19 febbraio 2023

J. HABERMAS CONTRO I SONNAMBOLI SULL' ORLO DELL' ABISSO

 


Oggi Repubblica pubblica un intervento del filosofo Jurgen Habermas sulla Ucraina e sulle prospettive inquietanti del mondo che sta scivolando nel silenzio verso una guerra globale. Riproduco un estratto dell'intervento del filosofo tedesco:


L' EUROPA TRA GUERRA E PACE

J. HABERMAS

" Nella prospettiva di una vittoria a tutti i costi, l’incremento qualitativo delle nostre forniture di armi ha preso un abbrivio che potrebbe portarci più o meno senza accorgercene oltre la soglia di una terza guerra mondiale. Quindi ora non si dovrebbe «soffocare quasiasi dibattito circa la fase del possibile passaggio dalla presa di posizione alla partecipazione effettiva, in base alla tesi che già solo conducendo un simile dibattito si fanno gli affari della Russia» (come ha scritto Kurt Kister nell’inserto culturale della del 11/12 febbraio 2023), Diventa reale il rischio di aggirarsi come sonnambuli sull’orlo dell’abisso, perché l’alleanza occidentale non solo sostiene l’Ucraina, ma ribadisce instancabilmente che sosterrà il governo ucraino «per tutto il tempo necessario» e che la decisione circa tempi e obiettivi di possibili negoziati spetta esclusivamente al governo ucraino. Questa affermazione ha lo scopo di scoraggiare l’avversario, ma è incoerente e maschera differenze palesi. In primo luogo può ingannarci sulla necessità di avviare da parte nostra iniziative negoziali. Da un lato è ovvio che solo una parte coinvolta nel conflitto possa determinare il proprio obiettivo bellico e, in caso, i tempi dei negoziati. Però la capacità di resistenza ucraina dipende anche dal sostegno occidentale. L’Occidente ha propri legittimi interessi e obblighi. Quindi i governi occidentali agiscono in un contesto geopolitico più ampio e devono tenere in considerazione altri interessi oltre a quelli ucraini in questa guerra; hanno obblighi giuridici nei confronti delle esigenze di sicurezza dei propri cittadini e inoltre, indipendentemente da quelle che sono le posizioni della popolazione ucraina, hanno una responsabilità morale per le vittime e le distruzioni provocate con le armi fornite dall’Occidente; quindi non possono scaricare sul governo ucraino la responsabilità delle brutali conseguenze di un prolungamento delle ostilità, possibile solo grazie al sostegno militare offerto. Il fatto che l’Occidente debba prendere decisioni importanti e assumersene la responsabilità è dimostrato anche dalla situazione che più deve temere, ossia quella citata in cui una superiorità delle forze armate russe lo porrebbe di fronte all’alternativa di cedere o di entrare in guerra. Il tempo stringe per i negoziati anche per motivi più ovvi, come l’esaurimento delle riserve di personale e delle risorse materiali necessarie alla guerra. Il fattore tempo gioca inoltre un ruolo rispetto alle convinzioni e inclinazioni di ampia parte delle popolazioni occidentali. In questo contesto è troppo facile ridurre le posizioni sulla controversa questione della tempistica dei negoziati al semplice contrasto tra morale e interesse personale. Sono soprattutto morali le ragioni che spingono a porre fine alla guerra. Quindi la durata del conflitto influisce sui punti di vista delle popolazioni circa gli eventi bellici. Più la guerra si prolunga, più è prevalente la percezione della violenza, particolarmente esplosiva nei conflitti moderni, determinando la visione del rapporto tra guerra e pace in generale. Questi punti di vista mi interessano in relazione al dibattito che si sta progressivamente avviando nella Repubblica Federale sul razionale e la possibilità di negoziati di pace. Qui da noi, già all’inizio del conflitto in Ucraina due modi diversi di percepire e valutare la guerra hanno trovato espressione nella disputa tra due vaghe ma discordanti formulazioni linguistiche: l’obiettivo delle nostre forniture di armi è che l’Ucraina “non perda la guerra”, o piuttosto la “vittoria” sulla Russia? Questa differenza concettualmente ambigua ha ben poco a che fare con una presa di posizione pro o contro il pacifismo. Il movimento pacifista nato alla fine del diciannovesimo secolo ha politicizzato la dimensione violenta delle guerre, ma il vero punto non è il graduale superamento delle guerre come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali, bensì il rifiuto totale di imbracciare armi. Pertanto il pacifismo non gioca alcun ruolo in questi due punti di vista, che si differenziano in base al peso attribuito alle vittime della guerra. È importante perché la sottile differenza retorica tra le espressioni “non perdere” e “vincere” la guerra non divide già i pacifisti dai non pacifisti. Oggi caratterizza infatti anche contrasti in seno a quella fazione politica che considera l’alleanza occidentale non solo legittimata, ma anche politicamente obbligata a sostenere l’Ucraina con forniture di armi, appoggio logistico e servizi civili nella sua coraggiosa lotta contro l’ attacco all’esistenza e all’indipendenza di uno stato sovrano, condotto in violazione del diritto internazionale e in maniera decisamente criminale. Questa presa di posizione è legata alla solidarietà per il triste destino di un popolo che dopo molti secoli di dominazione straniera polacca, russa e anche austriaca ha conquistato l’indipendenza solo con il crollo dell’Unione sovietica. Tra le nazioni europee tardive l’Ucraina è l’ultima arrivata. Continua ad essere una nazione in fieri. Ma anche nel vasto campo dei sostenitori dichiarati dell’Ucraina, al momento gli animi sono divisi riguardo alla giusta tempistica dei negoziati di pace. Una parte si identifica con la richiesta del governo ucraino di un sostegno militare in costante incremento per sconfiggere la Russia e ripristinare l’integrità territoriale del Paese, Crimea inclusa. L’altra parte intende spingere per tentare di arrivare a un cessate il fuoco e a negoziati che almeno scongiurino una possibile sconfitta, ripristinando lo status quo ante il 23 febbraio 2022. In questo pro e contro si riflettono esperienze storiche. Non è un caso che questo conflitto che si consuma lentamente imponga ora di fare chiarezza. Da mesi il fronte è congelato. Un articolo della Frankfurter Allgemeine Zeitung dal titolo “La guerra di logoramento favorisce la Russia” racconta la guerra di posizione con ingenti perdite da entrambe le parti attorno a Bakhmut, nel nord del Donbass, e cita la dichiarazione sconvolgente di un alto funzionario della Nato: «Laggiù sembra Verdun». I paragoni con quella spaventosa battaglia, la più lunga e sanguinosa della Prima guerra mondiale, hanno solo lontanamente a che fare con la guerra in Ucraina, e solo nella misura in cui una prolungata guerra di posizione senza grandi variazioni sulla linea del fronte fa emergere innanzitutto la sofferenza delle vittime rispetto all’obiettivo politico “significativo” della guerra. La scioccante cronaca dal fronte di Sonja Zekri, che non nasconde le proprie simpatie ma non abbellisce nulla, ricorda in effetti le scene dal fronte occidentale nel 1916. Soldati che “si scannano”, cumuli di morti e feriti, le macerie di case, ospedali e scuole, ossia l’annientamento della civiltà, in questo si riflette l’essenza distruttiva della guerra, che pone in una luce diversa le parole della nostra ministra degli Esteri secondo cui noi «con le nostre armi salviamo vite». Nella misura in cui le vittime e le distruzioni della guerra si palesano come tali, viene alla ribalta l’altra faccia della guerra – non solo mezzo di difesa contro un aggressore senza scrupoli; nel loro corso gli eventi bellici sono percepiti come violenza travolgente che deve cessare al più presto. E quanto più si sposta il peso da un aspetto all’altro, tanto più chiara si impone l’idea che la guerra non debba esistere. Nelle guerre, alla volontà di sconfiggere il nemico si è sempre associato il desiderio che la morte e la distruzione abbiano fine. E nella misura in cui assieme alla potenza delle armi sono aumentate anche le devastazioni, anche il peso di questi due aspetti è cambiato. A seguito delle esperienze barbare delle due guerre mondiali e della tensione nervosa provocata dalla Guerra fredda nel secolo scorso, nella mente delle popolazioni coinvolte ha avuto luogo un latente spostamento concettuale. Dalle loro esperienze esse avevano tratto spesso a livello inconsapevole la conclusione che le guerre – modalità fino ad allora scontata di condurre e risolvere i conflitti internazionali – sono del tutto incompatibili con le regole del vivere civile. Il carattere violento della guerra aveva in un certo senso perduto l’aura di naturalità. Questo ampio cambiamento compiutosi nella coscienza ha lasciato traccia anche nell’evoluzione del diritto. Il diritto umanitario che punisce i crimini di guerra ha tentato senza molto successo di frenare l’esercizio della violenza in guerra. Ma al termine della Seconda guerra mondiale la violenza della guerra stessa ha dovuto essere pacificata con mezzi giuridici e sostituita dal diritto come unica modalità di risoluzione dei conflitti tra stati. La carta delle Nazioni Unite, entrata in vigore il 24 ottobre 1945, e l’istituzione del Tribunale internazionale dell’Aja hanno rivoluzionato il diritto internazionale. L’articolo 2 obbliga tutti gli stati a risolvere con mezzi pacifici le dispute internazionali. Fu lo shock delle violenze della guerra a generare questa rivoluzione. Nelle parole toccanti del preambolo si riflette l’orrore di fronte alle vittime della Seconda guerra mondiale. Centrale è l’appello a «unire le nostre forze e ad assicurare mediante… l’istituzione di sistemi, che la forza delle armi non sarà usata salvo che nell’interesse comune» – ossia nell’interesse dei cittadini di tutti gli stati e di tutte le società del mondo definito in base al diritto internazionale. Questa attenzione alle vittime della guerra spiega da un lato l’abolizione dello ossia il nefasto “diritto” degli stati sovrani di guerreggiare a piacimento; ma anche il fatto che la dottrina su base etica della guerra giusta non sia stata rinnovata, bensì abolita, a parte il diritto di difesa dell’aggredito. Le varie misure elencate nel Capitolo VII contro le aggressioni sono dirette contro la guerra in quanto tale e questo esclusivamente nel linguaggio del diritto. Perché a tal fine è sufficiente il contenuto morale insito nel moderno diritto internazionale. È alla luce di questa evoluzione che ho inteso la formula “L’Ucraina non può perdere la guerra”. Perché interpreto la fase di cautela come monito che anche l’Occidente, il quale consente all’Ucraina di proseguire la battaglia contro un aggressore criminale, non deve dimenticare né il numero delle vittime né il rischio a cui le possibili vittime sono esposte, né l’entità delle effettive e potenziali distruzioni che per la legittima finalità a malincuore devono essere messe in conto. Neppure il più altruistico sostenitore è esentato da questa ottica di proporzionalità. La formula titubante “non può perdere” pone in discussione la visione Amico-Nemico che anche nel ventunesimo secolo considera ancora “naturale” e priva di alternative la soluzione bellica dei conflitti internazionali. La guerra, e a maggior ragione quella scatenata da Putin, è sintomo di una regressione a una fase precedente alla storica civile interazione tra potenze – soprattutto quelle che hanno potuto trarre insegnamento dalle due guerre mondiali. Quando lo scoppio di conflitti armati non può essere evitato da sanzioni dolorose anche per gli stessi paladini del diritto internazionale violato, l’alternativa offerta – rispetto a una prosecuzione della guerra con sempre più vittime – è la ricerca di compromessi tollerabili. L’obiezione è ovvia: al momento non c’è segno che Putin intenda impegnarsi in negoziati. Non deve essere costretto a cedere con mezzi militari già solo per questo motivo? Inoltre Putin ha preso decisioni che rendono quasi impossibile dare avvio a negoziati promettenti. Perché con l’annessione delle provincie orientali ucraine ha creato realtà e cementato rivendicazioni inaccettabili per l’Ucraina. D’altro canto la sua è stata forse una risposta, per quanto sconsiderata, all’errore compiuto dall’Alleanza atlantica nel momento in cui ha intenzionalmente lasciato la Russia all’oscuro rispetto all’obiettivo del suo supporto militare. Perché così ha lasciato aperta la prospettiva di un “regime change” inaccettabile per Putin. Al contrario, il fine dichiarato di ristabilire lo il 23 febbraio 2022 avrebbe agevolato la successiva via del negoziato. Ma entrambe le parti puntavano a scoraggiarsi a vicenda piantando paletti estesi e apparentemente inamovibili. Non sono presupposti promettenti, ma neppure disperati. Perché a parte le vite umane che la guerra reclama giorno dopo giorno, aumentano i costi delle risorse materiali che non possono essere rimpiazzate a piacimento. E per l’amministrazione Biden il tempo stringe. Questo pensiero da solo dovrebbe spronarci a sollecitare energici tentativi per dare avvio ai negoziati e a cercare una soluzione di compromesso che non offra alla parte russa guadagni territoriali al di là dello precedente l’inizio della guerra, permettendole tuttavia di salvare la faccia. A parte il fatto che capi di governo occidentali come Scholz e Macron mantengono contatti telefonici con Putin, neppure il governo statunitense apparentemente diviso su questa questione può mantenere il ruolo formale di parte non coinvolta. Un risultato negoziale durevole non può essere integrato nell’ambito di accordi di ampia portata in assenza degli Stati Uniti. Entrambe le parti in guerra hanno interesse a questo. Vale per le garanzie di sicurezza che l’Occidente deve fornire all’Ucraina, ma anche per il principio secondo cui il rovesciamento di un regime autoritario è credibile e stabile solo nella misura in cui scaturisce dalla popolazione stessa, ed è quindi sostenuto dall’interno. La guerra ha in generale focalizzato l’attenzione su un’acuta necessità di regolamentazione nell’intera regione dell’Europa centrale e orientale che vada oltre gli oggetti di contesa delle parti in conflitto. Hans-Henning Schröder, esperto dell’Europa orientale ed ex direttore dell’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza di Belino ha indicato (sulla del 24 gennaio 2023) gli accordi di disarmo e le condizioni-quadro economiche in assenza delle quali non può essere raggiunto un accordo stabile tra le parti direttamente coinvolte. Putin potrebbe farsi vanto già della disponibilità degli Usa a impegnarsi in tali negoziati di portata geopolitica. Proprio perché il conflitto tocca una rete di interessi più ampia, non si può escludere fin dall’inizio la possibilità di trovare, anche per le istanze al momento diametralmente opposte, un compromesso che salvi la faccia a entrambe le parti." (J. HABERMAS)



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