Matteo Di Gesù in questo spassoso pezzo mette alla berlina alcuni dei luoghi comuni che continuano a circolare intorno alla letteratura siciliana
FRASARIO ESSENZIALE SULLA LETTERATURA SICILIANA
N.B. L’ho aggiornato aggiungendo solamente una nuova voce e un paio di integrazioni minime.
In Sicilia, come è ben noto, si legge molto poco. E tuttavia alla letteratura si è attinto abbondantemente per delineare le nostre componenti identitarie più rilevanti, ma soprattutto la si è sempre considerata un imprescindibile argomento per l’antichissima arte della ‘civile conversazione’ (e in Sicilia, come è ben noto, se si legge molto poco in compenso si scrive parecchio e soprattutto si chiacchiera ancora di più). Ci pare dunque utile proporre uno stringato breviario, articolato per autore o gruppo di autori, utile a sostenere, appunto, una conversazione brillante intorno al tema della letteratura siciliana: un frasario essenziale per non sfigurare in società, semmai capitasse di dover discettare del nostro augusto canone, o di ragionare (si fa per dire) della nostra veneranda cultura.
Giovanni Meli: citare a memoria almeno alcuni versi di «Dimmi, dimmi apuzza nica».
Antonio Veneziano: risaputa la storia della sua prigionia con Cervantes. Ma essendo l’unica notizia nota sul conto del poeta, riproporla mostrandosi consapevoli del fatto che è risaputa.
Domenico Tempio: lasciare intendere alle signore, con fare ammiccante, che lo si è letto.
Giovanni Verga: va sempre bene dire che andrebbe riletto il Verga minore.
Federico De Roberto: ci si può azzardare a sostenere che è stato superiore a Verga (in tal caso ricordarsi di citare Sciascia, secondo il quale I viceré stanno al secondo posto, dopo i Promessi sposi). I più avventurosi possono prendersela con l’egemonia di Croce e Contini, che non ne compresero il valore.
Luigi Pirandello: alto rischio di trascendere in banalità scolastiche. Meglio scantonare con frasi tipo «siamo tutti suoi figli», oppure deviare su qualche recente messa in scena dei suoi lavori.
Vitaliano Brancati: non è ancora passato di moda considerarlo colpevolmente negletto, trascurato, poco considerato, «quando invece è forse il più grande del secondo Novecento».
Elio Vittorini: ridimensionare la sua statura di romanziere («non regge con gli anni» rimane un’ottima formula) ma esaltarne la figura di organizzatore culturale.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa: qualsiasi cosa si voglia dire sul Gattopardo, anteporre la premessa «si tratta comunque di un grande romanzo». Di questi tempi usa molto evidenziare le bieche motivazioni ideologiche che ne ritardarono la pubblicazione (a tal proposito mostrare di conoscere qualche retroscena sulle traversie editoriali del capolavoro fa sempre fine). Evitare comunque di dare troppo addosso a Vittorini: è poco elegante. Semmai ricordare che Sciascia si ricredette sul valore dell’opera.
Lucio Piccolo: citare la sua corrispondenza con W. B. Yeats che ne attesta la dimensione europea.
Salvatore Quasimodo: con un minimo di disinvoltura si può sostenere che le sue cose più alte sono le traduzioni dei lirici greci; un pizzico di sfrontatezza in più basta per sancire che restano quelle le uniche apprezzabili. Offre un ottimo spunto per dirottare la conversazione sui discutibili criteri per l’attribuzione del Nobel.
Antonio Pizzuto: sono di rigore il piglio accigliato e i toni dell’invettiva per stigmatizzare il criminale oblio al quale è stata abbandonata la sua straordinaria produzione (qui rendere merito a Contini). Se si vuole indugiare sulla sua vicenda biografica di funzionario dell’Interpol e questore, premurarsi di omettere che più di un sospetto lo vuole spia del regime fascista e persecutore di antifascisti.
Angelo Fiore: per la prima parte vedi Antonio Pizzuto. Se si vuole indugiare sulla sua vicenda biografica, attingere all’aneddotica sulla sua sorte infame di reietto delle lettere, possibilmente esibendo trasporto emotivo. Ormai inservibile, perché abusata, la fantasticheria di Fiore e Sciascia che si scrutano senza parlarsi da due tavoli di trattoria
Leonardo Sciascia: attribuirgli le affermazioni più disparate, mostrarsi in pieno accordo, e denunciare che sono state fraintese, misinterpretate, mistificate. In generale parlarne come di un martire perseguitato ha sempre un’ottima presa sull’uditorio. Frase irrinunciabile: «ci manca la sua voce».
Michele Perriera: «il suo Téates ha salvato almeno una generazione».
Gaetano Testa: «è rimasto legato all’esperienza della Neoavanguardia».
Vincenzo Consolo: «dovrebbero ristampare La ferita dell’Aprile» (nonché una cospicua una varietà di frasi che comincino tutte con: «Ora che ci ha lasciati anche lui...».
Gesualdo Bufalino: «pensa se Sciascia non l’avesse scoperto...».
Andrea Camilleri: Riconoscere il valore ‘artigianale’ dei romanzi di Montalbano, ma ribadire che la sua vena migliore viene fuori nei romanzi storici e nel suo sperimentalismo linguistico. Vantarsi sempre di averlo letto quando ancora non se lo filava nessuno.
Giallo siciliano: è diventato out. Negare anche davanti all’evidenza di averlo esaltato fino alla settimana scorsa e possibilmente occultare le copie dei polizieschi presenti nella propria libreria. Lessico più appropriato per denunciare la pochezza del genere: maniera, abuso, cliché, moda, effimero.
Giovani autori siciliani: considerare, affettando lo stupore dell’intuizione improvvisa (ottimo l’attacco “Ma ci pensi che…”), l’incresciosa evenienza che ormai quasi tutti gli scrittori siciliani under quarantacinque (“giovani”, dunque) non solo vivono stabilmente oltre lo stretto, ma hanno addirittura esordito dopo essere già emigrati.
Scrittrici: rubricarle tutte sotto un’unica voce sessuata e proclamare che i libri migliori, da un po’ di anni a questa parte, provengono da loro. Non lasciarsi sfuggire l’occasione per una digressione sulla violenza sulle donne, i femminicidi e gli insulti sessisti sui social network.
Torna sempre utile, infine, durante la conversazione, tenere pronto un rosarietto di autori per lo più misconosciuti, da nominare all’occorrenza per fare colpo; auspicarne, sconsolati, la ripubblicazione maledicendo la crisi e deprecando lo scarso coraggio dell’editoria contemporanea piegata alle logiche di mercato.
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