27 settembre 2015

IL SOGNO AMERICANO DI F. SINATRA





Mostre, concerti, proiezioni, dischi, dibattiti e anche una bottiglia di bourbon. Negli Usa molte le iniziative per ricordare «The Voice» a un secolo dalla nascita.

Vilmo Modoni

Frank Sinatra. Il sogno americano a “modo suo”

Se fosse ancora vivo Francis Albert Sinatra sarebbe sulla soglia dei cent'anni. Era infatti nato il 12 dicembre 1915 a Hoboken, in New Jersey, piccolo centro tanto vicino in linea d'aria a Manhattan quanto lontano dalla Grande Mela in termini di opportunità e cose da fare. 

Era figlio di immigrati italiani: il padre Antonio, siciliano, aveva tirato di boxe con lo pseudonimo di Marty O'Brien e serviva nel locale corpo dei vigili del fuoco; la madre, Natalina Garaventa, originaria dell'entroterra ligure, procurava aborti clandestini ed era militante attiva del partito democratico. 

Quest'anno l'America sta rendendo omaggio con diverse iniziative al centenario di colui che Bruce Springsteen ha definito «un simbolo riconoscibile come la Statua della Libertà. Era il ventesimo secolo, era moderno e complesso, aveva swing e una personalità inquieta. La sua voce esprimeva un bisogno ribaldo di libertà e la triste consapevolezza di come va il mondo». 

Il Boss non è l'unico musicista apparentemente lontano anni luce dal suono e dallo stile di Sinatra a rendergli onore. Bob Dylan ha di recente pubblicato un album, Shadows in the Night, con diverse cover di The Voice (il soprannome più noto di Sinatra) e il suo produttore Daniel Lanois ha rivelato che ne avrebbe già inciso anche un secondo, finora inedito. Oltre agli inchini dei musicisti venuti dopo di lui, la lista delle celebrazioni è davvero notevole. 

Un'esposizione di foto alla Morrison Hotel Gallery e tre show speciali al Lincoln Center di New York, la proiezione dei suoi film al Tribeca Film Festival di Robert De Niro, un documentario sulla rete Hbo. E poi programmi radio su Sirius Xm, diversi dibattiti durante tutto l'anno (dall'università di Yale fino al convegno di dicembre al festival Sxsw di Austin) e un grande spettacolo celebrativo chiamato Frank Sinatra 100. 

Non mancano neppure edizioni di cd targati Capitol, Universal e Sony, mentre la Warner ha messo in cantiere edizioni commemorative dei suoi film. Puntuale anche l'omaggio di una famosa casa produttrice di whisky, considerato come Frank ne fosse appassionato e devoto consumatore e sostenitore (ebbe a dire: «Non ignoro il bisogno di fede dell'uomo: sono per qualunque cosa ti permetta di passare bene la notte, siano preghiere, tranquillanti o una bottiglia di Jack Daniels»). La distilleria di Lynchburg ha messo sul mercato una bottiglia griffata che lo ricorda, il «Jack Daniel's Sinatra Select».



Tra i molti eventi commemorativi merita un cenno particolare la mostra appena conclusasi alla New York Public Library for the Performing Arts e che sembra possa avere un seguito itinerante (e chissà che non si riesca a vederla anche dalle nostre parti), hanno partecipato le figlie Nancy e Tina che hanno messo a disposizione cimeli inediti di ogni genere: foto mai viste, lettere rare, effetti personali, i quadri che dipingeva per rilassarsi e non vendeva mai. 

C'è pure l'angolo per fare un duetto virtuale con The Voice. Naturalmente è un'esibizione agiografica, dove si decanta a pieni polmoni il buono e si tacciono i difetti. Si esaltano ad esempio le sue prese di posizione contro il razzismo («Credetemi, ne so qualcosa di intolleranza razziale. A undici anni fui chiamato "sporco italiano" a casa mia, nel New Jersey») o l'antisemitismo, come la creazione del Tamarisk Country Club perché tutti gli altri campi da golf escludevano ebrei e neri e lui allora rifiutava di frequentarli. 

Ma non si trova neppure una delle oltre 1.200 pagine di dossier che l'Fbi ha raccolto sui suoi rapporti con la mafia, spiandolo per oltre quarant'anni (indagini che liquidava così: «I mafiosi? Niente a che fare. Solo ciao e arrivederci»). E non si scopre neppure se Frank è davvero il padre di Ronan Farrow, come tempo fa la madre Mia ha lasciato intendere senza peraltro fornirne prova. E, girando per le sale della mostra, non è dato capire i motivi di alcune delle contraddizioni più eclatanti di Ol' Blue Eyes (altro soprannome di Frank). 

Non si capisce, ad esempio, perchè abbia finito la vita da cattolico praticante e devoto, dopo aver detto di credere «nella Natura» come un figlio dei fiori panteista. O come mai, dopo essere stato come la madre un convinto sostenitore dei democratici (durante una convention del partito John Kennedy gli rese omaggio così: «So che abbiamo un debito con il nostro grande amico Frank Sinatra. Prima ancora di cantare, raccoglieva voti per i democratici in un distretto elettorale del New Jersey. E quando smetterà di cantare, continuerà a parlare in favore del partito democratico, e io lo ringrazio a nome di tutti i presenti») abbia finito per appoggiare Ronald Reagan. 

Poco importa. L'America è genuflessa di fronte a Sinatra. Ol' Blue Eyes è un'icona, forse anche per tutti i difetti che incarnava, e così lo trattano dalla costa atlantica al Pacifico. Tanto che Sinatra non ha certo bisogno delle celebrazioni del centenario per essere ben presente nella coscienza collettiva statunitense e, perché no, di tutto il mondo. I suoi dischi continuano a essere venduti, a oggi siamo attorno ai 150 milioni di copie, e anche i media moderni registrano la sua strabordante presenza: un video di My Way su YouTube ha registrato trentasette milioni di visualizzazioni. The Voice non è solo ben presente e radicato nella memoria popolare, ma viene pure apprezzato dalla critica colta. 

Tempo fa il mensile inglese di musica classica Gramophone è giunto a paragonare le sue canzoni, per la qualità dell'interpretazione, a dei veri e propri Lieder, composizioni per voce solista e pianoforte che ebbero come autori maestri come Schubert o Brahms. Non male per un cantante autodidatta che asseriva di essere l'unico ad aver preso lezioni di canto da un trombone: «Quello che più mi ha influenzato è stato il modo in cui Tommy Dorsey suonava il trombone. Volevo assolutamente che la mia voce funzionasse proprio come un trombone o un violino; non volevo certo che il suono fosse lo stesso, ma volevo modulare la voce come quegli strumenti». 



E oltre a Dorsey (nella cui big band aveva militato attorno al 1940, definendola poi con rispetto «la General Motors delle big band americane»), Sinatra aveva cercato di carpire i segreti di Bing Crosby (la cura per le tecniche di registrazione, l'approccio al microfono, il morbido cantato), delle linee melodiche di Louis Armstrong, del tono musicale arioso e sfuggente del sassofonista Lester Young, del modo in cui alcuni musicisti jazz possono far sentire una melodia come qualcosa di incredibilmente fragile e al contempo infrangibile. Altra grande influenza fu Billie Holiday e, sorpresa, Sinatra venne anche ispirato dal violinista classico Jascha Heifetz: «Fui sempre attratto dal suo suono, che pareva non interrompersi mai». 

Tante influenze insomma, anche molto diverse tra loro, che avevano reso Frank capace di modulare la voce da baritono alto a tenore, assicurandogli grande maestria nel dare significato alla frase che cantava con pause e furiose accelerazioni. In questo 2015 dedicato a Sinatra si discuterà di questo e di molto altro ancora e probabilmente non mancheranno neppure le voci critiche. Ma la percezione è che Frank ne uscirà alla grande. Ha incarnato il sogno americano, le speranze del dopoguerra, le contraddizioni e i pregi della sua generazione, i limiti di un cantante autodidatta. Che però, alla resa dei conti, con la sua voce ha convinto tutti. 


Il Manifesto – 5 settembre 2015

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