. E s’appella ai valori della partecipazione, della non violenza, della fraternité cara ai rivoluzionari francesi del 1789, contro i muri alzati dal nazionalismo. Gli stessi valori richiamati proprio ieri dal presidente Mattarella, parlando al Quirinale. È una bella lettera, ed è pure scritta in un bell’italiano, virtù sempre più rara. Forse in qualche passaggio troppo enfatica, ma dopotutto è enfatica anche la Costituzione del 1947, nella sua Parte prima. «L’enfasi – disse Concetto Marchesi in Assemblea costituente – non è sempre inutile. Qualche volta giova, quando si voglia ricavare dai principi una conclusione sicura». Insomma, in quella lettera risuona la voce dei costituenti, il loro messaggio. E allora perché il ministro s’inalbera, s’indigna, s’infuria come un toro? Per due ragioni, parrebbe di capire. Perché il fascismo non c’è più, quindi non ha più senso nemmeno l’antifascismo. E perché una dirigente scolastica non ha alcuna competenza a diffondere urbi et orbi il proprio verbo. Se la prima tesi fosse esatta, dovremmo dichiarare morta la XII disposizione, per estinzione del suo oggetto. Come una legge che protegga una specie animale ormai scomparsa. Ma quella disposizione va ben oltre i gerarchi in camicia nera di Salò. S’accompagna al “metodo democratico”, imposto dall’articolo 49 come limite all’azione dei partiti. E in conclusione vieta il fascismo per opporsi a chiunque ci voglia soggiogare sotto il suo dominio con la forza, con la prepotenza. Anche se indossa una maglietta verde, o a righe blu. Come succede ancora, e non soltanto alle nostre latitudini. È il “fascismo eterno”, di cui scriveva Umberto Eco. Resta perciò la seconda accusa: incompetenza. Come a dire che i dirigenti scolastici non sono competenti a esprimere le proprie opinioni, che per loro non vale l’articolo 21. Ma che funzioni hanno, quale ruolo? Organizzano l’attività scolastica, dichiara un decreto del 2001; e in quella veste presiedono il collegio dei docenti, curano la qualità dei processi formativi, promuovono l’apprendimento degli studenti. Quindi il dirigente scolastico è un manager però è anche il primo insegnante, e allora qui entra in gioco pure la libertà d’insegnamento. Ma questa libertà si piega alle direttive d’un ministro? No, lo vieta l’articolo 33 della Costituzione. Tanto che fra i costituzionalisti si discute se il docente possa criticare la Costituzione stessa, nei suoi principi fondativi. Qualcuno l’ammette, in nome della libertà. Tuttavia non c’è alcun dubbio che il docente possa invece appellarsi ai valori costituzionali, diffonderli, spiegarli. Anche perché l’Educazione civica è ormai una non materia, insegnata a spizzichi e bocconi. L’unico limite (etico, più che giuridico) alla libertà d’insegnamento consiste nel rispetto dovuto alle idee altrui: come diceva Max Weber, «la cattedra non è per i demagoghi, né per i profeti». Però non lo è nemmeno un ministero. E nessun ministro può dettare la sua concezione del mondo agli studenti e ai docenti che amministra. C’è una differenza, infatti, tra libertà d’espressione e potere d’esternazione. La prima spetta ai privati cittadini; il secondo regola le parole pronunziate da chi incarna un’istituzione della Repubblica italiana. Quando parla Mattarella, parla lo Stato; e così quando a parlare è il presidente del Senato (succede spesso), e così pure un ministro. Da qui l’importanza della virtù cara a Sant’Agostino: la continenza.
M. AINIS Da Repubblica 25 Febbraio 2023
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