Il Politecnico di Milano
rinuncia all’italiano come lingua d’insegnamento, passando direttamente all’inglese.
Vogliamo commentare questa notizia con le parole di Gianluigi Beccaria
pubblicate su LA STAMPA qualche giorno fa:
Oggi l'inglese
è la lingua egemone, è il «latino» che si adottò sin dal Medioevo nelle
università d'Europa come lingua universale, la lingua che i dotti devono
sapere. Vedo che nella valutazione dei «prodotti» scientifici vale il principio
(inaccettabile) che una pubblicazione scritta in inglese, non dico ovviamente
di fisica o di medicina ma sull'Ariosto o su Primo Levi poniamo, vale molto di
più di quella scritta in italiano.
Ma veniamo all'oggetto del contendere. Il ministro Francesco Profumo ha deciso di favorire in Italia corsi universitari in inglese. In risposta a un intervento negativo (quanto alla scelta anglofona) di Tullio Gregory, Giovanni Azzone, rettore del Politecnico di Milano, ha annunciato sul «Corriere della Sera» che nel 2013 i corsi del suo Ateneo per la laurea magistrale e per il dottorato saranno tenuti esclusivamente in inglese. Del tema si discute moltissimo in questi giorni. Se ne discuterà all'«Accademia della Crusca», e ne discutono gli storici della lingua. I difensori dell'inglese sostengono che la lingua non è un fine, ma un mezzo, che l'inglese, in un ambiente «globale», serve a formare professionisti in grado di trovare un lavoro in Europa o fuori Europa, di lavorare senza difficoltà di comunicazione a contatto con persone di differenti culture e lingua, e che con l'inglese gli scambi si fanno sempre più fluidi, si facilita di molto la mobilità degli studenti e dei ricercatori. Tutto verissimo, e sacrosanto.
Ma i difensori dell'italiano (già seriamente preoccupati del fatto che nelle nostre scuole la capacità di capire un testo scritto è sempre più ridotta) osservano intanto che il problema non è linguistico soltanto, bensì politico-culturale. Il nostro mondo non è fatto soltanto di bravissimi e benemeriti «bocconiani» e «normalisti». La cultura che una università trasmette non deve limitarsi a valorizzare e generare soltanto le positive «eccellenze» tecniche. La «crescita» di un paese è ancora come sempre legata alla creatività, all'educazione della persona e del cittadino anche meno fortunato. Trascurare l'insegnamento della nostra lingua nazionale separerà sempre più il contenuto dei saperi dalla lingua materna, da rottamare tra le cose inservibili.
Se nel volgere di pochi decenni la lingua italiana si troverà mutilata e inadatta alla trasmissione della scienza e della tecnica, ci saranno delle conseguenze negative sulla possibiltà pubblica di comprensione del sapere. Se puntiamo su una lingua sola come lingua della scienza, assisteremo a un declino rapido dei saperi diffusi. Non vorremmo proprio che mancassero all'italiano le parole per parlare di scienza. Pochi «duci» validissimi, preparatissimi, privilegiati (ma sradicati) guiderebbero col loro inglese basic «legioni» di sprovveduti. La massa degli «sfigati» andrà aumentando a dismisura.
gianluigi.beccaria@unito.it
(fonte: Tuttolibri, LA STAMPA)
Ma veniamo all'oggetto del contendere. Il ministro Francesco Profumo ha deciso di favorire in Italia corsi universitari in inglese. In risposta a un intervento negativo (quanto alla scelta anglofona) di Tullio Gregory, Giovanni Azzone, rettore del Politecnico di Milano, ha annunciato sul «Corriere della Sera» che nel 2013 i corsi del suo Ateneo per la laurea magistrale e per il dottorato saranno tenuti esclusivamente in inglese. Del tema si discute moltissimo in questi giorni. Se ne discuterà all'«Accademia della Crusca», e ne discutono gli storici della lingua. I difensori dell'inglese sostengono che la lingua non è un fine, ma un mezzo, che l'inglese, in un ambiente «globale», serve a formare professionisti in grado di trovare un lavoro in Europa o fuori Europa, di lavorare senza difficoltà di comunicazione a contatto con persone di differenti culture e lingua, e che con l'inglese gli scambi si fanno sempre più fluidi, si facilita di molto la mobilità degli studenti e dei ricercatori. Tutto verissimo, e sacrosanto.
Ma i difensori dell'italiano (già seriamente preoccupati del fatto che nelle nostre scuole la capacità di capire un testo scritto è sempre più ridotta) osservano intanto che il problema non è linguistico soltanto, bensì politico-culturale. Il nostro mondo non è fatto soltanto di bravissimi e benemeriti «bocconiani» e «normalisti». La cultura che una università trasmette non deve limitarsi a valorizzare e generare soltanto le positive «eccellenze» tecniche. La «crescita» di un paese è ancora come sempre legata alla creatività, all'educazione della persona e del cittadino anche meno fortunato. Trascurare l'insegnamento della nostra lingua nazionale separerà sempre più il contenuto dei saperi dalla lingua materna, da rottamare tra le cose inservibili.
Se nel volgere di pochi decenni la lingua italiana si troverà mutilata e inadatta alla trasmissione della scienza e della tecnica, ci saranno delle conseguenze negative sulla possibiltà pubblica di comprensione del sapere. Se puntiamo su una lingua sola come lingua della scienza, assisteremo a un declino rapido dei saperi diffusi. Non vorremmo proprio che mancassero all'italiano le parole per parlare di scienza. Pochi «duci» validissimi, preparatissimi, privilegiati (ma sradicati) guiderebbero col loro inglese basic «legioni» di sprovveduti. La massa degli «sfigati» andrà aumentando a dismisura.
gianluigi.beccaria@unito.it
(fonte: Tuttolibri, LA STAMPA)
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