04 maggio 2013

The Great Gatsby





Sta per uscire una nuova (la quarta) trasposizione cinematografica di Il grande Gatsby, il capolavoro di Francis Scott Fitzgerald. Il romanzo nella classica traduzione di Fernanda Pivano uscì in Italia nel 1950 ed ebbe immediatamente un enorme successo. Ma ne era uscita già un'edizione nel 1936, rivolta ad un pubblico femminile e venduta in edicola, di cui persino alla Mondadori si era perso il ricordo. Una vicenda affascinante.

La storia editoriale de "Il grande Gatsby"

Il personaggio di Jay Gatsby, destinato a diventare leggendario, fa la sua prima apparizione negli Stati Uniti nel 1925, quando l’editore Scribner pubblica The Great Gatsby. In Italia arriva un decennio più tardi, nel 1936: il romanzo lo pubblica Arnoldo Mondadori in una collana popolare, “I romanzi della Palma”, destinata al pubblico femminile e distribuita mensilmente in edicola al prezzo di tre lire. Probabilmente lo ha scoperto in ambito francese, come fa sospettare il titolo, Gatsby il Magnifico, evidente calco di Gatsby le magnifique; la traduzione è di Cesare Giardini, traduttore assai attivo negli anni Trenta e Quaranta sia dal francese sia dall’inglese. Proprio Giardini il 3 gennaio dello stesso anno aveva firmato per l’editore un parere di lettura nel quale, tra l’altro, affermava: «Gatsby è una figura misteriosa, cattivante, anche un po’ inquietante, una specie di gentiluomo fastoso e festoso  che prodiga il proprio denaro in feste spettacolose con la speranza di attirare a sé l’antica amante e riannodare l’idillio interrotto dalla guerra. [...] Il romanzo procede attraverso quadri successivi che, riccamente caratterizzati, ciascuno in un’atmosfera particolare e, diremmo, con un colore proprio, rimangono profondamente impressi nella mente del lettore. Cento personaggi strani, inclassificabili, a volte leggermente caricaturali, si aggirano attorno ai protagonisti; tutto il mondo ozioso e splendido della cosiddetta buona società di New York e di Long Island, dominato dall’alcool e dall’idea della caccia al piacere, sfila in queste pagine».[1]

Appena finita la guerra, Alberto Mondadori si mette attivamente in caccia di opere di scrittori americani. Lo consiglia Fernanda Pivano, che già il 22 novembre 1945 invia al «caro boss» un elenco di titoli, tra cui quelli di Eudora Welty e di Francis Scott Fitzgerald.[2] Che Mondadori abbia già pubblicato il Gatsby Alberto sembra scoprirlo improvvisamente nel novembre 1948 quando un suo corrispondente da New York, Robert Knittel, gli scrive: «Mondadori bought the italian rights to The Great Gatsby on June 5, 1936. I was somewhat surprised to hear this».  Alberto lo comunica immediatamente alla Pivano: «Cara Nanda, accadono cose incredibili! The Great Gatsby è già stato pubblicato dalla Mondadori nei Romanzi della Palma nel '36. Come vedi, il mio predecessore era “un forte” in letteratura americana». La Pivano, incaricata di valutare la traduzione di Giardini, commenta: «ammiro troppo Fitzgerald per non suggerirti di far rifare la traduzione. […] È questione di tono e di rispetto per il personaggio più importante dell’età del jazz».

La nuova traduzione, firmata proprio da Fernanda Pivano, vede così la luce come numero 255 della “Medusa” nel 1950. È in questa traduzione che circa due milioni di italiani hanno conosciuto e amato Il grande Gatsby fino al momento in cui – a settant’anni dalla morte – i diritti dell’opera di Francis Scott Fitzgerald sono diventati di pubblico dominio, il 1° gennaio 2011.

Nanda Pivano, che tra l’altro ha tradotto anche Tenera è la notte (1949), Di qua dal Paradiso (1952) e Belli e dannati (1954), è anche autrice di un ampio saggio dal titolo Lettera d’amore a Fitzgerald che – muovendo dalla pubblicazione di Di qua dal Paradiso nel 1920, dal successo del romanzo e dallo choc che provocò nel mondo statunitense – percorre tutta l’opera di Fitzgerald, e spiega: «non era uomo da tavolino: era uomo da vita all’aperto o da vita mondana, ma comunque da vita in movimento. Perfino scrivere gli pareva un’offesa imperdonabile a quel prezioso, felice dono che è la vita. [...] Suo grande merito, forse il merito che gli valse il nome di re dell’età del jazz, fu appunto di riversare questa capacità di vita nei suoi libri. Fu dalla vita che Fitzgerald apprese tutto quello che sapeva; fu la vita che lo maturò come scrittore mentre lo maturava come uomo: Fitzgerald imparò da sé, soltanto vivendo, a migliorare giorno per giorno la sua tecnica di scrittore. E fu l’intensità di vita riversata nelle pagine e farle balzare dal piano a volte “farraginoso” rimproveratogli da certi suoi critici a un piano animato e ricco di interessi umani».[3]

[1] Il parere è pubblicato in: Non c’è tutto nei romanzi. Leggere romanzi stranieri in una casa editrice negli anni ’30, a cura di Pietro Albonetti, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 1994, pp. 369-371.
[2] Questo e gli altri documenti sono conservati alla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano.
[3] Feranda Pivano, Lettera d’amore a Fitzgerald, in La balena bianca e altri miti, Mondadori, Milano 1961, pp. 301-362, cit. a p. 338-9





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