Pezzo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2023/02/19/il-fotogramma/
Il fotogramma
Mi
sono passati accanto due uomini della guardia
civil in
sella a due splendidi andalusi bianchi. Zoccoli scalpitanti, muscoli
tesi, una linea di schiuma come un febbrile sudore. Andatura
possente. I simboli di virilità si sprecano, così non capisco quei
berretti dalla visiera corta e quelle camicie azzurrine da polizia
municipale.
Sono seduto su una panchina a Parc
de la Mar,
proprio dove è avvenuto il fatto. A malapena riesco a vedere uno dei
due rosoni dell’imponente cattedrale di Palma. Ci sono punti in cui
si riflette tutta sull’acqua, ed è uno spettacolo di linee gotiche
che scorrono sulla superficie vibrante, di pienezze e vacuità e
chiaroscuri che tremano appena sull’incresparsi dello specchio
salmastro.
Immagino
che la macchina, cadendoci dentro, abbia generato prima una scia,
come quelle che lasciano le papere in navigazione sugli stagni, e poi
sia crollata a picco dopo qualche metro.
La forma della cattedrale
specchiata nella notte sarà stata simile a una lacrima che vibrava
nella fioca controluce di una candela, mentre l’abisso notturno si
inghiottiva i due passeggeri. Che tragedia. Un uomo e il figlio della
compagna. Una tragedia, un incidente inevitabile. Ma siamo sicuri che
sia stata davvero una fatalità?
Diamo subito i nomi, perché se continuiamo a chiamarli con appellativi generici rischiamo di non percepirli per quello che sono: esseri umani veri a cui è capitato qualcosa di inaccettabile. Uomini, donne, bambini, vittime, cittadini, padri, madri e figli: quelli sono tutti e nessuno, nessuno e centomila. Le vittime di questa storia sono tre: Juan Carlos, alla guida; il piccolo Giancarlo, sul seggiolino accanto a lui; e Veronica, che li stava aspettando a casa e che da allora continua ad aspettarli.
Conosco
Veronica da vent’anni, ben prima che dall’Italia si trasferisse a
Maiorca, prima che nascesse Giancarlo dalla precedente relazione e
prima che conoscesse Juan Carlos.
Appena mi è giunta la notizia,
ho preso il primo aereo e sono corso qui. Non so se lei abbia capito,
compreso a fondo. Sta nel suo letto, non parla, non mangia. Si lascia
fare le flebo per tenersi viva e tenere così vivo il dolore. Le ho
promesso che farò del mio meglio, ma non so se abbia capito anche
questo. Non posso condurre un’indagine come in Italia, non ho
contatti ufficiali con la guardia
civil.
Qui sono solo un turista, il poliziotto posso farlo solo a Roma.
Poco
prima di partire, mi sono andato a guardare su Google Earth tutti i
punti citati dagli articoli di cronaca dei giornali maiorchini. Me li
sono studiati da ogni angolazione tramite Street View e poi li ho
incrociati con i percorsi probabili di quella sera.
Il piccolo
Giancarlo era andato a una festa di compleanno. Veronica preparava la
cena e Juan Carlos era andato a prendere il bambino per riportarlo a
casa. Vivevano da sei mesi insieme, lei si era trasferita nell’attico
di lui appena fuori il centro. Veronica mi aveva mandato le foto e mi
aveva invitato ancora una volta perché venissi a trovarla. Avrei
preferito accettare l’invito in circostanze più gioiose…
Dicevo
dei percorsi. Tra l’indirizzo della festa e l’attico di Juan
Carlos, Parc
de la Mar non
è di passaggio. C’è stata di certo una deviazione, una deviazione
inaspettata, forse.
Non sappiamo quando l’auto sia caduta in
acqua, perché non ci sono testimoni, per cui non sappiamo nemmeno
se, dopo aver preso alla festa Giancarlo, Juan Carlos sia andato
direttamente là, nel luogo dell’incidente, oppure abbia prima
incontrato qualcuno da quelle parti. Gli inquirenti stanno cercando
di capirci qualcosa su orari e percorsi andando a visionare le
immagini delle telecamere di sicurezza sparse un po’ ovunque, ma ci
vorrà del tempo. Forse avrò accesso a qualche dato per mezzo
dell’avvocato di Veronica, che le ho immediatamente consigliato di
consultare e che mi pare segua un po’ troppo pigramente il
caso.
Quello che sappiamo finora è che non sono state trovate
tracce di frenata prima del salto in acqua, per cui si ipotizza un
colpo di sonno.
A me l’ipotesi del colpo di sonno non sembra plausibile. Non alle nove di sera. Veronica dice che non era stanco né stressato, questo è riuscito a farmelo capire. Prima di mettersi in macchina non aveva toccato nemmeno una lattina di birra. Non usava droghe o medicinali che potessero influire sulla guida.
In genere, era una persona nell’apparenza equilibrata. Veronica l’aveva conosciuto a una mostra d’arte in Italia e i due si erano subito piaciuti. A quel tempo era separata da poco. Giancarlo aveva due anni circa ma Juan Carlos non si era lasciato scoraggiare quando aveva appreso che lei aveva già un figlio. E così le aveva fatto ugualmente la corte in modo spudorato e l’aveva invitata da lui, alle Baleari. Doveva essere una vacanza di una settimana e invece c’era rimasta per tutti questi anni. Le piaceva la vita isolana, meno caotica di quella di Roma, eppure non meno divertente. C’era a Palma un modo diverso di occupare il tempo, con meno traffico e più ristoranti di pesce. Aveva trovato facilmente un lavoro in una agenzia immobiliare dove cercavano qualcuno che parlasse l’italiano e in cambio le fornivano un appartamento in centro niente male a un prezzo molto conveniente. Ciò che le restava dello stipendio al netto delle spese era una somma discreta, e in più aveva sole e mare tutto l’anno. I fine settimana li dedicava a esplorare l’isola e, quando si ricordava di questo vecchio amico dell’università che sarei io, mi inviava qualche foto: la spiaggia dove nuotava Anais Nin, lo studio di Picasso, il pianoforte con cui Chopin aveva composto una celebre sonata, la casa di Robert Graves, la tomba di Raimondo Lullo. Sembrava che tutti i grandi fossero passati da Maiorca in punta di piedi.
Io non andai mai a trovarla. Mi sentivo a disagio perché lei non conviveva con Juan Carlos e loro due conducevano una vita quasi da fidanzati piuttosto che da partner stabili. Mi imbarazzava l’idea di lasciarmi ospitare da lei mentre il fidanzato abitava nel suo appartamento qualche chilometro più in là. E così mi trovai sempre qualche scusa. Invece ci incontravamo a Roma, immancabilmente per una pizza o almeno un caffè, quello sì, perché lei tornava un paio di volte l’anno a trovare i suoi. Juan Carlos non l’accompagnava mai. Io Juan Calos l’ho solo in visto in foto: da vivo, e ora anche da morto. Tutti i quotidiani non hanno pubblicato altro, negli ultimi giorni. Perfino una foto di lui con Giancarlo, che hanno reso irriconoscibile per deontologia professionale e per pietà, coprendo gli occhi con un rettangolo nero che rende l’immagine ancora più triste.
Juan Carlos non mi è mai piaciuto. Ripeto, non lo conosco affatto, ma uno che non viaggia mai insieme alla propria compagna… Mi pareva volesse tenere le distanze. Non so, non riesco a farmene un’alta opinione.
***
Il
mio spagnolo parlato è molto arrugginito ma a leggere me la cavo
benissimo. Sfogliando un quotidiano, mentre sono in cerca di indizi,
mi cade l’ occhio su un trafiletto: un’orchestra italiana dà un
concerto alla cattedrale proprio questa sera. Ho sentito parlare di
questo direttore, un pallone gonfiato che però sa il fatto suo. Sono
incuriosito e decido di andare.
Il concerto è prima di cena, al
vespro, e quando sono nel mastodontico edificio capisco il perché di
questa scelta insolita. Il rosone, al tramonto, si lascia
attraversare da un fascio luminoso perfettamente allineato che ne
proietta i colori esattamente sotto il secondo rosone, sulla facciata
opposta. La figura proiettata conserva la stessa policromia e i due
cerchi si sfiorano, quasi a formare un otto.
Che spettacolo:
mentre l’orchestra suona divinamente, si forma sulla parete
dell’abside questo otto gigante. Se il sette è il simbolo
cristiano della perfezione, come i giorni per creare l’universo,
che è perfetto, come la somma tra Dio trino e i quattro punti
cardinali terresti; l’otto è il sette più uno, ovvero la
perfezione in sovrabbondanza, come la celebrazione delle ottave, come
l’intervallo musicale ascendente che corrisponde all’estasi.
Dentro
la cattedrale mi pareva di assistere anche a me a un’estasi, alla
transverberazione dell’infinito, che poi l’infinito si
rappresenta con una cifra che è un otto coricato.
***
Quando esco dal concerto sono scosso. La vista di quella proiezione policroma, unita all’armonia sovrannaturale della musica suonata dall’orchestra sotto la direzione di quel talentuoso maestro, mi hanno fatto sentire sospeso come in un altro mondo. Contemplavo le volte gotiche, il soffitto altissimo, le campate e le navate, l’altare appena nascosto dai musicisti, il silenzio profondo di quel luogo sacro. Mi sentivo quasi a contatto col mistero divino.
Appena
uscito fuori ho riacceso il telefono e sono comparse alcune
notifiche. Tra di esse, ho subito notato quella di un mio amico che
si intende molto di social e di ricerche online, tanto che lavora
come responsabile per la comunicazione di una
nota influencer italiana,
una stella nel mondo del fashion
blogging.
Avevo
chiesto aiuto a questo mio amico per reperire materiale online
sull’incidente che è costato la vita a Juan Carlos e al piccolo
Giancarlo. Per questo ho aperto il suo messaggio con apprensione. Mi
scrive di essere riuscito a trovare un fotogramma di un istante prima
dell’incidente. L’ha reperito in un gruppo privato di forze di
polizia su Facebook. Ha preteso di essere una giovane recluta
della guardia
civil in
procinto di essere assegnata a Soller e l’hanno ammesso. Che gran
figlio di puttana, questo mio amico: a forza di viaggiare con la sua
bella amica influencer,
parla tante lingue e mastica bene persino il catalano.
Ad ogni
modo, questo fotogramma non è stato ancora acquisito agli atti dal
giudice, ma rivelerebbe una grande novità secondo gli agenti che se
lo scambiano online per un confronto di opinioni: il fotogramma
mostrerebbe un tentativo di frenata. Strano che la perizia non abbia
rilevato tracce di pneumatici sul luogo.
Un
fotogramma, dunque. Solo un fottutissimo fotogramma. I commenti
parlavano chiaro: non era un’immagine estrapolata da un video ma
piuttosto una foto vera e propria, come quella di un autovelox.
Io
me la sono guardata e riguardata a lungo, questa foto. Torno al Parc
de la Mar per
capire quale congegno l’abbia scattata, e si tratta proprio di un
apparecchio che entra in funzione quando un veicolo accede a
quell’area interdetta al traffico. Lo scopo è quello di
immortalare il numero di targa e risalire al proprietario del mezzo
per recapitargli una bella multa. La macchina fotografica è fissata
a un palo, in alto. Evidentemente scatta la foto anche dal lato
opposto, dopo che il veicolo è entrato nella zona pedonale, così
può riprendere la targa anche se si tratta di una moto.
La foto è
di una nitidezza incredibile. Sembra in tonalità di grigio, come le
se le immagini fossero state riprese grazie a un sensore a
infrarossi. Malgrado il buio, dunque, si vedeva nitidamente la scena
dentro l’abitacolo, e questo mi ha fatto impressione. Mi ha fatto
impressione vedere la faccia tesa di Juan Carlos pochissimi istanti
prima della sua morte e, accanto a lui, la faccia di Giancarlo
seminascosta da un palloncino della festa da cui si era appena
accomiatato. Il palloncino è chiaramente uno di quelli gonfiati con
l’elio, in grado di volare e trattenuti da un filo, la cui
estremità è generalmente ben serrata nelle mani di un bambino.
La
foto non lasciava spazio a dubbi: il palloncino, non solo fluttuava
contro il tettuccio della macchina, ma era tutto proiettato contro il
parabrezza, spinto chiaramente in avanti per inerzia. Qualunque altro
oggetto non ancorato e libero di muoversi si sarebbe comportato così,
scagliandosi in avanti contro il parabrezza, appena il guidatore
avesse pigiato il pedale del freno.
***
Rientro
a casa di Veronica, la trovo sotto sedativi. L’infermiera che la
accudisce mi consiglia di riposare e di rilassarmi con un bel bagno
caldo, perché la donna si sarebbe svegliata solo il giorno
successivo.
Decido di seguire quel consiglio e mi preparo un bel
bagno profumato. La vasca è enorme e lussuosissima. Appena mi
immergo, sento il mio corpo fluttuare. Avverto una leggera
sonnolenza, mi appisolo un istante e quando mi sveglio sono nel mio
appartamento romano immerso nella vasca da bagno a casa mia.
Che
brutto sogno. Ma che fortuna che sia stato solo un sogno. Oggi in
ufficio ho avuto una giornata pesante e queste sono le conseguenze.
Mi sento risollevato per il piccolo Giancarlo, eppure in me prevale
quel sentimento di strazio che ho provato sognando e che adesso si
attarda a svanire nonostante sia sveglio, come un cattivo odore che
non vuole abbandonare una stanza malgrado si vadano ad aprire tutte
le finestre. Forse so come far dissipare quell’afrore: devo parlare
con qualcuno di questo sogno strambo e così l’incubo sarà libero
di volare via. Ovviamente non posso confidarmi con Veronica, perché
sarebbe di cattivo gusto; se fossi sposato, ne avrei parlato con mia
moglie; con i colleghi poliziotti non è il caso, hanno già tanti
pensieri tetri con cui convivere. Non mi resta che parlarne con mio
padre, che è un vecchio professore di matematica in pensione ed è
ben lieto di ricevere telefonate che interrompano la sua solitudine.
Non è la persona più adatta con cui discutere di faccende legate ai
sogni e all’inconscio, ma per lo meno sa ascoltare bene.
Afferro
il telefono. Il suo numero è tra le mie ultime chiamate in uscita.
Ho ancora l’asciugamano attorno ai fianchi e cammino scalzo fino
all’armadio in cerca di qualcosa da mettere. Dopo qualche
convenevole, vedo al sodo e gli racconto tutto i sogno, senza
tralasciare alcun dettaglio.
Quando ho finito lui sospira a lungo.
Mi chiede se ricordavo la storia del rosone e gli allineamenti di
luce. Me l’aveva raccontato lui anni prima, quando gli avevo
parlato dell’imminente trasferimento di Veronica a Maiorca. Mi dice
che il fenomeno avviene il 2 di febbraio e l’11 novembre, date
simmetriche al solstizio d’inverno. Gli allineamenti astrali lo
hanno sempre affascinato, perché ci sono i numeri dentro, e questi
numeri li conoscevano già alla perfezione gli astronomi del passato.
Poi mi dice una cosa che, se possibile, mi scuote ancora di più: che
il palloncino di elio che si schianta contro il parabrezza non è un
segno di frenata ma di accelerazione.
Mi riprendo subito dallo
shock e gli faccio presente che non ha senso quello che dice. Deve
essersi sbagliato, non è logico: un oggetto si proietta in avanti
per inerzia in caso di frenata, come un passeggero sull’autobus che
cade in avanti se all’improvviso scatta il rosso e l’autista
pigia il pedale del freno troppo bruscamente.
Mio padre mi
risponde che invece è logico ciò che mi ha detto lui, cioè che il
palloncino, in caso di frenata, non va in avanti come tutti gli altri
oggetti, ma indietro. La forza di inerzia è in questo caso
trascurabile, perché l’elio è leggerissimo, addirittura più
leggero dell’aria. Il palloncino è soggetto alla legge di
Archimede, come un corpo umano che entra in una vasca: avendo il
corpo umano un peso specifico più leggero di quello dell’acqua,
riceve una spinta verso l’alto, contraria alla forza di gravità
che invece lo spinge in basso. Lo stesso l’elio con l’aria:
l’elio è specificamente più leggero e allora l’aria
circostante, nella quale è immerso, lo spinge verso l’alto.
Continuo
a non capire perché il palloncino, in caso di frenata, dovrebbe
andare verso il lunotto posteriore anziché verso il parabrezza. Mio
padre mi risponde dicendomi che il principio del grande Archimede
vale anche in orizzontale: la macchina, frenando, sposta per inerzia
– quello sì – un quantitativo d’aria maggiore verso il
parabrezza. Schiaccia l’aria dell’abitacolo verso il parabrezza.
L’aria là davanti dentro la macchina diventa più concentrata, più
“pesante”. La reazione del palloncino d’elio è quella di
essere spinta verso dietro, con una forza di verso opposto, che punta
verso i sedili posteriori. Generalmente l’unica forza che si
applica al principio di Archimede è quella della gravità terrestre,
verso il basso, e la reazione avviene verso l’alto. Ma se la forza
applicata al principio di Archimede avviene in avanti, la reazione si
avrà nel senso opposto, cioè verso dietro.
***
Chiudo
con mio padre, che ha il tatto di non darmi dell’ignorante, e
chiamo Veronica. Sembra contenta di sentirmi. Chiedo in generale come
va. Mi pare che la mia domanda sia un grilletto che faccia scattare
l’esplosione. Va male, malissimo, e in più ha fatto uno strano
sogno su Giancarlo. Dice di averlo visto in compagnia di tanti altri
bambini su un arcipelago tropicale. Lei non riusciva a raggiungerlo e
Giancarlo viveva là in una specie di stato selvaggio e primordiale,
desiderando di tornare a casa ma impossibilitato a farlo. A una madre
basta uno sguardo per capire quello che passa per la testa e per il
cuore dei propri figli. Erano tutti bambini soli e dovevano
arrangiarsi senza genitori e adulti. Mi racconta pure che ultimamente
non va tanto bene con Juan Carlos: è nervoso, si incazza per
qualsiasi sciocchezza, soprattutto per il disordine che porta in giro
Giancarlo, sempre più pasticcione e curioso di sperimentare. Fogli,
matite colorate, mattoncini Lego dappertutto, mobili, maniglie e
telecomandi toccati con le mani unte di patatine.
Le faccio
qualche domanda più specifica, per capire la serietà di questi
atteggiamenti di Juan Carlos. Non sono uno psicologo, ma i criminali
li conosco e sono noiosamente prevedibili. Li puoi raggruppare in
poche categorie archetipiche che si contano sulle dita di una
mano.
Più risponde alle mie domande, e meno la faccenda mi piace.
Gli chiedo dove si trovi adesso Juan Carlos, da come mi parla
liberamente ho capito che non è in casa.
Veronica mi dice che è
assente per lavoro e tornerà tra un paio di giorni.
Ascoltami, le
dico, penso che tu e Giancarlo siate in pericolo. Prendo il primo
volo e ti raggiungo. Anch’io ho un sogno da raccontarti, ma lo farò
di persona. Se pensi che possa rincasare prima del previsto, vai con
Giancarlo in un albergo e aspettami lì.
Veronica si fida. Non
protesta, non sminuisce. Forse la mia telefonata era ciò che
aspettava senza saperlo, ciò di cui aveva bisogno.
Arrivo a
Fiumicino in meno di un’ora, faccio il biglietto e mi imbarco. Una
hostess mi fa accomodare al mio posto. La guardo: io ho un debole per
le donne dai capelli biondi, ma questa, per essere una brunetta, è
molto carina, anzi è proprio bella. Quando siamo in volo, porgendomi
una tazza di caffè, non posso fare a meno di notare il suo polso
pieno di braccialetti tutti tintinnanti che mi ricordano i sonagli di
un trastullo per neonati.
Veronica
si fida. Non protesta, non sminuisce. Forse la mia telefonata era ciò
che aspettava senza saperlo, ciò di cui aveva bisogno.
Arrivo a
Fiumicino in meno di un’ora, faccio il biglietto e mi imbarco. Una
hostess mi fa accomodare al mio posto. La guardo: io ho un debole per
le donne dai capelli biondi, ma questa, per essere una brunetta, è
molto carina, anzi è proprio bella. Quando siamo in volo, porgendomi
una tazza di caffè, non posso fare a meno di notare il suo polso
pieno di braccialetti tutti tintinnanti che mi ricordano i sonagli di
un trastullo per neonati.
(l’immagine: la cattedrale di Palma di Maiorca)
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