L’amico Casarrubea nell’articolo
che segue ci ricorda un po’ di storia. Certamente non è detto che la
mafia non torni ad usare il tritolo. Oggi, comunque, pare che preferisca usare
le banche e i soldi della comunità europea.
G. CASARRUBEA – QUANDO LA
MAFIA TRATTAVA COL TRITOLO
Finalmente siamo arrivati al dunque con l’inizio del
processo nell’aula bunker dei Pagliarelli di Palermo. Una parola,
“trattativa”, che segna la conclusione di una lunga fase durata oltre
vent’anni e l’inizio di almeno un fatto concreto: la presenza, in questa
battuta di avvio, di testimoni eccellenti e di mafiosi in parte inutilizzabili
e in altra parte latitanti.
Come Matteo Messina Denaro, il capo della Cosa Nostra
nell’epoca della globalizzazione, del riciclaggio, degli investimenti
criminali, dei grandi profitti derivanti dal traffico di stupefacenti e d’armi.
Tra testimoni e sospettati la vicenda parte con il
piede storto, con poche certezze, con una carica di coraggio sufficiente da
parte della magistratura di Palermo, ma anche con una qualche sicumera di
quelle autorità, soprattutto politiche e militari, che in modo non certamente
sparso, ma direi gerarchicamente preordinato, hanno costituito la struttura di
potere dell’Italia degli anni della fin de siècle, e di quelli
successivi, del XXI secolo. Fino ai nostri giorni.
Anni terribili che l’ex presidente della Repubblica
Ciampi visse direttamente, come del resto Oscar Luigi Scalfaro e parecchie
altre personalità istituzionali, sulla loro pelle. E della mafia sentirono gli
effetti violenti e, persino, il fragore delle bombe. Da Palermo a Roma, da
Firenze a Milano.
La parola più in uso che definisce quella temperie,
che ebbe il suo acme nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio, è ‘trattativa’.
Un termine che anch’io ho talvolta usato, ma che, a pensarci bene, rischia di
essere depistante se serve a dare l’idea di due soggetti, sostanzialmente
estranei, che, ad un certo punto, entrano in una sorta di patteggiamento utile
a definire rivendicazioni e forme di accondiscendenza valide a spiegare
uno scambio, a concordare i punti di una vertenza, l’accettazione di un
‘papello’. Questa impostazione è errata perché, nella storia della mafia la sua
organicità con lo Stato è segnata da una lunga sequenza di atti più o meno
ufficiali. Atti che sono serviti a legittimarla nel sistema di potere del
nostro Paese e a riservarle degli spazi che sono stati necessari alle due
parti, lo Stato e l’organizzazione criminale di cui parliamo, a trarre da tale
organicità reciproci benefici. Il concetto di trattativa è perciò depistante in
quanto ammette la reciproca estraneità dei due interlocutori, quando al
contrario ci troviamo di fronte a una interazione funzionale, a un do ut des.
A documentare tale connivenza bastino i seguenti esempi.
La funzione svolta dai cugini Salvo di Salemi nella
gestione delle esattorie siciliane; il rapporto che con loro aveva un
pluridesignato capo di governo come Giulio Andreotti; la funzione assolta dal
sindaco di Palermo Vito Ciancimino, e a livello più generale da Salvo Lima; il
ruolo assolto nel tempo dai capi dell’Arma dei carabinieri per assicurare il
blocco antipopolare; la legittimazione al potere operata dalle autorità
dell’Amgot (Amministrazione militare alleata al tempo dello sbarco del 1943) a
favore dei capicosca, con il ricorso diretto di Charles Poletti a un boss di
spicco come Vito Genovese.
Dopo un’analisi della situazione il capitano inglese
W.E. Scotten, in un documento del 1943, fa il suo resoconto al Resident
Minister ad Algeri, Harold Macmillan, poi primo ministro di Sua Maestà
britannica, e propone “una tregua negoziata con i capimafia”– che i
governi di Londra, Washington e Roma finiranno per attuare. E’ un punto che lo
stesso Scotten illustra nel dettaglio al paragrafo 15 del suo Memorandum.
Leggiamo che la buona riuscita dell’operazione dipende “dalla personalità del
negoziatore e dalla sua abilità nel conquistare la fiducia dei capimafia”.
Temi, questi, che acquistano una loro grande attualità nel quadro delle nuove
ricerche, come, ad esempio quella che uscirà il 19 giugno nelle librerie, su
“Operazione Husky, guerra psicologica e intelligence nei documenti segreti
inglesi e americani sullo sbarco in Sicilia” di cui sono autori chi scrive e
Mario J Cereghino (Editore Castelvecchi).
Grazie alle carte top secret, sappiamo chi è questa
figura. Nelle stesse settimane Vito Genovese – ex Big Boss della mafia
siciliana a New York, in losche attività in Italia dal 1936 con vari gerarchi
fascisti – incontri a Napoli il capo del GMA Charles Poletti e ne divenga
subito l’“interprete” ufficiale. Sarà don Vitone il “negoziatore” con la mafia
siciliana, fino alla data del suo arresto (agosto 1944). E’ in questo
frangente che l’Intelligence Usa promuove la nascita del Fronte democratico per
l’ordine siciliano (Fdos), uno strano e potente partito presieduto da don
Calò Vizzini, capomafia di Villalba. Ma il gangster che lo
sostituirà, nell’aprile ’46, sarà un capo molto più spregiudicato e con
una visione del futuro lungimirante: Salvatore Lucania, in arte Lucky Luciano.
Possiamo dire che il peccato originale dei livelli di
comando affidati alla Mafia è la funzione attribuita dall’intelligence
angloamericana alla struttura familistica ed estesa socialmente delle varie
cosche che avevano costituito in Sicilia, come anche negli States, vere e
proprie società di mutuo soccorso. Queste nulla avevano a che fare con le
organizzazioni solidaristiche delle società operaie e contadine o artigiane che
avevano caratterizzato la Sicilia della fine dell’Ottocento e del primo
Novecento. Un esempio classico dei tempi nuovi preannunciato dalla politica di
Vittorio Emanuele Orlando, dal suo controllo sulle organizzazioni del lavoro, e
dal sistema clientelare-mafioso che doveva poi perfezionarsi negli studi di
Danilo Dolci e di Anton Blok sulla Sicilia ancora arcaica e feudale.
In termini di analisi storica due errori appaiono,
dunque, evidenti: il primo è che non può parlarsi affatto di ‘trattativa’ tra
Stato e Mafia, avendo avuto la negoziazione iniziale un valore del tutto
fondativo della reciproca coesistenza organica. E ciò perché, proprio in
coincidenza con le politiche di guerra non ortodossa, lo Stato che doveva
nascere, nacque con la connotazione dell’assunzione della Mafia come forza
sociale egemonica, delegando ad essa alcune funzioni sue proprie, come il
monopolio della violenza sul territorio e la legittimazione della sua
rappresentanza in sede governativa e parlamentare, oltre che negli apparati
burocratici. Il secondo errore è che la distorsione concettuale della
“trattativa” impedisce di dare un valore causale e temporale al processo che è
servito a strutturare tale organicità fino al punto che la lotta alla mafia
dentro le istituzioni porta a squilibrare il sistema politico nazionale facendolo
piombare in qualcosa di pericoloso per l’ordine costituito.
In definitiva occorre cambiare lo Stato per
sconfiggere la Mafia. Se questo non accade, a perdere saranno sempre tutti i
cittadini onesti e, soprattutto, quei magistrati che, lottando contro singoli
personaggi e aspetti del problema, finiscono alla lunga con l’essere
schiacciati dal peso di fatti che sono, ad un certo punto, molto più grandi di
loro.
Giuseppe Casarrubea
30 maggio 2013
Dal suo blog: http://casarrubea.wordpress.com/