Proponiamo oggi la lettura di
una pagina giovanile del geniale Walter Benjamin che affronta, con la sua
consueta originalità, l’annosa questione del rapporto tra giovani e adulti su
cui ci siamo più volte soffermati.
Esperienza (1913)
La nostra lotta per divenire responsabili la combattiamo
contro un essere mascherato. La maschera dell’adulto si chiama «esperienza». È
inespressiva, impenetrabile, sempre la stessa. Quest’adulto ha già vissuto
tutto: gioventù, ideali, speranze, la donna. Tutte illusioni. Ne siamo spesso
intimiditi e amareggiati. Forse ha ragione. Che dobbiamo rispondergli? Non
abbiamo esperienza.
Ma cerchiamo di sollevare la maschera. Quale esperienza ha fatto questo adulto? Cosa ci vuol dimostrare? Una cosa soprattutto: è stato giovane anche lui, ha voluto anche lui quello che vorremmo noi, anche lui non ha creduto ai genitori, ma anche a lui la vita ha insegnato che avevano ragione loro. Ridacchiando con sufficienza ci dice che succederà lo stesso anche a noi; svaluta in anticipo gli anni che viviamo, trasformandoli in anni di cretinate giovanili, in ebbrezza infantile che prelude alla lunga sobrietà della vita seria. Così i benpensanti, gli illuminati. Conosciamo altri pedagoghi, la cui amarezza non ci concede neppure questi brevi anni di «gioventù»; severi e spietati, vogliono fin d’ora metterci di fronte alla fatica di vivere. Gli uni come gli altri svalutano e distruggono i nostri anni. E sempre più siamo sopraffatti da una sensazione: la tua gioventù è solo una breve notte (riempila di ebbrezza!), dopo verrà la grande «esperienza», gli anni dei compromessi, della povertà d’idee, e dell’apatia. Questa è la vita. Questo ci dicono gli adulti, questa è la loro esperienza.
Già! Questa è la loro esperienza, sempre questa, mai un’altra: l’insensatezza della vita. La brutalità. Ci hanno mai incoraggiato verso cose grandi, nuove, future? Oh no! Questo non fa parte dell’esperienza. Tutto ciò che ha un senso, che è vero, buono e bello ha radici in se stesso: a che ci serve allora l’esperienza? Ecco il mistero: poiché non ha mai saputo guardare a ciò che è grande e ricco di significato, il filisteo ha fatto vangelo della propria esperienza. È diventata per lui l’annuncio della banalità della vita. Ma non ha mai compreso che oltre l’esperienza c’è qualcos’altro, ci sono valori – inesperibili – al servizio dei quali noi siamo.
Perché dunque la vita per il filisteo è priva di gratificazioni e di significato? Perché conosce solo l’esperienza e nient’altro. Poiché egli stesso è abbandonato da ogni consolazione, privo dello spirito, e perché ha stretti rapporti solo con ciò che è ordinario ed eternamente rivolto al passato.
Ma noi conosciamo altre cose che nessuna esperienza può darci o toglierci: che esiste una verità, anche se tutto ciò che si è pensato finora era sbagliato. O che si deve tener fede, anche se finora nessuno lo ha fatto. L’esperienza non ci può togliere una simile volontà. E tuttavia, su un solo punto gli adulti potrebbero aver ragione con i loro gesti stanchi e la loro disincantata sufficienza? Quello che sperimenteremo sarà triste e potremo trovare coraggio e senso soltanto nell’inesperibile? Allora lo spirito sarebbe libero, ma la vita lo avvilirebbe continuamente, poiché la vita, somma delle esperienze, sarebbe senza confronto.
Ma non siamo più in grado di capire domande del genere. Facciamo ancora la vita di quelli che non conoscono lo spirito? Il cui Io inerte viene gettato dalla vita, come da onde, sugli scogli? No. Tutte le nostre esperienze hanno già sempre un contenuto. Noi stessi glielo daremo dal nostro spirito. Chi è spensierato si tranquillizza nell’errore. «Non troverai mai la verità», grida a chi cerca, «lo so per esperienza». Ma per chi cerca, l’errore è solo un ulteriore aiuto per raggiungere la verità (Spinoza). Priva di senso e senza spirito l’esperienza lo è solo per coloro che mancano di spirito. Per chi si accanisce a cercare, l’esperienza potrà forse essere dolorosa, ma non lo lascerà mai nella disperazione.
In ogni caso, chi cerca non si rassegnerà mai ottusamente né si farà addormentare dalla canzone del filisteo, il quale – l’avrete notato – saluta con gioia solo ogni nuova insensatezza. E ha ragione. Si assicura che effettivamente lo spirito non esiste. Nessuno però più di lui pretende una sottomissione più rigorosa, un più severo «timore reverenziale» di fronte allo «spirito». Se poi volesse esercitare la critica, dovrebbe essere a sua volta produttivo. E questo non lo può fare. La sua stessa esperienza dello spirito – che fa per altro controvoglia – diventa per lui priva di spirito.
Gli dica di rispettare i sogni della sua giovinezza quando sarà uomo.
Il filisteo invece niente odia di più che i «sogni della sua giovinezza». (E il sentimentalismo è spesso la patina protettiva di quest’odio). Ciò che gli appariva in questi sogni non era altro che la voce dello spirito, che un giorno chiamò anche lui, come ogni altro. La giovinezza è per lui il ricordo che continuamente gli rammenta tutto questo, perciò la combatte. Le racconta di una grigia, onnipotente esperienza e insegna ai giovani a ridere di se stessi. Tanto più che l’«esperienza» senza lo spirito è comoda, anche se disperata.
E ancora: conosciamo un’altra esperienza. Può essere nemica dello spirito e distrugge molti sogni in boccio. Tuttavia è la cosa più bella, intatta, immediata, che non può essere mai senz’anima
Ma cerchiamo di sollevare la maschera. Quale esperienza ha fatto questo adulto? Cosa ci vuol dimostrare? Una cosa soprattutto: è stato giovane anche lui, ha voluto anche lui quello che vorremmo noi, anche lui non ha creduto ai genitori, ma anche a lui la vita ha insegnato che avevano ragione loro. Ridacchiando con sufficienza ci dice che succederà lo stesso anche a noi; svaluta in anticipo gli anni che viviamo, trasformandoli in anni di cretinate giovanili, in ebbrezza infantile che prelude alla lunga sobrietà della vita seria. Così i benpensanti, gli illuminati. Conosciamo altri pedagoghi, la cui amarezza non ci concede neppure questi brevi anni di «gioventù»; severi e spietati, vogliono fin d’ora metterci di fronte alla fatica di vivere. Gli uni come gli altri svalutano e distruggono i nostri anni. E sempre più siamo sopraffatti da una sensazione: la tua gioventù è solo una breve notte (riempila di ebbrezza!), dopo verrà la grande «esperienza», gli anni dei compromessi, della povertà d’idee, e dell’apatia. Questa è la vita. Questo ci dicono gli adulti, questa è la loro esperienza.
Già! Questa è la loro esperienza, sempre questa, mai un’altra: l’insensatezza della vita. La brutalità. Ci hanno mai incoraggiato verso cose grandi, nuove, future? Oh no! Questo non fa parte dell’esperienza. Tutto ciò che ha un senso, che è vero, buono e bello ha radici in se stesso: a che ci serve allora l’esperienza? Ecco il mistero: poiché non ha mai saputo guardare a ciò che è grande e ricco di significato, il filisteo ha fatto vangelo della propria esperienza. È diventata per lui l’annuncio della banalità della vita. Ma non ha mai compreso che oltre l’esperienza c’è qualcos’altro, ci sono valori – inesperibili – al servizio dei quali noi siamo.
Perché dunque la vita per il filisteo è priva di gratificazioni e di significato? Perché conosce solo l’esperienza e nient’altro. Poiché egli stesso è abbandonato da ogni consolazione, privo dello spirito, e perché ha stretti rapporti solo con ciò che è ordinario ed eternamente rivolto al passato.
Ma noi conosciamo altre cose che nessuna esperienza può darci o toglierci: che esiste una verità, anche se tutto ciò che si è pensato finora era sbagliato. O che si deve tener fede, anche se finora nessuno lo ha fatto. L’esperienza non ci può togliere una simile volontà. E tuttavia, su un solo punto gli adulti potrebbero aver ragione con i loro gesti stanchi e la loro disincantata sufficienza? Quello che sperimenteremo sarà triste e potremo trovare coraggio e senso soltanto nell’inesperibile? Allora lo spirito sarebbe libero, ma la vita lo avvilirebbe continuamente, poiché la vita, somma delle esperienze, sarebbe senza confronto.
Ma non siamo più in grado di capire domande del genere. Facciamo ancora la vita di quelli che non conoscono lo spirito? Il cui Io inerte viene gettato dalla vita, come da onde, sugli scogli? No. Tutte le nostre esperienze hanno già sempre un contenuto. Noi stessi glielo daremo dal nostro spirito. Chi è spensierato si tranquillizza nell’errore. «Non troverai mai la verità», grida a chi cerca, «lo so per esperienza». Ma per chi cerca, l’errore è solo un ulteriore aiuto per raggiungere la verità (Spinoza). Priva di senso e senza spirito l’esperienza lo è solo per coloro che mancano di spirito. Per chi si accanisce a cercare, l’esperienza potrà forse essere dolorosa, ma non lo lascerà mai nella disperazione.
In ogni caso, chi cerca non si rassegnerà mai ottusamente né si farà addormentare dalla canzone del filisteo, il quale – l’avrete notato – saluta con gioia solo ogni nuova insensatezza. E ha ragione. Si assicura che effettivamente lo spirito non esiste. Nessuno però più di lui pretende una sottomissione più rigorosa, un più severo «timore reverenziale» di fronte allo «spirito». Se poi volesse esercitare la critica, dovrebbe essere a sua volta produttivo. E questo non lo può fare. La sua stessa esperienza dello spirito – che fa per altro controvoglia – diventa per lui priva di spirito.
Gli dica di rispettare i sogni della sua giovinezza quando sarà uomo.
Il filisteo invece niente odia di più che i «sogni della sua giovinezza». (E il sentimentalismo è spesso la patina protettiva di quest’odio). Ciò che gli appariva in questi sogni non era altro che la voce dello spirito, che un giorno chiamò anche lui, come ogni altro. La giovinezza è per lui il ricordo che continuamente gli rammenta tutto questo, perciò la combatte. Le racconta di una grigia, onnipotente esperienza e insegna ai giovani a ridere di se stessi. Tanto più che l’«esperienza» senza lo spirito è comoda, anche se disperata.
E ancora: conosciamo un’altra esperienza. Può essere nemica dello spirito e distrugge molti sogni in boccio. Tuttavia è la cosa più bella, intatta, immediata, che non può essere mai senz’anima
finchè noi restiamo giovani.Ognuno sperimenta sempre solo se
stesso, afferma Zaratustra alla fine del suo pellegrinaggio. Il filisteo fa la
sua «esperienza», sempre e solo quella della sua mancanza di spirito. Il
giovane farà esperienza dello spirito e quanto più dovrà faticare per
raggiungere qualcosa di grande, tanto più incontrerà lo spirito lungo il suo
cammino e in tutti gli uomini. Quel giovane da uomo sarà indulgente. Il
filisteo è intollerante.
Di Walter Benjamin voglio ricordare questi versi:
RispondiElimina"Risuoni tu mio cuore
in giorni luminosi
e più non può il silenzio
accompagnarti"
Carissima Grazia,
RispondiEliminagrazie per la segnalazione. Su Benjamin torneremo, perchè, come ben sai, si tratta di uno degli uomini più geniali del '900.