Il pennello di Filippo de Pisis, tra i Venti e i Trenta, ci rivela una Parigi vorticosa ma non alla Baudelaire, intima ma non proustiana. Il suo «impressionismo» si nutre di occasioni di strada. Lo spinge a Parigi il desiderio di aggiornarsi su una situazione stimolante, sospesa tra le avanguardie cubista e surrealista e il «rappel à l’ordre». Il marchesino pittore risale agli impressionisti e ai fauves per cambiare maniera sotto il segno della luce colorata e dell’attimo esistenziale.
Giulia Toso
De Pisis a Parigi. Non più metallico ma sfarfallante
È solo il 16 ottobre 1920 quando Filippo de Pisis, ancora a Ferrara e in procinto di spostarsi a Roma, scrive in una lettera a Primo Conti «Io presto andrò a Parigi. Tu dovresti venire con me. Io ti insegnerei a vivere un poco (ne possiedo l’arte)». La realizzazione del progetto avviene però effettivamente solo nel marzo 1925, probabilmente incoraggiato dall’avvenuto approdo a Parigi dell’amico De Chirico nel 1924 e da una serie di lettere di presentazione che gli vengono procurate prima della partenza (tra queste quelle per Roger Cornaz, Salomon Reinach e Louis Dimier).
Giunto a Parigi, de Pisis trova alloggio all’Hotel Espèria al 149 di Avenue de Suffren, ma dal 1926 al 1929 si sposta ininterrottamente, spinto probabilmente dalla frenetica insoddisfazione che lo contraddistingueva e dalla continua ricerca di uno spazio personale intimo, passando da Rue St. Sulpice a Rue de Verneuil, dal 30 di Rue Bonaparte (appartamento occupato anche da De Chirico e Sciltian), all’Hotel Notre Dame presso St. Michel, per trovare pace infine al 7 di Rue Servandoni nel 1929, in quel luogo che l’artista amava chiamare «il mio granaio».
«C’era tutto, da Baudelaire al café crème; c’era quel lieve sentore, che non è puzzo e non è odore: e lo studio di De Pisis, ne pareva la sintesi, o piuttosto il rebus, la cui soluzione finale, attraverso stracci, bastoni, fiori secchi dava: Parigi». (Cesare Brandi, 1932).
I motivi che spinsero de Pisis al trasferimento parigino sono senz’altro da identificare in quella necessità di aggiornamento che il mestiere di pittore, da poco intrapreso, necessitava e che la capitale francese poteva certamente offrire: guarita dalle ferite della Grande Guerra, Parigi era diventata il centro nevralgico dell’attività artistica e culturale, gli intellettuali vi convogliavano da tutte le parti del mondo a tentare la curiosità e la sete inesausta di novità; boulevards colmi di folla, caffè impenetrabili, vetrine sfavillanti, musica, eventi mondani ed esposizioni; rue La Boétie divenne il centro delle grandi gallerie, rue de Seine e rue Bonaparte ospitavano le più piccole, il quartiere di Montparnasse era la meta più ambita dagli artisti.
Così come de Pisis e De Chirico, approdano a Parigi altri pittori italiani, tra i quali Alberto Savinio, Mario Tozzi, Gino Severini, Massimo Campigli e Renè Paresce; con de Pisis, dal 1928 al 1933, si raccolgono sotto l’insegna di «Les Italiens de Paris», fiancheggiati dal giornalista e critico d’arte Waldemar George, in nome di quel rappel à l’ordre che era possibile individuare anche in Italia e che contrastava l’avanguardia cubista e il surrealismo.
De Pisis si perde nelle vie di Parigi, studia i francesi dell’Ottocento al Louvre, vede Poussin, scopre Manet, Vlaminck, Rouault e l’Impressionismo, la sua pittura si discosta gradualmente dall’impostazione metafisica che contraddistingueva la precedente produzione, facendosi più sfarfallante di luce e di colore; le pennellate diventano frenetiche e inquiete, la tavolozza vibrante, l’esecuzione fulminea. Come scrive Giovanni Cavicchioli nella monografia del 1932: «Quasi tutti i suoi quadri nascono così, improvvisati dall’urgenza, dalla difficoltà, dall’estasi e dal capriccio».
L’attività pittorica di de Pisis si svolge a Parigi sia nello spazio intimo del proprio atelier, luogo di ossessioni e di eros, dove amava invitare ragazzi di strada incontrati di notte sui boulevards e fatti posare nudi, oppure en plain air, immerso nel traffico brulicante della capitale francese: attratto dai Lungosenna e da strette prospettive di case, la Tour Eiffel, Notre Dame, Place de la Concorde, Place Vendôme, il Pantheon, les Invalides scorciati e accavallati sfumano in composizioni vibranti. Scopre inoltre l’umanità varia della metropoli (emigranti, ragazzi di vita, operai, vecchi, clochard) da cui sviluppa una serie di ritratti di tipi corrispondenti a una determinata categoria sociale, che da un lato denunciano lo stato degradato del soggetto e contemporaneamente lo nobilitano.
Nonostante le prime difficoltà economiche, a cui l’artista cerca di far fronte con piccoli lavori alla Sorbonne e visite guidate ai musei, Parigi diventa per de Pisis luogo di successo: la prima esposizione avviene già nel giugno 1925 presso la Galerie Carmine, in Rue de Seine, e una personale presentata da De Chirico viene inaugurata nella primavera del 1936 alla Galerie Au Sacre Printemps. Dopo l’ esordio al Salon de l’Escalier del 1928 con «Les Italien de Paris», le esposizioni del gruppo si moltiplicano; le vendite di dipinti incrementano, de Pisis espone in diverse gallerie parigine (Galerie de Quatre Chemin, Galerie Bonjean, Galerie Jeune Europe, per citarne solo alcune) mantenendo pur sempre uno stretto legame con galleristi italiani come Gaspare Gussoni e Vittorio Emanuele Barbaroux.
Perennemente in contatto con l’ambiente culturale italiano, a Parigi l’artista intrattiene rapporti anche con scrittori come Massimo Bontempelli, Aldo Palazzeschi, Marino Moretti, con critici d’arte tra cui Margherita Sarfatti, Mario Broglio e Gualtieri di San Lazzaro, galleristi come Antonio Aniante, storici dell’arte come Lionello Venturi e Cesare Brandi, spesso anche gradite compagnie per il thé nel proprio atelier, per un rendez-vous al Caffè Les Deux Magots, per dîner «chez Albert».
Nonostante la malinconia per i cieli azzurri d’Italia, il trasporto con cui de Pisis vive la propria esperienza nella città che lo ospiterà fino al rientro in Italia nel 1939, è testimoniato dalle seguenti parole di Giovanni Comisso del 1927: «In quei giorni mi diede una presentazione di Parigi, come Mefistofele a Faust della festa nella notte di Valpurga.
Passammo dai caffè di Montparnasse ai loschi ritrovi di Montmartre e della Bastiglia, dove egli avvicinava gente di ogni specie e parlava con tutti come se fosse conosciuto da anni. Quando ci lasciammo promisi a lui e a me stesso che sarei andato a stabilirmi a Parigi quanto prima, per vivere con lui di quella selvaggia e satanica libertà».
Il Manifesto – 23 agosto 2015
Nessun commento:
Posta un commento