01 aprile 2012

Auguri a Tullio De Mauro




Tullio De Mauro ieri ha compiuto ottant’anni. Il grande linguista - autore di opere fondamentali, il cui valore è riconosciuto internazionalmente -  non ha mai disdegnato l’attività didattica e divulgativa. Per questo per anni ha curato rubriche su giornali e periodici intervenendo puntualmente nel dibattito culturale e politico.
Vogliamo oggi riproporre un suo articolo, pubblicato qualche anno fa,  che ci sembra ancora  particolarmente attuale:


“Il seme della differenza linguistica trova terreno adatto in ogni essere umano e possiamo, anzi dobbiamo rendercene conto, piaccia o no, per molti motivi. Uno è che sul possesso della nostra lingua materna, povero dialetto o lingua illustre che sia, una volta acquisitolo possiamo innestare l’apprendimento di altre lingue anche molto diverse. E, anzi, l’esperienza dei bambini bilingui dice che fin dall’inizio del cammino che porta al linguaggio è possibile imparare a un sol tempo due lingue diverse. Un grande pensatore tedesco del primo Ottocento, politico e insieme grande filologo e linguista, Wilhelm von Humboldt, diceva che possedere una lingua significa possedere la chiave per ogni altra. Se avessimo buona memoria storica e perfino autobiografica o un po’ di spirito d’osservazione, non avremmo bisogno dell’autorità di Humboldt per affermarlo: milioni di noi italiani, emigrati spesso conoscendo solo un dialetto, si sono integrati nell’uso di lingue diverse.

Fino al 1975 il saldo migratorio italiano era passivo o, detto più alla buona, emigravamo assai più di quanto non accogliessimo immigrati di nuovo arrivo. Questa è cosa che a quanto pare non si ama ricordare. Ma la cosa è avvenuta e ha creato tra noi diffuse testimonianze della capacità di conquistare nuove lingue, anche nelle circostanze assai difficili in cui si trovano in genere i migranti. Ciò che è avvenuto per noi italiani, avviene in tanta parte del mondo per i milioni di migranti, ispanici in USA, cinesi, indiani e africani di varia lingua un po’ dappertutto. Anche paesi a lungo isolati dai flussi migratori, come il Giappone, si sono ormai aperti alle ondate di migranti coreani, cinesi e del sud-est asiatico. Sono flussi demografici che creano nuovi spazi per il plurilinguismo e nuove necessità per sperimentare la capacità umana di apprendere altre lingue oltre la materna. E lo stesso avviene sotto i nostri occhi nelle scuole, nelle imprese, nelle case dove milioni di immigrati conservando ovviamente la loro lingua materna, cui spesso si aggiungono un buon inglese o francese, vengono imparando i nostri dialetti e la nostra lingua, come da molti anni analizzano con cura studiosi delle università di Pavia, Bergamo, Siena, Roma.

Non voglio qui riprendere polemiche contro la squallida mozione Cota sulle classi ghetto. Al contrario, voglio invitare a una saggia pazienza: Cota può far del male a breve termine, ma i Cota passano e la vocazione plurilingue dell’uomo resta. Ma altre possibilità abbiamo per valutare oggettivamente la vocazione umana alla diversità linguistica. La più accessibile è considerarne gli effetti in tutte le parlate del mondo o almeno su quelle molte che, tra le settemila oggi un uso, abbiamo studiato e possiamo documentare più analiticamente. Una lingua non è un sistema statico, chiuso e fermo. È un insieme dinamico sempre ampliabile e integrabile in risposta alle necessità dell’uso. A molte integrazioni chi parla una lingua provvede con mezzi interni alla lingua stessa. Ma una continua fonte di novità e integrazioni è per i parlanti di ogni lingua ricorrere ad altre lingue, importandone strutture anche sintattiche e grammaticali, ma soprattutto parole nuove. Tre secoli prima che la linguistica cominciasse a studiare e documentare i flussi di prestiti da una lingua all’altra, con il genio dell’osservatore e dello storico Niccolò Machiavelli scriveva: «Non si può trovare una lingua che parli ogni cosa per sé senza aver accattato da altri».

Il prestito linguistico non solo non è fatto marginale, ma in certi casi modifica profondamente nel tempo la fisionomia di una lingua. Un caso noto è quello del persiano moderno, una lingua indoeuropea in cui, sotto la spinta religiosa dell’Islam, il vocabolario si è arabizzato. Al contrario il malti, una lingua semitica prossima all’arabo, si è indoeuropeizzato nel vocabolario e, più in particolare, si è arricchito di prestiti dal siciliano e dall’italiano comune. Il prestito da altre lingue ha raggiunto proporzioni eccezionali nell’inglese sia britannico sia americano. L’inglese, si sa, è una lingua di origine germanica, affine a tedesco, olandese e alle lingue nordiche. Dal tardo medioevo è stato arricchito da prestiti di matrice latina, tratti o dal francese o direttamente dal latino e il suo volto è cambiato. Studiando un campione di parole dell’Oxford English Dictionary risulta che soltanto il 10% delle parole registrate dal dizionario appartiene all’originario fondo germanico. Il 25% è rappresentato da neoformazioni createsi nella storia della lingua. Ben il 65% del vocabolario inglese attuale è tratto dal latino, dal francese e, in misura più modesta, da italiano e spagnolo. Gli ispanismi, ma anche gli italianismi, sono meglio rappresentati nell’inglese d’America. La presenza latina e neolatina è così forte che uno studioso inglese, James Dee, si è spinto a dire che l’inglese è la lingua che meglio conserva l’eredità del latino classico, medievale e moderno.

Rispetto all’inglese l’italiano è un po’ più fedele alle sue origini, cioè alle origini latine. Una grande fonte dizionaristica italiana, paragonabile per estensione all’Oxford English Dictionary, permette di affermare che nell’italiano oggi in uso le parole di diretta eredità latina sono quasi 41mila, poco meno di un sesto del totale e quindi assai più del decimo di parole germaniche in inglese. Il latino è presente in italiano in modi diversi. Come nelle altre lingue europee, è stato e resta il filtro di grecismi: democrazia, economia, matematica ecc. Ci sono poco più di 10mila parole che un grande storico della lingua, Bruno Migliorini, definiva patrimoniali: sono parole presenti dall’origine nelle parlate toscane, quindi poi in italiano, e, con le dovute varianti, nei dialetti: abbondare, avere, dovere, faccia, rabbia ecc. La gran maggioranza delle parole d’origine latina è stata presa dalla tradizione scritta e colta antica e medievale e introdotta di peso nell’italiano ormai formato e, in parte, anche nei dialetti: abate e abbazia, abietto e abiezione, abile e abilità, acacia (la forma patrimoniale c’è ed è gaggia), popolo (la forma patrimoniale fu, in antico, povolo) ecc. In terzo luogo, non solo tra giuristi e medici continuano a circolare un migliaio di locuzioni latine antiche o medievali: ab antico, ad hoc, a latere, ab origine, grosso modo, sine die. Infine ci sono i «cavalli di ritorno»: latinismi dell’inglese che tornano per questa via tra noi come abstract, education o sentimentale. Il latino è una cava a cielo aperto sempre attiva per chi ha parlato e parla o scrive l’italiano. Manella nostra storia abbiamo attinto anche ai giacimenti di altre lingue per costruire l’identità dell’italiano e dei dialetti. Dall’area francese e provenzale vengono moltissime parole, quasi diecimila, come abbandonare,abbordare, accetta, blu, coraggio e gioia e i francesismi non adattati riconoscibili facilmente come tali; abat-jouro élite o stage. E da enveloppe a buatta o custureri o vucciria i dialetti testimoniano di una penetrazione francese antica e popolare. Fonti importanti sono state nel medioevo le lingue dei dominatori germanici, goti, franchi e longobardi. Le parlate italiane (a volte attraverso il francese) devono a esse parole fondamentali come albergo,anca, attecchire, balcone, banca, banda, bianco, biondo, bosco, brodo, ciuffo, federa, fiasco, fodero, gaio, gruppo, guancia, guidare, marcare, marrone, milza, nastro, recare, rubare, scarpa, schietto, vanga. È una piccola scelta di parole per dire quanto più povere sarebbero le parlate italiane senza l’apporto francese e germanico.

Ma non è possibile tacere degli apporti che l’italiano e i dialetti hanno tratto nei secoli da un’altra lingua, l’arabo. Alcune parole come ayatollah, kebab (giuntoci come caffè attraverso il turco), kefiyyah hanno avuto una reviviscenza recente. Altre non hanno bisogno di reviviscenza tanto sono radicate profondamente sul suolo italiano. Anzitutto nei nostri dialetti, specie nelle parlate siciliane, attraverso cui sono poi spesso passate nell’italiano comune, come cosca, dammuso, sciarra e sciarriari, zagara, ma si pensi anche al genovese camallo o all’orginariamente veneziano arsenale. Molte si sono insediate nell’italiano dai primi secoli della nostra storia linguistica come effetto del superiore prestigio culturale che avevano gli islamici dall’Arabia all’Africa Settentrionale alla Spagna. Ecco una piccolissima scelta di queste parole: alambicco,albicocca, alchimia, alcol, alcova,alfiere, algebra, algoritmo, almanacco, ammiraglio, arsenale, auge, assassino, azimut, azzardo, azzurro. Nutrizione e astronomia, chimica e costume, tecnologia e matematiche: tutti campi in cui noi, ma anche altri europei, abbiamo imparato cose e parole dalla grande cultura araba. Dell’amalgama (arabismo!) di tante contaminazioni è fatta l’identità delle nostre parlate e dell’italiano.”

Tullio De Mauro in  L’Unità  del 1 settembre 2009
 

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