12 maggio 2013

IL CRISTO DI GRUNEWALD




Un pittore misterioso su cui si sa pochissimo, autore di un quadro straordinario, profondamente medievale ma di un realismo assoluto nei particolari anatomici.

Melania Mazzucco - Il dolore insostenibile del Cristo nel realismo brutale di Grünewald

Ti atterra come un pugno in faccia, appena entri nell’ex coro della cappella di un convento di monache agostiniane. Stai visitando il museo di una linda cittadina alsaziana, e credi di essere preparata. Hai visto centinaia di Crocifissioni, hai le tue preferite. Sai che questa viene ritenuta la più sconvolgente opera d’arte occidentale. Eppure ti turba come una rivelazione: è come se avessi visto morire qualcuno, e non l’hai aiutato. E anche se non tornerai più a Colmar, rimane dentro i tuoi occhi e dentro di te, indelebile come una colpa.

Eppure è soltanto il pannello centrale di un polittico, dipinto a olio su tavola di tiglio cinque secoli fa. Ci sono Cristo, Maria ai piedi della croce (a differenza che nella tradizione iconografica, è una giovane dal volto bellissimo, vestita di bianco), il diletto Giovanni e la disperata Maddalena stravolta dal pianto — come ovunque. C’è anche Giovanni Battista, dall’altra parte della croce, e ciò è forse unico, e ha un significato: ma la prima volta che guardi la Crocifissione trovi normale che ci sia il barbuto profeta con l’agnello, visto che ci sei anche tu, dunque la spiegazione ti basta. Insomma, è la solita scena. Tuttavia questa Crocifissione non somiglia alle altre.

Innanzitutto per le dimensioni. Questo Cristo in croce è enorme, o lo sembra perché gli altri personaggi sono in scala ridotta. Il pittore usa la misura per esprimere l’intensità, e la solitudine — non conosce le regole della prospettiva, o le ignora. Poi c’è l’oscurità. Il pittore non ha dipinto la collina del teschio detta Golgota. Distoglierebbe l’attenzione. Il paesaggio è ridotto a una massa avvolta nella notte. Il pittore sceglie dunque l’istante cruciale della religione cristiana: la morte di Dio — come un uomo, in nome dell’uomo e per il suo riscatto.

Scrivo “il pittore” e non Mathis Grünewald, perché la questione dell’identità dell’autore, su cui si discute da secoli, mi lascia indifferente. Per me conta solo questo: fu contemporaneo di Giorgione e Dürer ma visse nella provincia tedesca, ai margini della grande arte del Rinascimento; non dipinse mai opere profane, e quasi solo Crocifissioni (almeno cinque); fra il 1510 e il 1516 fu chiamato da Guido Guers, priore del convento di Issenheim, a dipingere il polittico per l’altar maggiore della chiesa dell’ospedale. Composto di ante apribili, a libro, doveva contenere svariate tavole, con effigi di santi e episodi della vita di Gesù.
Cristo soffre. Una corona di spine, pesante come fosse di ferro, gli incarta la testa insanguinata. Le mani e i piedi, che i chiodi configgono a una trave di legno grezzo, si contraggono nello scatto estremo dell’agonia (le dita si increspano verso il cielo, le braccia si slungano). Il sangue cola da ogni ferita. Il perizoma è uno straccio lacero, il corpo un sacco bucherellato come un puntaspilli. Miriadi di schegge, residui della fustigazione con le verghe, crivellano infatti la carne. I buchi sono infiammati e la pelle verdastra, la cassa toracica sollevata in uno sforzo estremo. La bocca è livida, le labbra socchiuse, perché l’uomo morente, dopo aver gridato il suo “Padre, perché mi hai abbandonato?”, esala l’ultimo respiro. Il pittore ci costringe a guardarlo morire.

La visione può risultare intollerabile. Molti detestarono il realismo brutale di Grünewald, in seguito un pittore non avrebbe più potuto immaginare di dipingere Gesù come un ladrone, umiliato da una morte brutta e infame. Prevalse l’idealizzazione. Suggerire il dolore, ma non mostrarlo. Ancora oggi si discute se sia lecito mostrare la morte e la sofferenza degli uomini, ogni volta che una foto rubata ce li mostra nel loro orrore. Si parla di pornografia del dolore. C’è chi ne abusa — e per provocare convoca frattaglie, mutilazioni e corpi avariati, negando il confine dell’invisibile.

Ma Grünewald, chiunque fosse, non vuole scioccare né provocare. Vuole, al contrario, consolare. La sua spaventosa Crocifissione serviva proprio a questo. Confortare i ricoverati nell’ospedale di Isenheim, che vi venivano rinchiusi come Cristo salì sul Golgota: per morire. Erano infatti colpiti dal “fuoco sacro” o “fuoco dell’inferno”: fra le tante malattie che allora potessero colpire un essere umano, la più crudele. Letale come la peste, lenta come la lebbra, e anche vile, perché si accaniva sui poveri. La pelle brulicava di pustole, che causavano allucinazioni e degeneravano in ulcere, corrodendo le membra; braccia e gambe enfiate andavano in cancrena, e si staccavano dal corpo o dovevano essere amputate; il tronco ormai nero come carbone e duro come cuoio puzzava di putrefazione. I balsami dei monaci fatti con la verbena, la prunella e l’oppio del papavero davano sollievo ai dolori atroci: ma non esisteva cura. Solo secoli dopo si scoprì che le epidemie erano causate dal fungo che guastava la segale, e si coniò il termine “ergotismo”. Quel Cristo repellente diceva ai poveri moribondi che anche il figlio di Dio aveva sofferto ogni dolore. In fondo, che anche loro erano figli di Dio.

Grünewald vuole anche rafforzare. La fede, intendo. Poiché era credente, e sapeva che solo morendo Cristo poteva risorgere. Cioè che tutto il male sofferto — da lui e da loro — doveva essere accettato, e sopportato, perché aveva un senso. Questo era il messaggio più autentico del cristianesimo, e la ragione della sua popolarità fra gli ultimi del mondo. E la luminosa Resurrezione, in un’altra anta del polittico, mostra infatti lo stesso Cristo già torturato salire sorridente al cielo in una abbagliante nuvola d’oro. La  Crocifissione di Isenheim sarebbe uno scandalo senza la Resurrezione. Eppure confesso che col tempo il resto del polittico svanisce. I demoni con la testa di pappagallo, il grugno di maiale e gli occhi di fuoco; gli angeli piumati come uccelli, l’eremita con l’abito di canne; perfino la bellissima Madonna in bianco che sviene sotto la croce. Svaniscono le innovazioni alle convenzioni pittoriche, le invenzioni, le verità teologiche che pure il pittore esibì con mirabile intransigenza espressiva e coraggio. Resta il dolore insostenibile di una creatura che muore. E la domanda che esala da quelle labbra dischiuse. Perché mi hai abbandonato?

(da: La Repubblica del 5 maggio 2013)



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