I siciliani non hanno dimenticato la Strage di Portella della Ginestra del 1 maggio 1947. Su di essa si continua a scrivere e a discutere. Ma i fatti sembrano ancora dare ragione a Leonardo Sciascia: “c’è in Italia un iperpotere cui giova, a mantenere una determinata gestione del potere, l’ipertensione civile, alimentata da fatti delittuosi la cui caratteristica, che si prenda o no l’esecutore diretto, è quella della indefinibilità tra estrema destra ed estrema sinistra, tra una matrice di violenza e l’altra (…). La prefigurazione (e premonizione ) di un tale iperpotere l’abbiamo avuta nella restaurazione democratica, in Sicilia, negli anni cinquanta. Chi non ricorda la strage di Portella, la morte del bandito Giuliano, l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo a fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere.” (Nero su nero)
Oggi, comunque, vogliamo riproporre il giudizio inedito dato alla Strage dal Procuratore della Repubblica Pietro Scaglione, ucciso il 5 maggio del 1971, secondo la ricostruzione che ne ha fatto l’omonimo nipote in un servizio esclusivo pubblicato dal settimanale Famiglia Cristiana, n.51 del 18 dicembre 2011:
“In una giornata autunnale addolcita da un timido sole, dopo l’improvvisa telefonata di un cronista giudiziario di lungo corso (avido di notizie sul bandito Salvatore Giuliano, sul suo luogotenente Gaspare Pisciotta e sulla strage di Portella della Ginestra), inizia una mia speciale “caccia al tesoro” nell’archivio di mio nonno, il procuratore capo della Repubblica di Palermo, Pietro Scaglione, assassinato il 5 maggio del 1971, insieme all’agente Antonino Lo Russo.Tra montagne di carte, sentenze, articoli, libri e requisitorie, come per incanto, compaiono due preziosi documenti. Il primo è una copia in carta carbone delle dirompenti “Conclusioni” dell’allora Sostituto procuratore generale Pietro Scaglione negli “Atti relativi ai mandanti della strage di Portella della Ginestra”, dove si descrivono le finalità anticomuniste dell’eccidio e dove si denunciano i rapporti tra il banditismo e le forze dell’ordine. Il secondo documento, invece, è il reportage del giornalista Riccardo Longone, pubblicato in prima pagina dal quotidiano “L’Unità” il 14 febbraio del 1954 e intitolato “Pisciotta annunciò al magistrato nuove gravissime rivelazioni”.
La ricerca rappresenta l’occasione per un appassionante viaggio nella memoria della “madre di tutte le stragi”: Portella della Ginestra. Tra la folla di uomini, donne e bambini accorsi in quel tragico primo maggio di 52 anni fa nella contrada palermitana di Portella per celebrare la Festa del Lavoro, nessuno immaginava che il paradiso si sarebbe trasformato in un inferno. Anzi, in quel clima gioioso, i primi spari furono confusi con i mortaretti e i fuochi d’artificio. Ma ben presto, tra lo sgomento generale, si scoprirono i cadaveri di persone e animali, colpiti dalla furia dei mitragliatori. I membri della banda Giuliano (aiutati, secondo alcuni storici, da infiltrati fascisti e americani) spararono sulla folla, uccidendo 11 persone e ferendone 27.
Una scena drammatica, ben descritta da mio nonno nella sua inchiesta, come in un film: “La festa aveva così il suo epilogo più tragico ed imprevisto. Impaurita, terrorizzata, la gente fuggiva disordinatamente in cerca di un qualsiasi riparo contro il persistente e violento imperversare dei colpi d’arma da fuoco. Urla di terrore, invocazioni di aiuto, accorate grida di richiamo, lamenti, pianti, implorazioni, imprecazioni risuonarono nell’ampia vallata anche dopo il cessare della violentasparatoria.
Ma quali furono le finalità della strage di Portella della Ginestra, definita da mio nonno “delitto infame, ripugnante e abominevole”? Nelle Conclusioni del PM Pietro Scaglione (datate 31 agosto 1953), i moventi principali accreditati furono i seguenti: la lotta “ad oltranza” contro il comunismo che Giuliano “mostrò sempre di odiare e di osteggiare”; la volontà da parte dei banditi di accreditarsi come “i debellatori del comunismo”, per poi ottenere l’amnistia; la volontà di “usurpazione dei poteri di polizia devoluti allo Stato”; la “punizione” contro i contadini che cacciavano i banditi dalle campagne; la “difesa del latifondo e dei latifondisti”.
Mio nonno respinse il tentativo di coinvolgere il Pci – operato dagli ambienti conservatori – e archiviò per assoluta infondatezza la denuncia del giornalista Vincenzo Caputo contro il senatore comunista Girolamo Li Causi. “Giuliano non strinse mai intese con il Partito comunista, verso cui mostrò sempre la più irriducibile avversione e l’odio più tenace”, sentenziò il magistrato Scaglione.
D’altronde, la storia stessa del banditismo smentiva la tesi di Caputo (condivisa dal ministro degli Interni, Mario Scelba). Nei sette anni del lungo dopoguerra siciliano, infatti, i principali bersagli della banda Giuliano furono le sedi dei sindacati e dei partiti di sinistra: una strategia anticomunista e anticontadina culminata nell’orrenda strage di Portella della Ginestra.
Mio nonno scagionò da qualunque sospetto anche la sinistra separatista siciliana dell’avvocato Nino Varvaro, che aderì al Blocco del Popolo, il fronte unitario delle forze socialiste e comuniste. La ragione era semplice: Giuliano “si orientò politicamente genericamente verso i partiti anticomunisti, come risultò dalle deposizioni dei suoi familiari”, quindi non avrebbe mai potuto stringere accordi con il Blocco del Popolo.
Nelle sue Conclusioni, invece, il PM Scaglione parlò di “crisma della verità” per le sconvolgenti rivelazioni di Gaspare Pisciotta, luogotenente di Salvatore Giuliano, in relazione ai rapporti tra banditismo, mafia e forze dell’ordine. Un ritratto inquietante degli anni in cui il Ministero degli Interni concesse un singolare “attestato di benemerenza” per Pisciotta. In particolare, un Ispettore generale di Pubblica Sicurezza intrattenne “amichevoli incontri con il capobanda Giuliano, allietati da soffici panettoni e liquori”; un ufficiale dei carabinieri concesse a Pisciotta “generosa ospitalità e amichevoli attenzioni”; un generale dell’esercito offrì allo stesso Pisciotta “un regolare passaporto perché potesse liberamente espatriare e sottrarsi così alle sanzioni della legge per tutti i gravissimi delitti commessi”.
Nell’inverno del 1954, rinchiuso in una cella dell’Ucciardone (il carcere borbonico di Palermo), Gaspare Pisciotta chiese di incontrare un magistrato per confessargli “nuove sconvolgenti rivelazioni”. Accompagnato da un cancelliere, il sostituto Pietro Scaglione si recò nella cella di Pisciotta, per interrogarlo, ma il luogotenente di Giuliano chiese di parlare “a quattr’occhi” con il magistrato, senza la presenza di altre persone. Mio nonno disse che la presenza del cancelliere era indispensabile per verbalizzare le sue rivelazioni, ma Pisciotta chiese una pausa di riflessione.
Non vi fu più tempo. Il 9 febbraio del 1954, infatti, Gaspare Pisciotta morì avvelenato con la stricnina, contenuta in un cucchiaio di Vidalin e non nel leggendario caffè corretto (come si era creduto per tanti anni). Ma chi tappò per sempre la bocca ad uno scomodo pentito, depositario di inquietanti segreti sulla strage di Portella della Ginestra e sugli inconfessabili accordi tra il potere e lamalavita?
Indagando sulla morte di Pisciotta, il sostituto procuratore Pietro Scaglione parlò apertamente di responsabilità dell’alta mafia, che aveva già ucciso numerosi sindacalisti nemici del latifondo. Una lunga scia di sangue culminata proprio nell’assassinio di mio nonno nel 1971, un’altra data storica che segnò l’inizio dell’attacco contro la magistratura.”
( Testimonianza di Pietro Scaglione su Famiglia Cristiana, n.51 del 18 dicembre 2011)
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