30 settembre 2015

PAROLE E VIOLENZA. Il caso Erri De Luca



LÌ DOVE FINISCE IL DISCORSO COMINCIA LA VIOLENZA

di Evelina Santangelo
Dunque, da una parte c’è uno scrittore che, in merito alla vicenda che lo vede imputato per istigazione a delinquere,pronuncia in aula e scrive (nel suo libro-difesa La parola contraria) parole di questo tipo: «Io, se istigo, istigo alla lettura. Al massimo alla scrittura».«L’accusa contro di me sabota il mio diritto costituzionale di parola contraria. Il verbo sabotare ha vasta applicazione in senso figurato e coincide con il significato di ostacolare. I pubblici ministeri esigono che il verbo sabotare abbia un solo significato. In nome della lingua italiana e del buon senso nego il restringimento di significato».
Dall’altra, c’è un pubblico ministero, Antonio Rinaudo, che chiede per De Luca 8 mesi di reclusione con argomentazioni serrate di questo tenore: «Mi pare inevitabile che le parole di De Luca (“sabotaggi e vandalismi sono necessari per comprendere che la Tav è nociva”) siano dirette a incidere sull’ordine pubblico…». «Quando il signor De Luca parla, le sue parole hanno un peso specifico rilevante, soprattutto sul movimento No Tav». «Se, come ha chiesto la difesa, avessimo trovato qualche riferimento diretto alle sue pubblicazioni per esempio nelle perquisizioni degli arrestati saremmo qui a celebrare un processo per concorso nei reati commessi».
Affermazioni e argomentazioni, da una parte e dall’altra che, accostate, potrebbero benissimo evocare certi dialoghi surreali, grotteschi, kafkiani.
Da una parte, dunque, c’è uno scrittore che difende la libertà della parola, la sua irriducibilità, meno che mai entro griglie giudiziarie. Dall’altra c’è la legge che segue una logica ferrea conseguenziale tra parole e azioni.
Chi scrive non condivide i metodi di una parte del movimento No Tav, e ne condivide solo in parte le ragioni, come non sottoscriverebbe le dichiarazioni rilasciate da Erri De Luca all’«Huffington Post» nel settembre del 2013, ma questo poco importa.
Quel che importa invece è la natura dell’accusa rivolta a Erri De Luca in quanto scrittore e poeta, perché, a quanto pare, se a pronunciarle fosse stato il «barbiere di Bussoleno» sarebbero state perdonate, come sono perdonate quotidianamente parole di violenza inaudita (come «e ora mandiamo le ruspe sui campi» o «sparare ai barconi»)e feroce,non solo perché rivolte contro i più indifesi ma anche perché pronunciate a fini propagandistici, per ottenere e alimentare consenso, non per creare scandalo,dissenso, e spesso immense solitudini, come è sempre accaduto alle parole scomode di poeti, scrittori e spiriti liberi.
Eppure non ci vorrebbe molto a comprendere un paio di considerazioni fatte da una delle menti più lucide del nostro Novecento, Hannah Arendt, quando dice che: «La violenza è muta», che «la violenza comincia laddove il discorso finisce», quando spiega che: «Il declino delle nazioni comincia con il venir meno della legalità, o perché vi è un abuso delle leggi da parte del governo in carica o perché viene messa in dubbio o contestata l’autorità della loro fonte».
Perché è proprio questo il punto. Il «discorso» in Val di Susa è finito, o si è fatto di tutto per farlo tacere, nel momento stesso in cui dinanzi a una comunità che (a torto o a ragione) si difende, come ha spiegato il sociologo Marco Revelli, e si difende pacificamente, con marce, fiaccolate, presìdi, con una resistenza passiva, dunque, che coinvolge intere comunità montane di migliaia di persone, con in testa i sindaci,il governo nazionale risponde con ottusità, violenza: imponenti dispiegamenti di forze dell’ordine, ruspe, lacrimogeni… O con la logica dei contentini: un tavolo di confronto come L’Osservatorio presieduto da chi ha tutto l’interesse a difendere le ragioni delle aziende coinvolte a vario titolo nel progetto, escludendo la maggior parte dei sindaci No Tav.
Il «discorso è finito», come sempre finisce – e come dimostra il prevalere a un certo punto di azioni violente antecedenti oltretutto le parole di De Luca (cui dunque si dovrebbe attribuire il dono di una forza di persuasione retroattiva …) –, quando la politica non è più in grado di comprendere le ragioni di intere realtà, non ha più l’autorevolezza per chiedere fiducia, persuadere, e dunque fa ricorso alla forza.
Certo che fa paura la parola di Erri De Luca, e non perché letteralmente istigatrice di atti violenti, ma perché la difesa di posizioni No Tav espressa da un intellettuale dà peso specifico, rilevanza, riporta sul piano del «discorso»posizioni che si vorrebbero liquidare semplicemente come forme di eversione, come espressione di quattro teste calde armate di cesoie, pietre o molotov… E questo, mentre i fatti sinora accaduti inchiodano la politica alle proprie responsabilità, alla scelta di una linea repressiva del tutto ottusa in un contesto come quello delle proteste della Val di Susa.
La colpa dunque di Erri De Luca è di riaver aperto un varco al «discorso», per quanto duro, oppositivo, e a suo modo scandaloso. E condannare uno scrittore per le sue parole e, in particolare, per «il peso specifico rilevante delle sue parole» significa, di fatto, dare ragione a chi non crede più nelle parole, ma crede piuttosto nel sabotaggio muto delle azioni violente.
Non ritengo che in questa vicenda ci sia soltanto in gioco la libertà di espressione. Qui c’è in gioco qualcosa che ha a che vedere con la natura di questo Paese, i confini del diritto e dell’espressione del dissenso,confini troppe volte impunemente violati, e con violenza inaudita proprio da parte delle istituzioni e delle forze dell’ordine.Qui c’è in ballo qualcosa che ha a che vedere, ancora una volta, con la verifica su che razza di Paese è quello in cui ci troviamo.
Ed è sintomatico il fatto che il pm Rinaudo abbia evocato a difesa delle proprie ragioni il serpente istigatore dell’Antico Testamento, non tenendo conto, o tenendo ben conto, del fatto che lì la Legge che s’istigava a violare era una Legge divina, assoluta, insindacabile, brutale, no la legge di uno stato di diritto.
«Comunque vada il caso giudiziario, ho potuto spiegare le mie ragioni», dice Erri De Luca. E basterebbe solo questa frase per comprendere la dimensione abnorme, assurda, se non grottesca, di questo processo a parole che possono suscitare un forte dissenso, ma attengono a quell’ordine del «discorso» che segna sempre il confine tra la civiltà e la violenza muta.

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