Dall'amico Nino Rosolia di Marsala ricevo e pubblico con particolare piacere questa sua bellissima recensione di un libro che parla di noi e della nostra terra.
Filippo il Resiliente e il senso perduto della
comunità
“Vuoi essere universale?
Parla del tuo villaggio.”
Lev
Tolstoj
Lo diciamo da semplici ma
ostinati lettori: “Il bracciante di Berbaro di Marsala”, romanzo d’esordio di
Filippo Piccione, più che a Giuseppe Bonaviri, rapsodo della Sicilia Incantata ne
“Il Sarto della Strada Lunga”, fa pensare a Gavino Ledda e al suo “Padre Padrone” (poi trasposto nell’indimenticabile
film dei fratelli Taviani).
O alla “maletrata e molto
travagliata e molto desprezata vita” messa su carta, nella sua strepitosa
lingua, nel corso di sette, interminabili anni di cruento ma vittorioso
conflitto con le parole, da Vincenzo Rabito in “Terra Matta”.
“Il bracciante” è un romanzo
autobiografico, narra delle mirabolanti vicende di Filippo, contadino semianalfabeta,
deprivato prima del suo sacrosanto diritto allo studio, avviato poi al ‘garzonato’
e, in seguito, alla dura vita dei campi.
Dai quali, però, emblematico
esempio di resilienza, si affranca e, durante il periodo del servizio militare,
aiutato dall’ingegner De Marco, suo commilitone, riprende in mano la sua vita e
ricomincia a studiare conseguendo licenza media, diploma di Ragioniere e, dopo
aver incontrato l’amore della sua vita, la bellissima ciociara Lea, non una ma,
addirittura, due lauree(Economia e Commercio e Giurisprudenza): chiavi di volta
per la sua luminosa carriera al Ministero di Grazia e Giustizia.
Nel tratteggiare il contesto
ove, di volta in volta, vive e si muove il protagonista, l’autore apre ampi
squarci sulla vita sociale della comunità lilibetana tra il Secondo Dopoguerra
e gli ‘Anni del Boom’.
Non un libro di parole alate,
né di vacui esercizi di stile, dunque, ma di cose. E, per
dirla con Sciascia, di “Cose di Sicilia”.
Un libro che parla del
dominio dei grandi latifondisti, complice la mafia o, meglio, il suo braccio
operativo, i gabelloti, su ogni aspetto dell’economia e della vita delle
famiglie e di ogni singola persona.
Che narra della manodopera
sottopagata e degli scarsi mezzi di sostentamento che costringevano molti
nuclei familiari a fare affidamento sulle giovani braccia di ragazzi di 10-12
anni, gettati, per pochi soldi e troppe ore giornaliere di lavoro, nella
fornace dei campi o nelle raggelanti profondità delle cave di tufo. Come i piccoli
diseredati descritti da Verga in “Rosso
Malpelo”, come i poveri “carusi”protagonisti del film di Grimaldi, “La discesa di Aclà a Floristella”.
‘Bambini
‘bruciati’, scippati della possibilità di proseguire gli studi, ‘privilegio’
riservato esclusivamente ai rampolli dei “possidenti”.
Tanto che, in barba al
dettato costituzionale, le maestre, invece di incoraggiare i più meritevoli,
li inducono – viste le loro precarie condizioni economiche – a non
proseguire gli studi, in modo tale da poter essere, al più presto, avviati
al lavoro, contribuendo così a
rimpinguare l’anoressico bilancio familiare.
Se, di questa crudele legge
materiale, sarà Filippo a farne le spese (a bottega presso un calzolaio e, in
seguito, “iurnateri”, ‘ri suli a suli”) non si può certo dire che – mutatis
mutandi – le cose, oggi, siano molto cambiate, visti gli
stratosferici livelli di dispersione scolastica che caratterizzano l’isola (35%
tra frequenze saltuarie, abbandoni precoci, presenze/assenze) specie nel biennio
del superiore.
Sicchè, com’era capitato più
di mezzo secolo prima a Filippo, infanzia e adolescenza, nella nostra ‘Repubblica
Democratica & Antifascista’, continuano ad essere scippate ai figli della
povera gente, con buona pace dei Padri Costituenti e degli articoli 3 e 34 della nostra meravigliosa (ma, in gran parte,
tradita) Carta Costituzionale.
Ma, tornando a Filippo, è quello
or ora accennato l’esaltante orizzonte esistenziale che si spalanca davanti a
lui e alla sua generazione nei complicati Anni Cinquanta.
L’alternativa c’é: basta avere il
coraggio di immettersi in quel flusso migratorio che, mentre
continua ad ingrossarsi ad ogni sconfitta del movimento contadino – dal
massacro dei ‘Fasci Siciliani’ alla repressione del movimento per l’occupazione
delle terre incolte – al contempo,a partire dal decennio successivo all’Unità d’Italia,sottrae
all’isola le braccia più robuste, le
menti più brillanti, i suoi figli più audaci.
Non è ancora il tempo di
involarsi per la capitale, ma alla grama esistenza che gli si para davanti, “Il
bracciante di Berbaro”, tenta in tutti i modi di sfuggire.
E l’occasione gli si presenta
davvero con l’annuncio di un ‘Corso di Recitazione’ per corrispondenza, segnalato
dalle pagine di uno degli innumerevoli fotoromanzi che le sartine frequentanti
la sua casa volentieri gli prestano.
Per pagarselo,dovrà lavorare più delle12
canoniche ore quotidiane: ma poco importa, è l’unica possibile via d’uscita dal
suo immobile presente e Filippo non esita ad intraprenderla, convinto com’é che
chi vuole un’altra vita ne deve essere
l’artefice.
La voglia di scrutare altri
orizzonti, del resto, sarà uno dei tratti distintivi della sua personalità ed
egli ne darà prova quando (nel ’57) viene chiamato da Mario Signorino, gestore
del primo lido sorto nella città lilibetana, a fare il bagnino per ‘proteggere’
la vita dei ‘nobili’che lo frequentano.
Oppure, quando, licenziato
dal ”Signorino”, viene assunto al “Mediterraneo”, lo stabilimento balneare
concorrente, sorto nel frattempo: target piccolo borghese, clienti privi di
albagia e, soprattutto, meta quotidiana, per gran parte della stagione estiva,
di un personaggio che sosterrà non poco gli sforzi profusi dal protagonista per
cambiare vita: il giovane penalista nonché Deputato del PCI, Pino Pellegrino.
Attraverso questa specie di
nume tutelare, Filippo entrerà in contatto con il Partito Comunista a quel
tempo, prima che aggregazione politica, grande comunità umana. Partito fondato
su una concezione della politica inscindibilmente legata all’etica. Scolpita nel
suo DNA, la pratica del confronto e della battaglia delle idee, attraverso cui financo
alcuni dei suoi rappresentanti, seppur privi dei minimi livelli d’istruzione
(licenza elementare quando non addirittura analfabeti) nelle infuocate sedute del
Consiglio Comunale, a Palazzo VII Aprile,
fanno la parte del leone.
Per farla breve: per tanti
iscritti e simpatizzanti, Il‘Partitone’è una sorta di ‘Università Parallela’,così
come lo è per Filippo,che continua a frequentarla anche nella Capitale, giovandosene per le sue sbalorditive imprese
di studente-lavoratore
Personaggio alfieriano, il
protagonista, però, non indugia mai, narcisisticamente, sulla sua stakanovistica
capacità di sacrificio. Anzi, ha l’umiltà di riconoscere che i ragguardevoli traguardi
raggiunti, sono il frutto del sostegno, della solidarietà, del costante
incoraggiamento dell’intero microcosmo di “Chiano La Fata”. Ove affondano le sue
radici,gli affetti, le amicizie dell’infanzia che durano una vita.
Così come ammette che è alla
più vasta comunità del Partito Comunista che deve la conoscenza della società siciliana
e l’acquisizione di quella coscienza di
classe, che lo trasformerà da ‘oggetto’ in ‘soggetto’ di storia.
Bene: qui potremmo scrivere
“The End” a questa recensione ‘extralarge’. Ma per
non correre il doppio rischio del nostos
e dell’agiografia, prendendo a
prestito la volteriana “tecnica del riflettore”, proveremo ad illuminare,
attualizzandoli, alcuni dei nodi problematici che il volume presenta.
Del trauma originario legato al
brutale abbandono degli studi, s’é già detto. Basta aggiungere che, se “uno su
mille ce la fa”, sarebbe ingiusto trascurare gli altri novecentonovantanove.Si
spera,quindi,che la tanto strombazzata‘Crocetta revolution’ porti in dote,
almeno,una legge sul ‘Diritto allo Studio’atto dovuto ai ragazzi siciliani.
E, a proposito di giovani,
chiediamoci: uno con una storia simile a quella di Filippo, oggi, che i ragazzi
sono costretti a studiare senza la benché minima prospettiva di trovare un lavoro, anche un
lavoro qualsiasi: riuscirebbe a farcela? O,
non resterebbe, anche a lui, che preparare il trolley, infilarci dentro un PC
di ultimissima generazione e andarsene in giro per il mondo per sperare di vedere,
finalmente, valorizzati i propri talenti?
E, ancora: dell’avvolgente solidarietà
del “Chiano ‘a Fata”, cosa rimane oggi che la reificazione,l’atomizzazione e lavirtualizzazione
dellerelazioni umane sono la regola?
Che ne é di quella
meravigliosa comunità umana costituita dal fiero popolo del PCI?
Dov’é finita l’orgogliosa diversità che dirigenti e militanti
rivendicavano ad ogni piè sospinto (in “Palombella Rossa”, Nanni Moretti, ne
farà un celeberrimo tormentone: “Siamo uguali ma diversi, ma uguali, ma
diversi...”) oggi che il Partito-Comunità é diventato Partito-Personale – al
servizio dell’ “Uomo Solo al Comando”- e
il Sindacato sembra precipitato al rango di semplice Patronato?
Dove sono finiti (come denuncia
da tempo Augusto Cavadi) i luoghi del confronto e della crescita civile per i
nostri sempre connessi ma disorientati ragazzi?
E, per tornare ad uno dei
temi cruciali del libro,chi ci ridarà indietro i dieci chilometri di spiaggia, gli
estesi canneti e le dune alte 15
metri che costellavano per lunghi tratti la costa sud
della nostra città, ora devastata da un’interminabile colata di cemento? E, per questo scempio –
circa 3000 costruzioni abusive a Marsala, 250.000 in Sicilia -le responsabilità, non sono di nessuno?
Sono soltanto di un ceto politico
scellerato e immemore della funzione pedagogica consustanziale alla ‘buona
politica’? O, anche, dell’acquiescenza, se non addirittura della complicità
della popolazione? Ivi inclusa gran parte di quel popolo di sinistra che, dopo
aver dimorato per troppo tempo tra le braccia di Morfeo, ad un certo punto si
sveglia di soprassalto e scopre che uno dei più splendidi tratti della Costa Occidentale
siciliana é sfigurato da miriadi di micro eco-mostri. In gran parte abusivi e,
per il resto, in regola, grazie ai tanti condoni che, ciclicamente, si
abbattono sull’isola, specie a ridosso delle frequenti, immancabili competizioni
elettorali.
La verità, forse, risiede nel fatto che, a tanta gente, purtroppo, assistere
al cattivo esempio fornito da importanti figure istituzionali e da diversi
rappresentanti della classe dirigente, ha finito per solleticare i peggiori
appetiti, la vena speculativa, l’arrembaggio contro il patrimonio naturale e
paesaggistico. Oggi, degradato a tal punto, da vedere
depotenziata la sua fisiologica funzione di volano dello sviluppo economico e del
progresso civile del nostro territorio.
Amministratori scellerati e
popolazione acquiescente, dunque, accomunati in una sorta di cupio
dissolvi. Una catastrofe antropologica. La scomparsa delle lucciole di pasoliniana
memoria. La consoliana disputa tra olivo e olivastro conclusa a favore di
quest’ultimo.“Un vecchio e un bambino”di Guccini.“Vandali”di Gian Antonio Stella.
Ecco: forse è giunto il
momento, per la sinistra marsalese, di farsi carico delle sue pesanti
responsabilità, quale magna pars delle
amministrazioni che non seppero impedire l’irreversibile scempio, che non
seppero immaginare uno sviluppo diverso. Nell’abbondanza, peraltro, nel resto d’Italia,
di best pratics, a cominciare proprio
dalle ‘regioni rosse’: Umbria, Toscana, Emilia–Romagna.
Forse è venuto il tempo di
provare a sciogliere alcuni nodi, di interrogarsi, su qualcuna delle
enigmatiche ‘cose di Sicilia’. Sul
mitico “lavoro extraparlamentare” del Parlamentare, ad esempio, argomento di
cui, al giovane Filippo, spesso parlava il Senatore Pino Pellegrino, per capire:
in che cosa, precisamente, esso si differenziava dal clientelismo tout court? Sulla vera
ragione della vertiginosa perdita, dalle nostre parti, di credibilità e
autorevolezza, del cosiddetto “partito dalle mani pulite”, per comprendere: risiede,
per caso, nell’inadeguato contrasto alla lenta ma inesorabile trasformazione
dei diritti dei cittadini in favori da elargire in cambio del voto?
Sulla cause della cocente sconfitta patita a Marsala dai comunisti (rappresentanza
dimezzata a Sala delle Lapidi) alle Amministrative del ’75 , in controtendenza rispetto
alla trionfale avanzata del PCI a livello nazionale (anticamera del 34% alle
Europee che consentirà al partito di Berlinguer di effettuare il sorpasso sulla Democrazia
Cristiana, suo storico antagonista).
Qualche giorno prima della
presentazione del libro, avvenuta proprio nel ‘luogo del delitto’, nel bel
mezzo della contrada Fossarunza, in località ‘Rina’, con l’autore del “Bracciante”,
concordavamo sul fatto che, pur con tutti i suoi limiti e i non pochi errori,
tattici e strategici, quella cultura politica, impregnata di egualitarismo e
libertà, ha, comunque, prodotto la
lotta di Resistenza e la vittoria sul nazifascismo. Che quella comunità umana e politica è stata
capace, comunque, di estrarre dalle
lotte del Sessantotto e dell’ ‘Autunno Caldo’, lo Statuto dei Lavoratori.
Che il popolo di sinistra,
infine, ha, comunque, trovato la
forza di ergersi – fine Anni Settanta primi Anni Ottanta – a principale
baluardo democratico contro il terrorismo, dimostrando sul campo la sua gramsciana
capacità di farsi carico non soltanto degli interessi delle classi subalterne
ma di quelli generali dell’intero Paese. Sapranno, nel nostro territorio, gli
eredi di questa nobile tradizione aiutare l’antica Lilibeo a tirarsi fuori
dalla crisi che l’affligge, restituire ai cittadini almeno un felliniano
‘raggio di sole’, rinverdire le affievolite speranze di futuro delle nuove
generazioni?
Con “Il Bracciante”,intanto, Filippo
Piccione, il suo prezioso contributo l’ha già dato.
Marsala, Agosto 2014
G. Nino Rosolia