Dal sito "la dimora del tempo sospeso" riprendo questo bel pezzo:
DENTRO L’INFINITO
L’etica della visione in Giacomo Leopardi
L’etica della visione in Giacomo Leopardi
di Vincenzo Guarracino
L’esperienza della poesia, di ogni poesia, è l’esperienza di un nulla che interviene nell’attimo del pensiero, di quel pensiero che dice non senza impagabili sforzi io sul crinale di un abisso, che il linguaggio definisce e nega, nello sforzo delle figure metriche e retoriche, come spazio di una finzione e di un desiderio, come luogo in cui ossimoricamente la scrittura svela il mondo e ce lo fa abitare e contemporaneamente registra un oltre che si annulla continuamente nella banalità e nella noia del qui, nella costrizione e mortificazione di un presente che vive con angoscia la propria stessa inappartenenza.
Neppure Leopardi si sottrae a una simile condizione, che costituisce l’orizzonte e l’alibi della scrittura, presto disponendosi anzi al patimento della consapevolezza, come prematuramente attestano almeno due testi emblematici, il primo segnato nel Diario del primo amore (“non sapendo né volendo farlo altrimenti che collo scrivere…”), il secondo inscritto in conclusione dell’Appressamento della morte “Sento del pensier l’immenso pondo”, IV, 7, coniugato al groviglio complesso di incapacità e necessità evocato dal primo, rivela la sterile protesta contro un destino avvertito come barriera insormontabile e tale da far infrangere ogni speranza di eternità, ogni illusione di un aldilà di grandezza e salvezza, che è tipico anche del Leopardi più maturo: contro la sua ottusa gravità s’infrangono ben altrimenti che i sogni velleitari di un adolescente, s’infrangono le domande essenziali dell’uomo e le ragioni stesse di quella “vaga” natura che vuol parlare ancora all’uomo e chiede di accenderne ansie ed “affetti” ormai sopiti dal tempo storico del profitto e del calcolo. Pensare è un pondo, un peso, che si dispone con la gravità di una pietra sepolcrale o l’invadenza di un irremovibile schermo, oltre cui l’abisso si dissimula, ma non s’appiana, nelle forme iridescenti e irridenti di vari e inutili saperi che hanno solo il compito di rinviare il desiderio, di separare definitivamente l’uomo dall’unico sapere autentico, da quei “sensi” nel commercio coi quali solo si situa ogni possibilità di autenticità e di grandezza e dunque di esistenza (intesa nel suo valore più etimologico di modo di esserci e progressiva ancorché imperfetta definizione di un io entro lo spazio delle cose).
Di fronte al sapere dei sensi, di fronte alla “fantasia” che accede intuitivamente al miracolo della natura e al tempo stesso del mondo, si collocano i saperi del tempo, di un tempo dell’insensibilità che si affida alla ragione e al “vero”, nell’illusione che filosofia e religione medichino un disagio irrimediabilmente, arrestando il crollo di un cielo ormai per sempre vuoto e senza dei.
“Ahi ahi, poscia che vote / son le stanze d’Olimpo, e cieco il tuono / per l’atre nubi e le montagne errando / gl’iniqui petti e gl’innocenti a paro / in freddo orror dissolve…”, lamenta Leopardi nella canzone Alla Primavera o delle favole antiche (vv. 81-85) con una passione in cui è dato avvertire un’eco che proviene da lontano, dal Catullo inconsolabile del carme 64 per lo sdegnato esilio degli dèi dal consorzio degli umani (“Sed postquam tellus scelere est imbuta nefando, / iustitiamque omnes cupida de mente fugarunt… / nec tales dignantur visere coetus, / nec se contingi lumine claro”, (vv. 397-407), “ma dopo che la terra fu imbevuta dall’umana scelleratezza e tutti fecero allontanare la giustizia dall’avida mente, (li dèi) non hanno più consentito a visitare le radunanze degli umani e neppure hanno più permesso di essere sfiorati dalla luce del giorno”), per collegar all’antico la sua voce di moderno e trovare fraterna complicità nella voce drammaticamente interrogante dell’Horderlin di Pane e vino sul senso stesso dei poeti nel “tempo della povertà” e della mancanza di Dio.
Dentro questa notte del mondo, profanata da un progresso che è “barbarie” – barbarie di una ragione che spegne le illusioni – si accendono sogni teleologici e teologici che disturbano e rendono definitivamente impossibile la “vista della bella natura” che, sola, “desta entusiasmo” (Zibaldone, 257), di una natura “miracolosa e stupenda” (Zibaldone, 2936) fonte di “caro immaginar” (Ad Angelo Mai), di “dolci inganni” (Al conte Carlo Pepoli), di “infinita / felicità” (Amore e Morte). E’ entro questo spazio che si disegna una sconfitta che dice la qualità del tempo, di un tempo asservito alla miseria della ragione, che svia il linguaggio, la “scintilla celeste” (Lettera ai sigg. compilatori della Biblioteca Italiana) della poesia, “dal visibile all’invisibile, dalle cose alle idee”, sottraendole la sua divina peculiarità di “fingere e di mentire” (Discorso di un Italiano sopra la poesia romantica). E’ da questo scacco che inizia la storia e il tempo umano, il tempo di una corruzione patita e scontata nell’atonia di una voce senza risonanze in un deserto vuoto e ingrato, ove “tout homme qui pense est un être corrompu”, condannato a domande senza risposte, come il pastore del Canto notturno.
Entro questo deserto il canto, non più immediata e felice effusione di un vigoroso “sentire” ma già lingua della meditazione, modulazione sentimentale e sogno di una lingua della primavera dal punto di vista dell’autunno, dentro questo deserto, dunque, il canto assolve un compito di rassicurante gratificazione (“chi teme, canta”, Zib. 3527) e di seduzione (“la natura ha dato al canto umano una meravigliosa forza sull’animo dell’uomo, e maggiore di quella del suono”, Zib. 1722) per esorcizzare il silenzio e la paura della morte, per sospendere il nulla nelle trame, avvolgenti e vischiose, della scrittura ove l’ioche proferisce il discorso si sorprende in un processo di riflessione, di “rimembranza”: in un processo cioè in cui la parola avviene sempre in modo da sfuggire dall’omphalos di una dolorosa presenza: una fuga verso il passato o verso il futuro, in un percorso insomma che attiene alle strategie della memoria e della ripetizione e contemporaneamente dell’attesa.
Causa di realtà e contemporaneamente di godimento e di desiderio, la parola descrive e insegue i propri sosia nella memoria, vela e rivela in un processo inesauribile che dice in una domanda di totalità e contemporaneamente denuncia il nulla, il “solido nulla” (Zib. 85) di un’impossibile risposta. È insomma l’esperienza di una distanza che si schiude nell’apparenza delle cose e dice l’illusione di possederle e definirle, non senza l’accettazione delle regole del suo gioco micidiale e sublime, inscritto tutto nella pratica di un indefinibile rinvio senza condizioni.
Neppure Leopardi si sottrae a una simile condizione, che costituisce l’orizzonte e l’alibi della scrittura, presto disponendosi anzi al patimento della consapevolezza, come prematuramente attestano almeno due testi emblematici, il primo segnato nel Diario del primo amore (“non sapendo né volendo farlo altrimenti che collo scrivere…”), il secondo inscritto in conclusione dell’Appressamento della morte “Sento del pensier l’immenso pondo”, IV, 7, coniugato al groviglio complesso di incapacità e necessità evocato dal primo, rivela la sterile protesta contro un destino avvertito come barriera insormontabile e tale da far infrangere ogni speranza di eternità, ogni illusione di un aldilà di grandezza e salvezza, che è tipico anche del Leopardi più maturo: contro la sua ottusa gravità s’infrangono ben altrimenti che i sogni velleitari di un adolescente, s’infrangono le domande essenziali dell’uomo e le ragioni stesse di quella “vaga” natura che vuol parlare ancora all’uomo e chiede di accenderne ansie ed “affetti” ormai sopiti dal tempo storico del profitto e del calcolo. Pensare è un pondo, un peso, che si dispone con la gravità di una pietra sepolcrale o l’invadenza di un irremovibile schermo, oltre cui l’abisso si dissimula, ma non s’appiana, nelle forme iridescenti e irridenti di vari e inutili saperi che hanno solo il compito di rinviare il desiderio, di separare definitivamente l’uomo dall’unico sapere autentico, da quei “sensi” nel commercio coi quali solo si situa ogni possibilità di autenticità e di grandezza e dunque di esistenza (intesa nel suo valore più etimologico di modo di esserci e progressiva ancorché imperfetta definizione di un io entro lo spazio delle cose).
Di fronte al sapere dei sensi, di fronte alla “fantasia” che accede intuitivamente al miracolo della natura e al tempo stesso del mondo, si collocano i saperi del tempo, di un tempo dell’insensibilità che si affida alla ragione e al “vero”, nell’illusione che filosofia e religione medichino un disagio irrimediabilmente, arrestando il crollo di un cielo ormai per sempre vuoto e senza dei.
“Ahi ahi, poscia che vote / son le stanze d’Olimpo, e cieco il tuono / per l’atre nubi e le montagne errando / gl’iniqui petti e gl’innocenti a paro / in freddo orror dissolve…”, lamenta Leopardi nella canzone Alla Primavera o delle favole antiche (vv. 81-85) con una passione in cui è dato avvertire un’eco che proviene da lontano, dal Catullo inconsolabile del carme 64 per lo sdegnato esilio degli dèi dal consorzio degli umani (“Sed postquam tellus scelere est imbuta nefando, / iustitiamque omnes cupida de mente fugarunt… / nec tales dignantur visere coetus, / nec se contingi lumine claro”, (vv. 397-407), “ma dopo che la terra fu imbevuta dall’umana scelleratezza e tutti fecero allontanare la giustizia dall’avida mente, (li dèi) non hanno più consentito a visitare le radunanze degli umani e neppure hanno più permesso di essere sfiorati dalla luce del giorno”), per collegar all’antico la sua voce di moderno e trovare fraterna complicità nella voce drammaticamente interrogante dell’Horderlin di Pane e vino sul senso stesso dei poeti nel “tempo della povertà” e della mancanza di Dio.
Dentro questa notte del mondo, profanata da un progresso che è “barbarie” – barbarie di una ragione che spegne le illusioni – si accendono sogni teleologici e teologici che disturbano e rendono definitivamente impossibile la “vista della bella natura” che, sola, “desta entusiasmo” (Zibaldone, 257), di una natura “miracolosa e stupenda” (Zibaldone, 2936) fonte di “caro immaginar” (Ad Angelo Mai), di “dolci inganni” (Al conte Carlo Pepoli), di “infinita / felicità” (Amore e Morte). E’ entro questo spazio che si disegna una sconfitta che dice la qualità del tempo, di un tempo asservito alla miseria della ragione, che svia il linguaggio, la “scintilla celeste” (Lettera ai sigg. compilatori della Biblioteca Italiana) della poesia, “dal visibile all’invisibile, dalle cose alle idee”, sottraendole la sua divina peculiarità di “fingere e di mentire” (Discorso di un Italiano sopra la poesia romantica). E’ da questo scacco che inizia la storia e il tempo umano, il tempo di una corruzione patita e scontata nell’atonia di una voce senza risonanze in un deserto vuoto e ingrato, ove “tout homme qui pense est un être corrompu”, condannato a domande senza risposte, come il pastore del Canto notturno.
Entro questo deserto il canto, non più immediata e felice effusione di un vigoroso “sentire” ma già lingua della meditazione, modulazione sentimentale e sogno di una lingua della primavera dal punto di vista dell’autunno, dentro questo deserto, dunque, il canto assolve un compito di rassicurante gratificazione (“chi teme, canta”, Zib. 3527) e di seduzione (“la natura ha dato al canto umano una meravigliosa forza sull’animo dell’uomo, e maggiore di quella del suono”, Zib. 1722) per esorcizzare il silenzio e la paura della morte, per sospendere il nulla nelle trame, avvolgenti e vischiose, della scrittura ove l’ioche proferisce il discorso si sorprende in un processo di riflessione, di “rimembranza”: in un processo cioè in cui la parola avviene sempre in modo da sfuggire dall’omphalos di una dolorosa presenza: una fuga verso il passato o verso il futuro, in un percorso insomma che attiene alle strategie della memoria e della ripetizione e contemporaneamente dell’attesa.
Causa di realtà e contemporaneamente di godimento e di desiderio, la parola descrive e insegue i propri sosia nella memoria, vela e rivela in un processo inesauribile che dice in una domanda di totalità e contemporaneamente denuncia il nulla, il “solido nulla” (Zib. 85) di un’impossibile risposta. È insomma l’esperienza di una distanza che si schiude nell’apparenza delle cose e dice l’illusione di possederle e definirle, non senza l’accettazione delle regole del suo gioco micidiale e sublime, inscritto tutto nella pratica di un indefinibile rinvio senza condizioni.
E’ questo che è scritto fin dal primo verso nell’Infinito, dove si afferma un tempo più anteriore del tempo stesso dell’assuefazione, il tempo di un sempre miticamente ed etimologicamente riassuntivo delle pluralità di singole unità (come rivela l’avverbio con la sua radice sem, termine indoeuropeo per uno, di un uno che fonda il presente per esserne la condizione in cui esso stesso si specchia e si moltiplica, semel, una volta per tutte), il tempo delle “favole antiche” persistenti come un sogno incancellabile.
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo escluse.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagione, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo escluse.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagione, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
E’ in questo tempo anteriore (e interiore) dell’una volta per tutte, risvegliato dalla frequentazione del colle e dell’ostacolo della siepe, da commercio con un oltre impraticabile, che avviene l’esperienza di un limite, di una barriera, che dice un’assenza e un desiderio che trascendono nell’immaginazione ogni dissenso col mondo, restituendo alla memoria una funzione energetica e rivitalizzante, più tardi delineata nello Zibaldone (“uno de’ maggiori frutti che io mi propongo e spero da’ miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore della mia gioventù”, 4302, e “un pezzo di vera contemporanea poesia… aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita”, 4450).
Attraverso la parola il poeta aderisce veramente alle cose dell’infanzia e imita la “nuda natura”, non secondo un processo di platonica reminiscenza ma in un risveglio di piacere dal suo torpore per la complicità delle cose, in una rimembranza che è un ridar corpo alla sensazione già provata eppure sempre nuova, una rimembranza attivata da concreti e pure eterni segni (il colle, la siepe, lo stormir delle piante, il vento), sollecitando negli altri il massimo di emozione attraverso il minimo di intermediazione sentimentale, attraverso una finzione che etimologicamente plasma nella fisicità del linguaggio le immagini che si fanno cose e non emblemi astratti di un pensiero fuori del tempo.
In questo modo si descrive un paradigmatico percorso di conoscenza che privilegia il polo dell’oltre, del limite che nasconde e allude e rispetto al quale l’infelicità concretamente si situa sempre in un al di qua. Insomma, nel linguaggio e attraverso il linguaggio si evidenzia una sorta di scontro dialettico che vede nei termini della concretezza soprattutto in “questo” insistito ben sei volte, e in “quello” presente due volte, oltre alla forza dei referenti simbolici del colle e della siepe) un messaggio di ostilità e di dolore, mentre in termini appassionatamente positivi connota tutto ciò che attiene al “vago” e all’ “indefinito”, in cui all’esperienza sensoriale è dato confluire, come in una dialettica sintesi, solo per il tramite della rimembranza (allusa nei commutatori temporali fu, mi fingo, mi sovvien, m’è, oltre che nell’avverbio sempre d’apertura).
In questa sintesi l’antitesi tra poesia d’immaginazione e poesia sentimentale, poesia degli antichi e poesia dei moderni malati, poesia del mito e poesia del pensiero interrogante, trova in un certo senso risoluzione, e con ciò rende atto dello sforzo che lo scrittore fa di riproporre, in una situazione storica che più non lo consente, la libertà e l’ingenuità di una poesia dell’immaginazione, parallela alla contemporanea esperienza di un discorso sentimentale-filosofico, e continuamente insidiata e a tratti incrinata dall’insorgenza di motivi patetici e dall’insopprimibile se pur repressa coscienza di una realtà dolorosa.
Collocato com’è in posizione preminente rispetto agli Idilli, quasi a enunciarne la poetica, evidenzia tutte queste cose nella sua architettura concettuale e stilistica: la flagranza del tema, l’immediatezza della situazione affettiva e la duttile efficacia dei registri definiscono il luogo della fruizione della realtà come il luogo di una singolare esperienza, quella di una parola dall’incoercibile pluralità che dispone alla metamorfosi, una parola entro il cui spazio fiorisce la sorpresa di eventi e figure che trasfigurano l’arida sostanza del reale consentendo al pensiero di fingersi, di rappresentarsi ciò che è assente, fino a una deriva che rivolge in incremento di vitalità il segno stesso di una dolorosa balìa (“l’altra causa che mi fa infelice è il pensiero… A me il pensiero ha dato per lunghissimo tempo e dà tali martiri, per questo solo che m’ha avuto sempre e m’ha interamente in balìa… che m’ha pregiudicato evidentemente, e m’ucciderà, se io prima non muterò condizione”, A Pietro Giordani, 8 agosto 1817).
Amaro e doloroso in termini di costo umano, come alludono semi e suoni (ermo, esclude, spaura, oltre l’arcigna spigolosità dei primi due versi), il ricavo di una simile “avventura” si rivela dunque esaltante e fecondo in termini di “piacere” e di conoscenza, nella progressiva decantazione di ogni elemento, che con la sua durezza semantica e la sua pregnanza concettuale alluda all’opera mortificante e impoetica della ragione “storica”, operazione felicemente riuscita e conclusa nel “naufragio” dell’ultimo verso.
Attraverso la parola il poeta aderisce veramente alle cose dell’infanzia e imita la “nuda natura”, non secondo un processo di platonica reminiscenza ma in un risveglio di piacere dal suo torpore per la complicità delle cose, in una rimembranza che è un ridar corpo alla sensazione già provata eppure sempre nuova, una rimembranza attivata da concreti e pure eterni segni (il colle, la siepe, lo stormir delle piante, il vento), sollecitando negli altri il massimo di emozione attraverso il minimo di intermediazione sentimentale, attraverso una finzione che etimologicamente plasma nella fisicità del linguaggio le immagini che si fanno cose e non emblemi astratti di un pensiero fuori del tempo.
In questo modo si descrive un paradigmatico percorso di conoscenza che privilegia il polo dell’oltre, del limite che nasconde e allude e rispetto al quale l’infelicità concretamente si situa sempre in un al di qua. Insomma, nel linguaggio e attraverso il linguaggio si evidenzia una sorta di scontro dialettico che vede nei termini della concretezza soprattutto in “questo” insistito ben sei volte, e in “quello” presente due volte, oltre alla forza dei referenti simbolici del colle e della siepe) un messaggio di ostilità e di dolore, mentre in termini appassionatamente positivi connota tutto ciò che attiene al “vago” e all’ “indefinito”, in cui all’esperienza sensoriale è dato confluire, come in una dialettica sintesi, solo per il tramite della rimembranza (allusa nei commutatori temporali fu, mi fingo, mi sovvien, m’è, oltre che nell’avverbio sempre d’apertura).
In questa sintesi l’antitesi tra poesia d’immaginazione e poesia sentimentale, poesia degli antichi e poesia dei moderni malati, poesia del mito e poesia del pensiero interrogante, trova in un certo senso risoluzione, e con ciò rende atto dello sforzo che lo scrittore fa di riproporre, in una situazione storica che più non lo consente, la libertà e l’ingenuità di una poesia dell’immaginazione, parallela alla contemporanea esperienza di un discorso sentimentale-filosofico, e continuamente insidiata e a tratti incrinata dall’insorgenza di motivi patetici e dall’insopprimibile se pur repressa coscienza di una realtà dolorosa.
Collocato com’è in posizione preminente rispetto agli Idilli, quasi a enunciarne la poetica, evidenzia tutte queste cose nella sua architettura concettuale e stilistica: la flagranza del tema, l’immediatezza della situazione affettiva e la duttile efficacia dei registri definiscono il luogo della fruizione della realtà come il luogo di una singolare esperienza, quella di una parola dall’incoercibile pluralità che dispone alla metamorfosi, una parola entro il cui spazio fiorisce la sorpresa di eventi e figure che trasfigurano l’arida sostanza del reale consentendo al pensiero di fingersi, di rappresentarsi ciò che è assente, fino a una deriva che rivolge in incremento di vitalità il segno stesso di una dolorosa balìa (“l’altra causa che mi fa infelice è il pensiero… A me il pensiero ha dato per lunghissimo tempo e dà tali martiri, per questo solo che m’ha avuto sempre e m’ha interamente in balìa… che m’ha pregiudicato evidentemente, e m’ucciderà, se io prima non muterò condizione”, A Pietro Giordani, 8 agosto 1817).
Amaro e doloroso in termini di costo umano, come alludono semi e suoni (ermo, esclude, spaura, oltre l’arcigna spigolosità dei primi due versi), il ricavo di una simile “avventura” si rivela dunque esaltante e fecondo in termini di “piacere” e di conoscenza, nella progressiva decantazione di ogni elemento, che con la sua durezza semantica e la sua pregnanza concettuale alluda all’opera mortificante e impoetica della ragione “storica”, operazione felicemente riuscita e conclusa nel “naufragio” dell’ultimo verso.
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