26 gennaio 2012

Ripensando Auschwitz: la cultura è un “coperchio di lordure”?

        





 
T.W. Adorno nella sua Dialettica negativa si domandava che senso avesse ancora la filosofia dopo Auschwitz e, polemizzando con Heidegger che aveva sostenuto ideologicamente il nazismo, arrivò a definire la cultura un “coperchio di lordura”.
          Oggi, nel sessantasettesimo anniversario dall’apertura dei cancelli di Auschwitz, anche in Italia  si ricorda il tentativo di annientamento degli ebrei d’Europa compiuto dal nazismo e dai suoi alleati. Ed ancora si rimane sgomenti di fronte alle immagini del terrore pianificato scientificamente  e ci si chiede come possa  essere avvenuto tutto quell’ orrore.
           Per evitare di cadere nella retorica celebrativa,  ci sembra utile proporre la lettura  di un breve saggio di  Alberto Burgio che riassume i termini di un dibattito ancora aperto. 


 ALLE RADICI DEL NAZISMO

«Parlare dei "caratteri nazionali" di un popolo significa parlare di tratti culturali che, costituitisi sullo sfondo di dati quadri storici, hanno contribuito a formare comportamenti che individui o gruppi hanno assunto di fronte a situazioni storicamente date»
Riflettere sulla «costruzione sociale del male» a proposito delle atrocità collettive generate dal nazismo e in particolare in relazione alla Shoah restituisce attualità alla questione che si può dire abbia motivato l'intera ricerca di Primo Levi: capire - per quanto possibile - ciò che avvenne nell'Europa sottomessa al nazismo implica in effetti riuscire a «capire i tedeschi».
Violenza inutile
Nella misura in cui fu il fascismo tedesco, il nazismo costituì un fenomeno generale, inquadrabile nel contesto della modernizzazione europea, sullo sfondo della crisi economica e sociale connessa allo sviluppo della società di massa, alla torsione sciovinista e imperialista delle politiche statuali e alle ripercussioni della prima guerra mondiale, della rivoluzione d'Ottobre e della Grande crisi del '29. Rientrano in tale contesto generale il travolgimento delle strutture dello Stato liberale di diritto e l'instaurazione di un potere discrezionale, la brutale ripresa del colonialismo, la deriva razzista e lo stesso sopravvento della razionalità tecnica messo in rilievo da analisi classiche delle cause dello sterminio, da Günther Anders a Detlev Peukert, a Zygmunt Bauman.
Vi è tuttavia una specificità. A fare del nazismo un unicum nel quadro dei fascismi e dei cosiddetti «totalitarismi» fu una violenza estrema e «inutile», in larga misura fine a se stessa, un surplus di violenza che non dev'essere confuso con la manifestazione di impulsi sadici da parte di singoli individui, come nel caso dei torturatori di Abu Ghraib. Tale eccesso di violenza non si espresse soltanto nei crimini commessi dalle autorità politiche e militari (Wehrmacht compresa), ma anche nei comportamenti spontanei di gran parte della popolazione civile, ancor prima dell'inizio della guerra. Il concetto di «costruzione sociale del male» assume un significato pregnante al suo cospetto perché nella Germania degli anni Trenta e Quaranta il male prese effettivamente forma e si dispiegò anche nel corpo della «società civile» tedesca.
Ma se è vero che il surplus di violenza - la sua mostruosità e gratuità, messa in risalto dalla sua fredda pianificazione burocratica - è il tratto distintivo del nazismo, si tratta di interrogarsi sulle sue origini (il che in nulla contrasta con la percezione della cesura storica che il nazismo rappresentò, con il salto di qualità che esso impresse alla storia tedesca, europea e mondiale). Da dove sgorgò tanta brutalità? Qual era l'humus nella quale la diffusa disponibilità all'orrore affondava le radici?
Un problema storico fondamentale connesso al tema della violenza diffusa nella Germania nazista concerne la qualità del consenso di massa che sostenne il regime sino al termine del conflitto bellico. Come la più recente storiografia viene documentando, non si trattò infatti tanto di terrore né di una peraltro colpevole indifferenza e complicità oggettiva di «spettatori» apatici o distanti. Si trattò piuttosto di un inestricabile intreccio tra repressione e consenso, di un insieme di comportamenti nei quali si espressero l'adesione generalizzata alla politica del regime e la partecipazione diretta, attiva e consapevole di gran parte della popolazione ai crimini nazisti.
Consenso attivo e partecipazione
Come ha scritto Robert Gellately, caratteristico del nazismo è il fatto che il regime non incontrò alcuna difficoltà nell'ottenere la cooperazione dei cittadini comuni, nemmeno quando si trattò di mettere in atto spaventose violenze e politiche criminali. L'idea che il regime avesse «lavato il cervello» di sessanta milioni di individui o che riuscisse a trattare i tedeschi come se fossero prigionieri, in blocco, in un campo militare è assurda, e se continua a tenere banco, è perché non si vuole guardare in faccia un dato indubbiamente sconvolgente: le atrocità del nazismo non furono perpetrate soltanto nel nome del popolo tedesco, ma con il sostegno di gran parte della popolazione.
Di fronte a questo scenario ci si può rassegnare all'incomprensibilità dell'accaduto. Ma se invece cerchiamo di capire, se - come scrisse Cesare Cases a proposito di Levi - ci ostiniamo a «scegliere l'innocua razionalità per giungere al cuore dell'assurdo», come dobbiamo procedere? Indicazioni preziose provengono proprio dalla storiografia che ha messo al centro la questione del consenso di massa a Hitler e al nazismo. L'analisi di Ian Kershaw è un fermo atto di accusa nei confronti della «società civile» tedesca, il cui crescente consenso è riconosciuto decisivo nel tragico sviluppo degli avvenimenti. «Settori sempre più ampi del regime e della società furono complici in una serie di politiche che poi sfociarono nel genocidio», scrive Kershaw a conclusione di una ricerca che pone al centro il tema delle «motivazioni» alla base del consenso stesso. Il successo della propaganda («le magie di Goebbels») non si spiega se non alla luce della sua capacità di evocare delusioni e aspettative comuni e di richiamarsi ad atteggiamenti e valori diffusi. Gli arbitri delle polizie soddisfecero una vasta domanda di ordine e di «purificazione» sociale dopo il «caos» politico e morale della repubblica. L'ideale della «comunità di popolo», con il suo tragico corollario di esclusione e di persecuzione degli estranei, rispose a un'istanza condivisa e radicata di coesione e di omogeneità.
Un ruolo affatto cruciale giocò la cultura politica tradizionale, la propensione a concepire un'immagine eroica e guerresca della politica come «egemonia imperiale» ed esercizio di potenza sul piano internazionale. E altrettanto profondamente influì, in connessione con questo tratto aggressivo, l'inclinazione ad affidarsi senza riserve alle decisioni di un capo carismatico circondato da un'aura sacrale e investito di un illimitato potere mistico in quanto capace di evocare una prospettiva salvifica di redenzione politica, un futuro eroico per una Germania rigenerata.
Ma la storiografia non è la prima a percorrere questo cammino. Il nesso tra cultura e scelte politiche, tra sistemi di valori, quadri morali, tratti psicologici e comportamenti collettivi, viene messo a fuoco, ancor prima che la Germania e l'Europa siano liberate dalla peste nazifascista, da una serie di contributi offerti da letterati, filosofi, psicologi e uomini politici ben addentro alla «questione tedesca». Tra questi spicca in particolare la testimonianza di Thomas Mann, che tra il 1930 e il 1950 torna sul tema a più riprese in interventi pubblici (discorsi, articoli e, negli anni di guerra, nei messaggi radiofonici rivolti ai tedeschi) e nella corrispondenza.
L'«anima tedesca»
«Se esiste la Germania - scrive Mann nel gennaio del '45 -, se esiste il popolo come figura storica, come una personalità collettiva con un carattere e un destino, allora il nazionalsocialismo non è se non la forma che un popolo, il tedesco, ha assunto venti anni fa per intraprendere il tentativo più audace che la storia conosca, attuato con i mezzi più ampi, più crudeli e più insidiosi, del soggiogamento e della riduzione in schiavitù del mondo: tentativo che per un filo non è riuscito». Il nazismo è la forma che il popolo tedesco ha voluto darsi. Ma perché? Qui il discorso assume una piega drammatica. Mann ritiene che quanto è accaduto sia il risultato «del carattere e del destino del popolo tedesco». E, consapevole di esporsi all'insulto e al risentimento, enuncia quella che gli pare una verità innegabile: il nazismo ha «radici centenarie nella storia della vita germanica», «radici nel popolo tedesco, nel carattere tedesco, nella psicologia tedesca».
Queste riflessioni trovano sistemazione in una conferenza che Mann tiene a Washington, presso la Library of Congress, nel giorno del suo settantesimo compleanno. È il 6 giugno del '45, nemmeno un mese dopo la capitolazione incondizionata della Germania nazista. Il titolo del discorso, Germany and the Germans, è tutto un programma: dice che non sarebbe possibile comprendere le ragioni della catastrofe della Germania senza parlare dei suoi abitanti e della loro «singolarità»: della loro cultura e psicologia, della loro storia e configurazione morale, delle loro scelte, predilezioni e responsabilità.
Il ritratto che Mann abbozza dell'«anima tedesca» è di una mirabile lucidità e, insieme, di una straordinaria intransigenza. Mette a fuoco il difficile rapporto col mondo (un misto di presunzione e provincialismo); i paradossi di un'idea aggressiva della libertà fondata sul servilismo verso l'autorità costituita; il disprezzo per la politica ereditato dalla Riforma luterana e la conseguente identificazione tra politica e violenza; l'ambiguità fondamentale del romanticismo tedesco, pervaso dall'esaltazione della vitalità e da una morbosa attrazione verso la malattia e la morte.
Cautela e tabù
Tuttavia si pongono a questo riguardo diversi problemi. In primo luogo, non è chiaro in che misura le disposizioni dei soggetti incidano sui processi storici e quanto invece debba essere ricondotto all'oggettività delle situazioni sociali e politiche. In proposito è indispensabile evitare approcci unilaterali e coniugare, nel concreto dell'analisi, elementi di ordine «situazionale» e aspetti connessi alle motivazioni degli attori individuali e collettivi. Alquanto problematica appare poi l'idea di «carattere» di un popolo o di una nazione. Qualsiasi generalizzazione su questo terreno è arrischiata, forse arbitraria. Nel fare riferimento ai «caratteri nazionali», o allo «spirito di un popolo», dobbiamo essere consapevoli di muoverci in una logica probabilistica, simile a quella che sottende le analisi statistiche.
D'altra parte non si può negare che il discorso sui «caratteri nazionali» abbia una sua consistenza, e una sua notevole utilità. È consistente per il semplice fatto che differenti tradizioni culturali (intese, nel senso più comprensivo, come sistemi di credenze, valori e norme) esistono e influiscono in profondità (e in modo perlopiù inconsapevole) tanto sulla configurazione delle identità individuali e di gruppo (in particolare attraverso i processi formativi) - quindi sui comportamenti individuali e collettivi - quanto sulla struttura delle società (le forme di relazione, i rapporti gerarchici, le istituzioni). Di qui l'utilità di un discorso che può aiutarci a comprendere reazioni differenti al cospetto di situazioni analoghe e svolgimenti peculiari di quadri storici generali. In questo senso l'analisi dei «caratteri nazionali» merita, forse, di essere riscattata dalla condizione nella quale oggi versa: a ben vedere, infatti, noi tutti ce ne serviamo, salvo rifiutarci di prenderla troppo sul serio e di conferirle la veste di un discorso «scientifico».
Le motivazioni di questa cautela sono note e irreprensibili. Storicamente questo discorso è venuto assumendo connotati irricevibili. Da quando il romanticismo ha declinato in chiave irrazionalistica il concetto di «spirito del popolo»; da quando, soprattutto, si è preteso di costruire, in ambito positivistico, una scienza chiamata «psicologia dei popoli», si è via via ritenuto di poter risalire dai comportamenti e dalle tradizioni culturali a una presunta natura delle diverse nazionalità. Il discorso è stato, cioè, declinato in chiave essenzialistica e deterministica, il che lo ha fatalmente trasformato in un ingrediente della grande e sciagurata narrazione razzista.
Si comprende bene quindi il discredito in cui è caduto e il tabù che oggi tende a sconsigliarne l'impiego. Ma, come spesso accade, il tabù sacrifica un importante e fecondo filone di ricerca, per salvare il quale si tratta piuttosto di affrontare diversamente il problema, curando di mantenere l'analisi saldamente ancorata al terreno storico. Parlare dei «caratteri nazionali» di un popolo - in questo caso dei tedeschi - significa parlare di fondamentali tratti culturali che, costituitisi e sedimentatisi sullo sfondo di determinati quadri storici, hanno verosimilmente contribuito a dar forma ai comportamenti che individui o gruppi hanno assunto al cospetto di situazioni storicamente determinate.

   Alberto Burgio  su  il manifesto   del 19 gennaio 2012

1 commento:

  1. Per i celebratori di una "memoria" senza dialettica, può essere utile rileggere anche questa pagina di Z. Bauman:

    «L'omicidio di massa non è un'invenzione moderna. La storia è carica di inimicizie collettive e settarie, sempre reciprocamente nocive e potenzialmente distruttive, che spesso sfociano nella violenza aperta, talvolta portano al massacro e in qualche caso allo sterminio di intere popolazioni e culture. Ciò nega l'unicità dell'Olocausto. In particolare, sembra smentire lo stretto legame tra l'Olocausto e la modernità, l'«affinità elettiva» tra l'Olocausto e la civiltà moderna. Suggerisce, invece, che l'odio omicida collettivo è sempre stato tra noi e probabilmente non scomparirà mai; e che il solo significato della modernità a questo proposito consiste nel fatto che, contrariamente alle sue promesse e alle sue diffuse aspettative, essa non ha smussato gli spigoli certamente affilati della coesistenza umana, e dunque non ha posto fine alla disumanità dell'uomo nei confronti dell'uomo. La modernità non ha mantenuto le proprie promesse. La modernità ha fallito. Ma essa non ha alcuna responsabilità per l'episodio dell'Olocausto, poiché il genocidio accompagna la storia umana fin dall'inizio. Questa non è, tuttavia, la lezione contenuta nell'esperienza dell'Olocausto. Senza dubbio esso fu l'ennesimo episodio della lunga serie degli omicidi di massa tentati, e della serie non molto più breve di quelli compiuti. Ma presenta anche caratteristiche che non condivide con nessuno dei precedenti casi di genocidio. Sono queste caratteristiche che meritano particolare attenzione. Esse hanno un sapore distintamente moderno. La loro presenza suggerisce che la modernità ha contribuito all'Olocausto in modo più diretto che non semplicemente attraverso la propria debolezza e inettitudine. Suggerisce che il ruolo della civiltà moderna nello scatenamento e nell'esecuzione dell'Olocausto fu attivo, non passivo. Suggerisce che l'Olocausto fu, nella stessa misura, un prodotto e un fallimento della civiltà moderna. Come tutto ciò che viene fatto in modo moderno - razionale, pianificato, scientificamente informato, esperto, efficientemente gestito,coordinato - l'Olocausto si lasciò alle spalle e fece impallidire tutti i propri presunti equivalenti premoderni, rivelandoli come comparativamente primitivi, dispendiosi e inefficienti. Come ogni altra cosa nella nostra società moderna,l'Olocausto fu un'impresa particolarmente ben riuscita sotto tutti gli aspetti, se valutata in base agli standard che questa società ha esaltato e istituzionalizzato. Esso torreggia accanto ai precedenti episodi di genocidio nello stesso modo in cui gli stabilimenti industriali moderni giganteggiano accanto alle botteghe artigianali rurali, o l'agricoltura industriale moderna - con i suoi trattori, le sue mietitrebbie, i suoi pesticidi - giganteggia accanto alla casa colonica contadina con i suoi cavalli, le sue zappe e i suoi raccolti a mano».

    da: Modernità e Olocausto, di Zygmunt Bauman, IL Mulino pp. 131-132

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