03 gennaio 2012

L'eresia di Leonardo Sciascia


Ripropongo una parte del colloquio, svoltosi nella primavera del 1979 tra Leonardo Sciascia e una scolaresca di Santo Stefano di Quisquina (Ag), che anticipa molti dei temi ripresi dallo scrittore nella famosa intervista rilasciata a Marcelle Padovani lo stesso anno, pubblicata da Mondadori con il titolo La Sicilia come metafora. Marcello Cimino registrò l’incontro e pubblicò il documento sul giornale L’Ora il 9 maggio 1979, con una breve presentazione che saltiamo, e con il titolo “Elogio dell’eresia”. In questo importante documento si trova la celebre affermazione:
               “l’eresia è di per sé una grande cosa, e colui che difende la propria eresia è sempre un uomo che tiene alta la dignità dell’uomo. Bisogna essere eretici, rischiare di essere eretici, se no è finita. Voi avete visto che non è stata soltanto la Chiesa cattolica ad avere paura delle eresie. E’ stato anche il Partito Comunista dell’Urss ad avere paura dell’eresia, e c’è sempre nel potere che si costituisce in fanatismo questa paura dell’eresia. Allora ogni uomo, ognuno di noi, per essere libero, per essere fedele alla propria dignità, deve essere sempre un eretico”. (fv)

 ELOGIO DELL'ERESIA
Prima di cominciare questo gioco di domande e risposte voglio dirvi che sono nato in linea d’aria a pochi chilometri da qui, eppure questa è una zona che non conosco. Ci sono passato solo una volta, tornando da Cianciana, dove ero andato a parlare di Alessio Di Giovanni. Bivona, per esempio, è per me un nome che mi ricorda i rapporti di Sant’Ignazio con il collegio dei gesuiti e le lettere che egli scrisse a una nobildonna di qui, riportate in un libro intitolato Sant’Ignazio e le donne. Bivona poi mi ricorda l’esistenza di una sott’intendenza, della sottoprefettura. E basta. Considerando che sono nato a pochi chilometri di qui, colpisce questo isolamento che c’è fra un comune e l’altro della stessa provincia. Inoltre questa è una zona in un certo senso letterariamente deserta. Un nostro professore abbastanza razzista, direi, ritiene che si possa fare una mappa dell’intelligenza sicula, e che questa zona ne sia deserta. Non è assolutamente vero. Io credo che qui ci siano delle condizioni che non hanno permesso all’intelligenza di svilupparsi, di fiorire. Effettivamente c’è un deserto. La sola cosa dopo Alessio Di Giovanni (poeta e dialettologo, nato a Cianciana nel 1873) che sia stata scritta su questa realtà, è quel bellissimo libro, veramente straordinario,[Terra di rapina]di Giuliana Saladino, che spero tutti voi conosciate. Ecco, non ho altro da dire. Domandate ora quello che volete, molto liberamente, non considerando che fra noi ci sia distanza di anni, come invece purtroppo c’è.
Questi ragazzi che accedono a questa scuola sono un po’ perplessi: parlare di missione dell’educazione? E’ retorica o è vana poesia?
Parliamone come di un lavoro, è meglio.
Lei ha scritto:“Mi disgustano coloro che da fuori esaltano le gioie e i meriti di un simile lavoro (di insegnante). Qui e in molti luoghi della Sicilia è come il lavoro di un minatore che scende in una miniera. Non nego però che in altri luoghi e in diverse condizioni un po’ di soddisfazione potrei cavarla dal mestiere di insegnare”. Quali potrebbero essere questi altri luoghi e condizioni?
Questo brano ha una notazione personale perché riguarda un momento particolare della mia vita. Da noi, in questa nostra realtà, la cultura non è concepita come un fatto unitario, cioè come lavoro, come una cosa di cui tutti abbisogniamo, di cui ci serviamo, che serve per capire il mondo, per spiegarcelo, per capire la storia, la nostra situazione di fronte alla storia. La cultura è sempre stata concepita come un ornamento, come qualcosa che non ha niente a che fare con le condizioni di vita. Per me, quindi, entrare in una classe dove c’erano quaranta bambini, fra i quali almeno trenta avevano fame, e dover spiegare loro la storia, limitandomi però alla prima guerra mondiale, senza andare avanti perché si doveva parlare del passato solo in termini retorici, questo per me non solo era assurdo, ma anche un poco infame. Oggi le condizioni della scuola sono molto diverse. Si può dire che la scuola non esiste più, in un certo senso. E’ vero che qui, da voi, a Santo Stefano, avete un liceo a indirizzo linguistico e pedagogico. E l’agricoltura? E’ una cosa assurda che qui non esista un liceo con indirizzo agricolo. La scuola è un po’ come ai tempi miei, tutto sommato. E’ un piccolo ornamento. Allora diventa un po’ assurdo che voi stiate qui ad ascoltare l’insegnante che vi parla di linguistica, quando intorno a voi avete tanti problemi reali. Il mestiere di insegnare e anche il mestiere di apprendere in queste condizioni continua a essere assurdo.
Pensa che la scuola conservi ancora l’esclusività della formazione dei giovani?
No, e credo che non l’abbia mai avuta, tutto sommato. E oggi meno che mai.
In una scuola di massa, non ha più senso la vecchia maniera di considerare la letteratura come materia privilegiata. Quale indirizzo, secondo lei, dovrà seguire la letteratura per essere più utile?
La letteratura non ha nessun indirizzo da seguire. La letteratura soffia dove vuole. Non ci può essere un modo per incanalarla, di farla andare verso determinati risultati. L’esercizio della letteratura deve essere necessariamente libero. Il problema della letteratura è piuttosto il modo come nella scuola questa letteratura dovrà entrare. La nostra è una letteratura un po’ povera, anche una letteratura un po’ noiosa, quindi bisogna offrire una prospettiva che sia la più consona agli interessi – diciamo – della massa, anche se a me il termine massa non piace molto. La scuola di massa in Italia è un po’ così: tutti sul palcoscenico; la scuola di massa, invece, secondo me, dovrebbe dare a tutti in partenza le stesse condizioni favorevoli, e poi vadano avanti coloro che credono nella meritocrazia. Non sono un reazionario, ma credo che non si possa accedere alle professioni senza conoscenza. Magari un professore di lettere fa poco danno se confonde Petrarca con Boccaccio, ma le case si devono costruire, i ponti si devono fare, i malati bisogna assisterli, gli imputati bisogna difenderli, e ci vuole conoscenza, e chi non ce l’ha non deve esercitare una determinata professione.
Nell’introduzione al libro Le parrocchie di Regalpetra, lei fa quest’amara considerazione: “Chissà quando la meridiana della matrice segnerà l’ora di oggi, quella che per tanti uomini nel mondo è l’ora giusta”. Non crede che quest’ora sia già scoccata? Anche oggi partecipiamo al benessere. Nelle nostre case sono entrate televisioni, radio, frigoriferi, gli elettrodomestici che rendono la vita più facile. Ma lei ritiene un’ora giusta questa per la Sicilia?
Che il progresso materiale, che il cosiddetto benessere abbia raggiunto anche noi, su questo non c’è dubbio. Però non corrisponde a un’effettiva crescita del Meridione, anzi corrisponde una ulteriore degradazione. Questo benessere, automobili ed elettrodomestici, in Sicilia sono pagati da almeno 700 mila emigranti i quali vivono in condizioni ben peggiori di quanto non vivano le loro famiglie qui. No, io non credo che sia ancora l’ora giusta, anzi quello che accade in campo nazionale ritengo metta davanti a un aggravamento di quella che è stata definita la questione meridionale.
Nel libro Gli zii di Sicilia si legge: “…Io credo nei siciliani che parlano poco, che non si agitano, che si rodono dentro e soffrono”. Non crede che questo sia il segno della rassegnazione e della sconfitta nostra? Non bisognerebbe piuttosto manifestare questa sofferenza e il dolore dell’ingiustizia per affermare i valori di una società più umana?
C’è un tipo di siciliano molto estroverso, molto simpatico, molto avvocatesco, per così dire. Generalmente questo tipo di siciliano che parla troppo, è poi quello che accede, senza distinzione di partiti, alla carriera politica e quindi al parlamentarismo. Spesso sono i siciliani peggiori. Sì, certo, gli altri siciliani bisognerebbe che uscissero fuori dal loro silenzio, che però su un piano umano di giudizio, io dico che sono i migliori.
Si parla dello Sciascia de Il Contesto come di uno scrittore che incarna nel suo pensiero l’angoscia dell’uomo offeso da tempo nella sua libertà e dignità. Lei si riconosce in questo giudizio?
Sì, potrei riconoscermi in questo giudizio. Si parla di me come autore del Contesto perché questo è il libro che ha suscitato più polemiche, più risentimenti. Ma Il Contesto è il risultato di tutta una visione delle cose italiane.
Recentemente ha scritto sul “Giornale di Sicilia” e ha detto in un’intervista televisiva che la refrattarietà del popolo siciliano alle idee che cambiano il mondo e la carenza di spirito pubblico costituiscono il male peggiore della realtà siciliana. Potrebbe spiegarci le motivazioni storiche di questi difetti e dirci in che modo la scuola potrebbe contribuire al loro superamento?
Le radici storiche di questo sono abbastanza lunghe e molto ramificate. Comunque si possono identificare nella perpetua insicurezza del siciliano di fronte alla storia, in quest’isola che è stata al tempo stesso isola eppure aperta come continente alle invasioni, a tutte le dominazioni. Comunque, in noi siciliani, persiste una mancanza di speranza, una diffidenza verso le idee perché le idee, anche quelle che apparivano nuove, subito sono diventate strumento di una certa classe sociale che grosso modo possiamo qualificare come borghese-mafiosa, non borghese. Io mi augurerei che in Sicilia ci fosse una borghesia. E’ una borghesia mafiosa, quella siciliana, anche là dove non sembra. Una borghesia che opera senza una visione del domani, a sfruttare determinate situazioni così come un tempo si diceva delle zolfatare: a rapina. Lo sfruttamento a rapina delle zolfatare era quello degli esercenti che si preoccupavano di cavare quanto più materia era possibile, senza curarsi dell’avvenire della zolfatara stessa, né della sicurezza di chi vi lavorava, Ora questa classe sembra inamovibile. Successa alla aristocrazia, essa si è comportata, anche grossolanamente, come l’aristocrazia. Per questo i siciliani non credono più alle idee. E infatti, quando cominciano a crederci, ecco interviene qualcosa per cui non ci crederanno più. Per esempio l’operazione Milazzo – è un giudizio per cui io mi batto da sempre – è stato un modo per ricacciare i siciliani nella sfiducia verso le idee.
Che fra Diego La Mattina sia stato in eretico, non c’è dubbio. Lei può darci ulteriori chiarimenti riguardo alla sua eresia? Ha scoperto qualcosa di nuovo? Chiarimenti che possano farci capire perché fra Diego sia rimasto fermo nel suo tenace concetto tenendo alta la dignità dell’uomo?
No, non ho altre notizie, oltre a quelle trovate allora su frate Diego La Mattina. Ho tentato delle deduzioni. Ho pensato che fosse un’eresia di carattere sociale più che teologico, ma non sono andato oltre. Comunque l’eresia è di per sé una grande cosa, e colui che difende la propria eresia è sempre un uomo che tiene alta la dignità dell’uomo. Bisogna essere eretici, rischiare di essere eretici, se no è finita. Voi avete visto che non è stata soltanto la Chiesa cattolica ad avere paura delle eresie. E’ stato anche il Partito Comunista dell’Urss ad avere paura dell’eresia, e c’è sempre nel potere che si costituisce in fanatismo questa paura dell’eresia. Allora ogni uomo, ognuno di noi, per essere libero, per essere fedele alla propria dignità, deve essere sempre un eretico.
Vorrei sapere che analogia c’è tra lei, scrittore contemporaneo, e i suoi personaggi storici, come il Di Blasi, o il fra Diego La Mattina, da lei attentamente cercati.
Le analogie forse ci sono, ma per me è più facile parlare della simpatia, che io ho sempre avuto, per questi personaggi eretici, ribelli, sconfitti. In un certo senso è la loro sconfitta quella che mi ha arrovellato. Perché vorrei non essere sconfitto anch’io. Cioè non vorrei che la Sicilia fosse sempre sconfitta, che nella Sicilia la ragione debba essere sempre soccombere. Da ciò la mia simpatia per questi personaggi. Ma ho avuto simpatia anche per un personaggio che un tempo si sarebbe detto negativo, l’abate Vella che era un falsario, un imbroglione. A parte la simpatia umana che si può avere per lui, lo riconosco come uno che a suo modo ha pensato di ribellarsi contro il privilegio. Ha fatto dei falsi per rivendicare alla Sicilia i suoi diritti contro il potere baronale. Ecco, la mia simpatia viene da questo, dal fatto che è stato uno strumento di lotta contro il potere baronale. Tutti i guai della Sicilia – lo ripeto – prendono inizio dal potere baronale che si è poi trasmesso a quella classe che io chiamo borghese-mafiosa. -
Vorremmo sapere in quale libro e in quale personaggio lei è stato il più autobiografico.
“Candido”.
Che cosa è cambiato nella mafia siciliana dagli anni ’50 a oggi?
La mafia da fenomeno rurale è diventata fenomeno cittadino e parapolitico; si è trattato di una specie di integrazione nel potere. La mafia non è più apparentemente riconoscibile come un tempo. Personaggi pittoreschi sono stati eliminati, e in questo ha avuto la sua funzione la Commissione Antimafia, appunto eliminando le frange pittoresche della mafia e portandola un po’ più dentro il potere.
Lei con il suoi libri ha scritto tanto di fatti e personaggi siciliani. Quale contributo potrebbe dare al rinnovamento della cultura, e quindi della società civile, la riscoperta delle culture locali?
Credo che la riscoperta delle culture locali sia un’operazione da fare seriamente. Purtroppo nelle nostre Università è entrato, per esempio, lo strutturalismo, una cosa che funziona pressappoco come l’affettatrice della mortadella, e allora le culture locali si perdono di vista. Tutto quello che si è conservato si deve a quei poveri galantuomini che senza registratori, senza questi mezzi di oggi, hanno raccolto una messe ingentissima di tradizioni, di usi, di letteratura popolare. Parlo di Pitré, di Salomone Marino, di Gaetano Di Giovanni. Ora nell’Università si vive di rendita su quello che hanno fatto costoro. Se invece si lavorasse seriamente, questo è il momento della riscoperta delle culture locali. In un certo senso io mi sento uno che riscopre le culture locali.
Tanta cultura si proclama popolare ma l’intellettuale appartiene ancora a una casta, il che lo pone al di fuori e al di sopra della gente comune. No?
Ciò dipende dal carattere della cultura italiana. Per cominciare, dal fatto che c’è un diaframma tra la lingua di ogni giorno e la lingua di uno scrittore. C’è anche il costume dell’intellettuale che è sempre un po’ cortigiano, un po’ conformista, che è quasi sempre col potere. Senza dubbio c’è anche questo, però è pure vero che per esempio il diaframma tra la lingua di tutti i giorni e quella degli scrittori è stato superato, è stato rotto da uno scrittore come Pirandello. Non da Verga, il quale forse questo diagramma l’ha un po’ alimentato. Ma scrittori come Pirandello, cui seguono scrittori come Moravia, credo abbiano rotto questo diaframma. Penso anche che lo scrittore italiano sia un po’ mutato. Certo, c’è ancora il vizio dei manifesti, delle dichiarazioni, come se lo scrittore effettivamente contasse, mentre invece non conta un granché. Io personalmente credo di aver tentato di scrivere per più persone possibile. Non dico che l’abbia fatto volontariamente, perché è un’ipocrisia dire che lo scrittore scrive per essere inteso dal contadino e dall’operaio. Lo scrittore scrive per se stesso, e per gli altri se stessi. In me c’è quest’essere popolo, questo essere della vita di ogni giorno, a contatto con la realtà, e in questo senso credo di essere uno scrittore un po’ diverso dalla media italiana, e, come me, altri.
Nelle Parrocchie di Regalpetra ho letto che per lei la pietà è un terribile sentimento. Un uomo deve amare e odiare, mai avere pietà. Questa affermazione non sovverte le basi su cui si basa tanta morale?
Alla fine del fascismo io ho avuto un certo movimento di pietà, di cui però negli anni successivi mi sono pentito, perché ho visto il fascismo tornare, essere più forte, come forse ancora è. E allora ho fatto questa ritrattazione riguardo alla pietà. Ora debbo dire schiettamente che in questo momento mi sento pieno di pietà.

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