“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
11 aprile 2012
LA STORIA DI ELSA MORANTE
Di Elsa Morante ci siamo già occupati, in questo blog, parlando brevemente de Il mondo salvato dai ragazzini. Oggi ci torniamo riproponendo l’articolo di Carola Susani, pubblicato sull’ultimo numero di Nuovi Argomenti.
In questi giorni rileggevo La Storia di Elsa Morante e mi accorgevo di quanto in profondità quelle pagine si erano depositate in me. Le vicende occorse a Ida, Nino e Useppe, quelle minute e quelle gravi, nell’inverno del 1974, mia madre me le raccontava la sera per addormentarmi. Certo, sorvolava sui momenti più crudi e dolorosi, ma il sentimento del mondo che si respira in quelle pagine, sono sicura, mi è rimasto dentro fin da allora; la saggezza monumentale di Useppe e Bella, la precisione del loro sguardo sulla vita, di assoluta tenerezza. Già da allora, credo, insieme a un senso di stupore, al gusto assoluto che provavo ad ascoltare le storie, doveva esserci in me un’irritazione, una riottosità. Delle efferatezze nazifasciste sapevo fin dalla prima età della coscienza: appena sono stata in grado di sillabare, i miei genitori mi hanno messo in mano Il diario di Anna Frank, e quel diario felice e aperto al futuro, all’ombra del nazismo, del male cieco che incombeva, che – per me che leggevo – si era già compiuto, aveva dato una forma alle aspettative che riponevo nella letteratura. Chiedevo alla letteratura di far durare la vita, preservarne il lucore, diffonderlo, a dispetto, a scorno, del male. Che cosa fosse per me il lucore della vita ancora non lo sapevo.
La Storia poi l’ho letta, senza intermediari, in adolescenza. Anche allora, sebbene non riconoscessi legittimità al mio giudizio e forse non sapessi neanche che leggere poteva apparentarsi al giudicare, c’era qualcosa in me che scalpitava. Non si trattava di un appunto formale che muovevo al romanzo, era piuttosto un giudizio ideologico che allora non avrei saputo formulare. Anzi. Elsa Morante, mi era chiaro, affrontava le questioni radicali, il fondamento, tutto quello che mi interessava. Anche lei si chiedeva: poiché alcuni tra gli esseri umani commettono il male, l’umanità di quale pasta è fatta? È persa o si può salvare. Salvare anche solo nelle nostre coscienze. Fatto quello, mi sembrava, il più è fatto. Dove alligna il male? E la violenza? C’è una differenza di sostanza tra il male storico e il male radicato nelle cose, nel tempo, nel mondo? Cos’è la morte? All’epoca, avrò avuto sedici anni, amavo l’Adelchi manzoniano, il suo ripudio delle armi in un tempo in cui la lingua stessa degli esseri umani erano le armi, mi sembrava una meraviglia, una genialità di Manzoni. Una genialità che dovevo riconoscere cristiana. Senza avere la benché minima idea di chi fosse Origene, ragionavo: se Dio non salva il diavolo, che Dio è? Non che all’epoca io credessi in Dio, era un ragionamento teorico, ma serio. “Salvare”, nei miei pensieri, quasi si sovrapponeva a “voler bene”. Mi figuravo un “voler bene” universale e attivo capace di mettere fuori uso il male e di salvare ciascun essere umano e l’umanità intera. Con un senso ancora infantile di onnipotenza, mi sembrava che di quel “voler bene” dovevo farmi portatrice in tutto e per tutto io. L’intero campo delle mie riflessioni da adolescente doveva a Elsa Morante più di quanto avrei saputo dire. Senza saperlo ero in debito con lei anche per la scoperta della letteratura come terreno giusto e praticabile sul quale mettere in gioco le mie questioni.
Tra me e il piccolo mondo raccontato ne La Storia, c’erano poi più minute parentele che, a pensarci, spiegano l’amore con cui mia madre ha accolto quel libro e il suo bisogno di mettercene a parte. La mia famiglia, sia da parte di madre che di padre, ha una componente ebraica nascosta, elusa. Se per quanto riguarda il ramo materno, districarsi è semplice: mio nonno si è convertito per sposare mia nonna e da quel momento, a dispetto delle leggi razziali, dei parenti morti nei convogli per i campi, a dispetto delle denunce subite e della necessità di nascondersi, semplicemente non ne ha parlato più; dal lato paterno le cose si fanno più intricate. Portiamo un nome ebraico e un nostro avolo, panettiere, risulta tra i finanziatori della sinagoga di Milano. Questo fatto che poteva essere del tutto irrilevante – come si fa a tener conto dell’intera catena dei propri avi? – è stato invece straziante, terrifico, motore di dubbi, di tormenti, di crisi di identità insopportabili per molti dei componenti della mia famiglia settentrionale, solidamente cattolica e fascista, all’alba delle leggi razziali.
Elsa Morante, ne La Storia, guarda ai suoi personaggi come a creature scosse dai venti, piccole, disarmate. Per farlo sceglie una voce narrante che sa più dei personaggi, che li giudica con brusca dolcezza o tenerezza infinita, una voce dall’alto, lontana e confidente, sollecita, che dialoga con il lettore, che a volte si vuole testimoniale eppure sa troppo, sa cose che nessuno può sapere. La lingua che parla quella voce è una lingua laccata con una patina d’argento polveroso che finge l’effetto del tempo, una lingua dall’alto, ancora una volta, che mette distanza tra sé e la vita che racconta. Ne La Storia nessuno commette il male. Il male si compie continuamente, il dolore che provoca è intollerabile e sempre sotto gli occhi, eppure il male non ha autore umano. La Storia e suoi burattini sono attori del male, ma l’una e gli altri non hanno volto. Quando il male viene commesso rende gli esseri umani amorfi, semplici forse cieche e nere, come i nazisti violatori e assassini di Mariulina, ma è sufficiente che lo sguardo del narratore si soffermi su un volto, che sia anche un volto di stupratore o di assassino, perché da quel volto il male fugga, non sia più riconoscibile. Nella Storia, là dove c’è l’umano, il male scappa come un anguilla pronto a riapparire come forza cieca che caccia via l’umano. Non è commettere il male che corrompe, o quanto meno, quella corruzione è inenarrabile, invisibile, è l’esperienza subita del male che stravolge i lineamenti, come succede a Carlo/Daniele quando lo incontriamo nello stanzone dei Mille.
La considerazione che la morte rende la vita un gioco ritorna ne La Storia come un relitto da Il mondo salvato dai ragazzini, ma se la concepibilità della presenza di una prospettiva estranea al mondo, là, dava alla vita sulla terra la sua misura e la sua levità, qui il gioco, senza alcuna messa in prospettiva, diventa totalitario, perde il suo senso di leggerezza, diventa peso e strazio, cecità, insensatezza. Non sarà un caso se questi sono gli anni in cui Pasolini lavora a Salò. Elsa Morante riesce a salvare le creature dal male, ma a un costo altissimo, quello di togliere loro ogni possibilità di colpa. Umanità e male sono come l’acqua e l’olio, non si mescolano. In questo modo, Morante ci restituisce un mondo di innocenti, in cui persino le più serie e profonde prese di coscienza sono guardate come sforzi ammirevoli, ma in fondo cose un po’ inani, senza nessuna vera possibilità di incidere sul mondo.
Cosa resta: la sapienza degli innocenti più innocenti, Useppe e gli animali, che non se la raccontano. Useppe per cui tutto è meraviglia e tenerezza, gli animali, Bella soprattutto, per cui la tenerezza è sempre strazio. Morante li fa parlare con una lingua resa porcellana. Mi ricordo, che tanto tempo fa, un caro amico mi accusò di maternalismo, ecco, prendo a prestito la definizione, che trovo pienamente calzante per La Storia. Anche se va detto, a difesa di Elsa Morante, che tenersi fuori da un gioco così concepito, guardare le creature dall’alto, è possibile solo per la durata dello sguardo, poi si riscivola dentro come gli altri e lei lo sa.
La mia famiglia però, le creature con cui avevo a che fare io recalcitravano a farsi passare per innocenti. Se anche ci avessero provato, non sarebbe state credibili. E non ci provavano. Le creature con cui avevo a che fare io erano più ingombranti. Avevo un timore cieco ma anche un profonda curiosità per un parente, di cui avevo visto in atto la violenza e di cui conoscevo il passato repubblichino. A modo mio gli volevo bene. Avrei voluto salvarlo. Ma non sarei riuscita in nessun modo a far scappare il male dal suo volto: dalla postura, dallo sguardo, dal modo in cui ti si rivolgeva, si rivelava sempre tutto mescolato insieme: l’umanità, il male commesso e subito, la colpa. Ecco, a un certo punto della mia vita, al tempo in cui concepivo Il libro di Teresa, che ora che ci penso si può anche intendere come un breve commento a La Storia, mi si è rivelato che il mondo, il mio almeno, era popolato da uomini e donne tormentati, figure umanissime, mai innocenti, deliranti a volte, non incoscienti, del tutto simili a me anche se più pesanti, e mi sono resa conto che la mia irritazione per La Storia dipendeva da questo: Elsa Morante non raccontava quello che io avevo davanti agli occhi, aveva rinunciato a concepire e a raccontare la colpa, anzi aveva fatto di tutto per scantonarla. Mentre la presa di coscienza della colpa mi sembrava inevitabile per dar conto di come siamo fatti, necessaria anche alla rivelazione del lucore, e capace di aprire la strada per l’agire finalmente sensato, e incisivo, che Manzoni era stato capace di intuire con l’Adelchi.
Carola Susani, pubblicato oggi sul sito http://www.minimaetmoralia.it/
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In che stagione muore useppe?
RispondiEliminaLo fanno il suo funerale?